Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di Fame di Roxane Gay, romanzo edito il 6 marzo 2018 da Einaudi con un prezzo di copertina di 17,50 euro (9,99 euro per l’ebook). [Read more…]
L’amante silenzioso di Clara Sanchez: trama e anteprima
La trama di L'amante silenzioso di Clara Sanchez e un estratto dal libro
Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di L’amante silenzioso di Clara Sanchez, romanzo edito l’8 marzo 2018 da Garzanti con un prezzo di copertina di 18,90 euro (9,99 euro per l’ebook). [Read more…]
La forma dell’acqua: tutto sul libro
Il libro La forma dell'acqua: trama, dati ed estratto dal testo
Il romanzo che ha ispirato il film La forma dell’acqua è edito in Italia da Tre60. Vediamo il riassunto della trama del libro di Daniel Kraus e Guillermo Del Toro e un ampio estratto dal testo.
La forma dell’acqua: trama del libro
Baltimora, 1962. Al Centro di Ricerca Aerospaziale di Occam è stata appena consegnata la «risorsa» più delicata e preziosa che abbia mai ricevuto: un uomo anfibio, catturato in Amazzonia. Il suo arrivo segna anche l’inizio di un commovente rapporto tra la singolare creatura ed Elisa, una donna muta che lavora al centro come addetta alle pulizie e usa il linguaggio dei segni per comunicare.
Immaginazione, paura e romanticismo si mescolano in una storia d’amore avvincente, arricchita dalle illustrazioni di James Jean e destinata a conquistare lettori e spettatori. La forma dell’acqua – The Shape of Water è una storia diversa da qualsiasi cosa abbiamo letto o visto finora. Una storia unica, creata e interpretata da due artisti capaci di farci sognare in ugual misura con un libro e con un film, con le parole e con le immagini.
Strickland non vede l’ora che sia finita. È l’ultima missione che svolge per il generale Hoyt. Ne è sicuro. Le cose che ha fatto in Corea sotto il suo comando lo hanno incatenato a lui per dodici anni. La loro relazione è una forma di ricatto, e Strickland vuole scrollarsela di dosso. Quella missione è la più importante di sempre, e se riesce avrà finalmente un gruzzolo sufficiente per presentargli le dimissioni. A quel punto potrà ritornarsene a casa, a Orlando, da Lainie e dai suoi ragazzi, Timmy e Tammy. Potrà essere il padre e il marito che il lavoro sporco di Hoyt non gli ha mai permesso di essere. Un uomo nuovo. Un uomo libero.
Abbassa di nuovo gli occhi sul rapporto. L’impostazione mentale è quella solita, brutale, dei militari. Quei poveri stronzi di sudamericani. Le cause della loro povertà non sono i loro metodi agricoli da subnormali, no, certo che no, è un dio branchia adirato per il modo in cui trattano la giungla. La pagina è macchiata per via di un gocciolio nell’abitacolo, così se la tampona sui pantaloni. Secondo le forze armate americane, a quanto c’è scritto, le caratteristiche del Deus Brânquia hanno importanti applicazioni militari. Il suo compito è quello di perorare gli «interessi degli Stati Uniti» e tenere l’equipaggio «motivato», per dirla con le parole di Hoyt. Strickland conosce per filo e per segno le teorie di Hoyt sulla «motivazione».
Deve pensare a Lainie. O meglio ancora, visto ciò che potrebbe trovarsi a dover fare, non pensarci affatto.
Il turpiloquio del pilota portoghese è giustificato. L’atterraggio è un incubo. La pista di atterraggio è letteralmente intagliata in mezzo alla giungla più fitta. Strickland si allontana barcollando dal velivolo e si accorge subito che il caldo è palpabile, visibile. Sembra un livido che galleggia in aria. Un colombiano con indosso una maglietta dei Brooklyn Dodgers e pantaloncini hawaiani lo chiama con un gesto verso il suo furgone. Una bambina seduta dentro il rimorchio gli tira in testa una banana, ma Strickland è troppo nauseato per reagire. Il colombiano lo accompagna in città, ovvero tre, quattro isolati quadrangolari formati di carretti di frutta scricchiolanti con le ruote di legno e circondati da bambini scalzi con le pance gonfie. Strickland si aggira per i negozietti e compra a istinto: un accendino, un insetticida, sacchetti di plastica sigillabili, talco per i piedi. Il bancone su cui fa scivolare i pesos trasuda lacrime di umidità.
Sull’aereo ha studiato una frase nella loro lingua: «Você viu Deus Brânquia?»
I commercianti ridacchiano e si toccano la gola con le mani. Strickland non ha nessuna cazzo di idea del perché. Quella gente ha un odore pungente e metallico, come bestiame macellato di fresco. Si allontana lungo una strada bitumata che gli si squaglia sotto le scarpe e scorge un ratto smunto all’osso che si dibatte nel fango scuro. Sta morendo, e lentamente. Le sue ossa sbiancheranno e affonderanno nel catrame. Quella è la strada più bella che Strickland vedrà per un anno e mezzo.
2.
La sveglia scuote il comodino. Senza nemmeno aprire gli occhi, Elisa cerca con la mano il bottone ghiacciato sulla parte superiore. Emerge or ora da un sogno profondo, soffice e tiepido; e lo rivuole indietro, anche solo per un minuto tentatore. Ma il sogno si dissipa nella veglia e non si fa rincorrere, è sempre così. C’era acqua, acqua scura… Questo lo ricorda. Tonnellate d’acqua che la schiacciavano, ma lei non affogava. Anzi, dentro quell’acqua respirava meglio di come respira ora, nella vita reale, da sveglia, in queste stanze piene di spifferi, con questo cibo da due soldi, e con la corrente che va e viene.
Il suono delle tube erompe dabbasso e una donna grida. Elisa sospira contro il cuscino. È venerdì, il primo giorno di proiezioni del nuovo film della programmazione settimanale dell’Arcade, il cinema aperto giorno e notte al piano di sotto, e questo significa nuovi dialoghi, nuovi effetti sonori e attacchi musicali che lei dovrà integrare nei suoi rituali del risveglio, se vuole evitare colpi apoplettici e continui infarti. Ora è il turno delle trombe; ora già non più, ora sono masse di uomini che urlano. Elisa apre gli occhi, prima sull’orologio, che indica le dieci e mezzo di sera, e poi sulle lame di luce del proiettore che filtrano tra le assi del pavimento, accendendo i gomitoli di polvere di sfumature technicolor.
Si siede e stringe le spalle per il freddo. Perché l’aria odora di cioccolato? Lo strano odore è accompagnato da un rumore fastidioso: un camion dei pompieri a nord-est di Patterson Park. Elisa cala i piedi sul pavimento freddo e osserva la luce del proiettore piroettare e sfavillare. Quantomeno questo nuovo film è più luminoso del precedente, una pellicola in bianco e nero intitolata Carnival of Souls, e i colori vividi che sgorgano dal pavimento tra i suoi piedi quasi le concedono di scivolare di nuovo nel limbo onirico: ora è ricca, ricchissima, e una schiera di venditori dai modi servili e compiacenti le sta proponendo una grande varietà di scarpe variopinte. Ma lei è decisamente incantevole, signorina. Con un paio di scarpe come questo conquisterà il mondo.
E invece è proprio il mondo ad avere conquistato lei. Non esiste quantità di ninnoli comprati per due spiccioli dagli svuotacantine e appesi ai muri in grado di nascondere il legno sgranocchiato dalle termiti o di distrarla dagli insetti che schizzano a nascondersi non appena accende la luce. Lei sceglie di non farci caso. È la sua unica speranza di arrivare fino a sera, al giorno seguente, alla vita che verrà. Si sposta nel cucinotto, imposta il timer, immerge tre uova in un pentolino d’acqua e va in bagno. Elisa fa solo il bagno nella vasca, mai la doccia. Si leva di dosso la camicia da notte mentre l’acqua scorre. Le sue colleghe di lavoro lasciano riviste femminili sui tavolini della mensa, e ormai sono innumerevoli gli articoli che hanno informato Elisa su quali specifici centimetri quadrati del suo corpo siano degni beneficiari delle sue ossessioni. Fianchi e seno, però, non possono nemmeno essere messi a paragone con le cicatrici cheloidee gonfie e rosee che ha su entrambi i lati del collo. Si piega in avanti finché la spalla nuda non tocca il vetro. Ogni cicatrice è lunga quasi otto centimetri e si snoda dalla giugulare alla laringe. Da lontano, la sirena si avvicina. Elisa vive a Baltimora, da trentatré anni, da quando è nata; quindi è perfettamente in grado di localizzare il rumore del camion dei pompieri, che al momento sta percorrendo la Broadway. Anche quelle cicatrici sul collo non sono forse una cartina stradale, una mappa? Posti in cui è stata e di cui è meglio scordarsi?
Affondare le orecchie sotto il pelo dell’acqua della vasca amplifica i rumori del cinema. Morire per Chemosh vuol dire vivere in eterno! grida una ragazza nel film. Elisa non ha idea se ha sentito bene.
Si fa scivolare una scheggia di sapone tra le mani, godendosi la sensazione di essere più umida dell’acqua, talmente scivolosa che può fendere i liquidi come un pesce. Le tracce di piacere del sogno appena concluso le si sdraiano addosso, pesanti come il corpo di un uomo. Il contraccolpo erotico è immediato e travolgente; Elisa fa scivolare le dita insaponate tra le cosce. In passato ha frequentato persone, ha fatto sesso, ha fatto tutte le esperienze che doveva fare. Ma ormai sono passati anni. Quando gli uomini incontrano una donna muta, si approfittano di lei. Mai, neppure una volta, gli uomini con cui era uscita avevano provato a comunicare davvero. Si erano limitati ad afferrare e a strappare come se lei, creatura senza voce come un animale, fosse davvero un animale. Questo qui invece è meglio. L’uomo del sogno, per immaginario che sia, è meglio.
Ecco però che il timer, quell’infernale rompiscatole, tin-tin-tintinna. Elisa balbetta, imbarazzata come se non fosse sola in casa, e si alza, con gli arti ancora lucenti e gocciolanti. Si avvolge nell’accappatoio e, tremando, ritorna con passo felpato in cucina, dove spegne il fornello e accoglie la notizia funesta: sono le 23.07. Come ha fatto a perdere tutto quel tempo?
Si strizza dentro un reggiseno preso a caso, si abbottona dentro una camicetta a caso e si alliscia una gonna a caso. Si era sentita rabbiosamente viva in sogno, ora invece è inerte come le uova che si stanno raffreddando nel piatto. C’è uno specchio anche lì, in camera da letto, ma lei sceglie di non guardarlo, nell’eventualità che il suo sospetto sia fondato e che lei sia diventata invisibile.
forma_acqua_fregio
3
Non appena Strickland trova il battello, un quindici metri, nel luogo previsto, prende dalla tasca il suo nuovo accendino e riduce in cenere il rapporto di Hoyt, come da procedura standard. Adesso è evidenziato in nero tutto quanto, pensa, non solo le parti censurate. Come tutto ciò che lo circonda, anche la barca è un insulto ai suoi standard militari. È immondizia inchiodata ad altra immondizia. La ciminiera è rattoppata con lamine di stagno. Gli pneumatici sopra le murate sembrano sgonfi. Un lenzuolo tirato fra quattro pali fornisce l’unica ombra di tutta l’imbarcazione. Farà caldo, ma questo va bene. Aiuterà a bruciare i pensieri infestanti su Lainie, sulla loro casa fresca e pulita, sui sussurri delle palme della Florida. Gli farà bollire il cervello nel genere di furore che una missione del genere richiede.
Acqua marrone e putrida spruzza tra le doghe del molo. Alcuni membri dell’equipaggio sono bianchi, alcuni sono scuri, altri sono rosso mattone. Alcuni hanno il corpo pitturato e la pelle bucata da piercing. Tutti trascinano casse umide lungo un’asse che si piega sotto il peso con effetto drammatico. Strickland li segue e raggiunge lo scafo su cui è scritto il nome Josefina. Piccoli oblò suggeriscono la presenza di un ponte di comando a dir poco raffazzonato, grande abbastanza da ospitare unicamente il capitano. La sola parola capitano lo irrita a morte. Lì l’unico capitano è Hoyt, e Strickland è il suo vice. Non è dell’umore adatto ad affrontare qualche barcaiolo deficiente convinto di essere al comando. Rintraccia subito il capitano, un messicano occhialuto con la barba bianca, la camicia bianca, i pantaloni bianchi e un cappello di paglia bianco che sta firmando le liste di carico con gesti fin troppo plateali. L’uomo grida «Signor Strickland!», e lui si sente come trasportato dentro una di quelle scene dei Looney Tunes, quei cartoni animati che guarda il figlio: «Señor Striiiicland!» Mentre ancora stava sorvolando i cieli di Haiti, era riuscito a mandare a memoria il nome di quell’uomo: Raúl Romo Zavala Henríquez. Adattissimo, visto che comincia bene e subito sbraca nella pomposità.
«Guarda! Escoces e puros cubanos, amico mio, tutti per te.» Henríquez gli allunga un sigaro, se ne accende uno a sua volta e riempie due bicchieri. Strickland è stato addestrato a non bere in servizio, ma concede a Henríquez il brindisi che tanto desidera. «A la aventura magnífica!» Bevono, e Strickland ammette tra sé che è una bella sensazione. Tutto pur di ignorare, almeno per un po’, l’ombra lunga del generale Hoyt e ciò che comporterebbe per il suo futuro se fallisse nel «motivare» Henríquez al punto giusto. Per la durata del brindisi, il calore delle sue budella arriva a sfidare quello della giungla. Henríquez è un uomo che ha evidentemente passato troppo tempo a fare anelli di fumo: sono tutti perfetti. «Fuma, bevi, divertiti! È il massimo del lusso che ti spetta per un bel po’ di tempo. È bene che non sei arrivato in ritardo, signor Strickland. Josefina è impaziente di partire. Lei è come l’Amazzonia, non aspetta nessuno.» A Strickland non piace il sottotesto. Mette giù il bicchiere e lo fissa. Henríquez ride e batte le mani. «Giusto, giusto. Uomini come noi, pionieri del Sertão, non tradiscono la propria eccitazione. Los brasileños hanno una parola nobile per noialtri: sertanista. Ha un bel suono, no? Non ti scalda il sangue nelle vene?» Henríquez racconta poi con frustrante dovizia di particolari il suo viaggio verso un avamposto dell’Instituto de Biología Marítima. Sostiene di aver visto – e toccato con le sue manos! – fossili calcarei che corrispondono alla descrizione del Deus Brânquia. Gli scienziati hanno datato i reperti e a quanto pare appartengono al periodo devoniano, che, lo sapevi señor Striiicland?, appartiene all’era paleozoica. Questo, declama Henríquez, è ciò che attira uomini come loro verso l’Amazzonia. È il luogo in cui la vita primordiale continua ancora a prosperare, in cui l’uomo può stracciare il calendario e toccare l’intoccabile.
Strickland si tiene la sua domanda per un’ora. «Ti è arrivato il contratto? L’hai letto?»
Henríquez spegne il suo sigaro e strizza lo sguardo fuori dell’oblò. Là fuori vede qualcosa di cui sorridere e fa un gesto pomposo. «Vedi quei tatuaggi in faccia? Quei piercing di legno nel naso? Questi non sono indiani augh come i vostri, non sono addomesticati. Questi sono indios bravos. Conoscono ogni chilometro di foresta amazzonica, da Negro-Branco a Xingu, ce l’hanno nel sangue. Sono originari di quattro tribù diverse. E io sono riuscito ad assicurarmi i loro servizi di guide! Signor Strickland, è impossibile che questa spedizione si smarrisca.»
Strickland ripete: «Hai ricevuto il contratto?»
Henríquez si sventola con la tesa del cappello. «I tuoi americani mi hanno mandato per posta il ciclostilato. Molto bene. La nostra expedição científica seguirà quelle lineette tremule finché sarà possibile. Da lì, mio caro, procederemo a piedi! Individueremo i vestigios, ovvero ciò che resta delle antiche tribù. Queste persone hanno sofferto le conseguenze dell’industrializzazione più di quanto si possa immaginare. La giungla ingoia le loro grida. Noi, però, veniamo in pace. Offriremo doni. Se il Deus Brânquia esiste, saranno loro a dirci dove trovarlo.»
Attenendosi al lessico del generale Hoyt, si può dire che il capitano è motivato, e questo Strickland non ha difficoltà a concederglielo. Ma ci sono anche segnali preoccupanti. Se Strickland ha imparato qualcosa sulle terre selvagge, è che ti lasciano segni dentro e fuori. E in luoghi del genere non ci si veste mai di bianco, a meno che non si sappia bene in cosa diavolo ci si sta imbarcando.
Per altre informazioni sul coautore dell’opera, Daniel Kraus, rimandiamo alla pagina di Wikipedia a lui dedicata.
Nome d’arte Doris Brilli: trama del libro di Andrea Vitali
La trama di Nome d'arte Doris Brilli di Andrea Vitali e un estratto dal romanzo
Ecco la trama di Nome d’arte Doris Brilli, il romanzo di Andrea Vitali con protagonista il maresciallo Maccadò, nonché un’ampia anteprima dal primo capitolo del libro.
Nome d’arte Doris Brilli: trama del libro
La notte del 6 maggio 1928, i carabinieri di Porta Ticinese a Milano fermano due persone per schiamazzi notturni e rissa. Uno è un trentacinquenne, studente universitario provvisto di tesserino da giornalista. Interrogato, snocciola una lista di conoscenze che arriva fino al direttore del «Popolo d’Italia», quel Mussolini fratello di…, per accreditare la sua versione, ovvero che è stato fatto oggetto di adescamento indesiderato.
L’altra è una bella ragazza che, naturalmente, sostiene il contrario. Ma amicizie per farsi rispettare non ne ha, e soprattutto non ha con sé i documenti, per cui devono crederle sulla parola circa l’identità e la provenienza: Desolina Berilli, in arte, essendo cantante e ballerina, Doris Brilli, di Bellano.
E dunque, la mattina dopo, la ragazza viene scortata al paese natio. Che se ne occupi il nuovo comandante, tale Ernesto Maccadò, giovane maresciallo di origini calabresi giunto sulle sponde del lago di Como da pochi mesi. E lui, il Maccadò, turbato per il clima infausto che ha spento l’allegria sul volto della fresca sposa Maristella, coglie al volo l’occasione per fare il suo mestiere, ignaro delle complicazioni e delle implicazioni che il caso Doris Brilli è potenzialmente in grado di scatenare.
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZONAlle ore sette e quarantacinque della mattina del 7 maggio 1928, il più vicino al telefono della caserma dei carabinieri di Bellano era l’appuntato Misfatti.
Il carabiniere Beola stava ramazzando la camera di sicurezza, il brigadiere Sciannino era assente per una licenza e il maresciallo Ernesto Maccadò non era ancora arrivato.
Quindi rispose lui.
«Carabinieri Bellano, appuntato Misfatti.»
«Ué, Misfa’!» risuonò all’altro capo del filo.
Misfa’?
«Perdonate, ma chi parla?» chiese l’appuntato, voce e mimica scocciate.
«Toscanelli.»
«Toscanelli?»
«Appuntato Toscanelli. Non ti ricordi?»
Pochi secondi, la nebbia si disperse.
«Aaah!» fece il Misfatti mentre l’altro rideva sguaiato e singultando.
Adesso ricordava.
Ma non ci trovava proprio niente da ridere.
5 giugno 1926, festa dell’Arma, messa a Lecco e successivo pranzo presso la trattoria Del Gozzo.
Il Misfatti vi aveva preso parte in rappresentanza della caserma bellanese e a tavola s’era trovato faccia a faccia con quel Toscanelli, chiacchieratore e barzellettiere di conio che non aveva lasciato scampo ai commensali intorno a lui, liberi solo di unirsi nei brindisi alla salute dell’Arma, che erano stati numerosi.
Numerosissimi a dire il vero.
A un certo punto il Misfatti aveva davanti a sé due Toscanelli, uno verso destra, l’altro verso sinistra, senza la possibilità di capire quale fosse quello vero. Pure le chiacchiere del Toscanelli, tetragono agli effetti di vino, grappa e compagnia bella, erano diventate puro suono di voce fino al momento in cui il sonno s’era abbattuto sul povero appuntato, di solito quasi astemio.
Onde evitare che il collega prendesse la via di casa in quelle condizioni, il Toscanelli aveva ottenuto dal padrone della trattoria che gli mettesse a disposizione una branda. Il Misfatti s’era lasciato convincere e aveva dormito per oltre tre ore. Si era svegliato solo alle sei di sera, di nuovo sobrio seppur confuso e prevedendo disastri poiché immaginava quello che l’attendeva, avendo promesso alla moglie che, massimo alle tre, sarebbe stato di ritorno e poi l’avrebbe accompagnata dal fioraio Assimori per acquistare piante onde abbellire le finestre di casa al pari delle coinquiline.
La signora Misfatti l’aveva atteso invano e allo scadere dell’accademico ritardo era volata in caserma facendo il diavolo a quattro e a otto, se possibile.
Dopo che una telefonata alla trattoria Del Gozzo, cui aveva risposto un inserviente di nulla informato, aveva chiarito che di convenuti al pranzo dell’Arma non c’era più traccia, l’allora comandante maresciallo Giunti aveva risposto alla Misfatti allargando le braccia.
«Arriverà.»
Facile profezia, l’appuntato Misfatti era tornato, ma alle otto di sera, sbattuto come un uovo. A capo chino aveva subìto l’inevitabile punizione, una tempesta di improperi cui era seguita una calma piatta, in pratica musi, silenzi ostinati, pasti conventuali e insipidi per circa tre settimane.
Il Misfatti si ricordava, di lui e di quella giornata, ma era cosa sulla quale non tornava volentieri.
Quindi allungò il passo.
«Che c’è?» chiese secco.
«Hai presente una certa Desolina Berilli?» fece il Toscanelli in risposta.
Doris Brilli!, scattò nella mente del Misfatti.
Certo che la conosceva.
«Come no!» rispose.
«Ecco, da ieri notte è nostra ospite», comunicò il collega.
Ospite, dove?
E cosa diavolo aveva combinato?
«Faccenda un po’ lunga», disse il Toscanelli. «Se sei in piedi», aggiunse, «meglio se ti siedi.»
2.
In divisa, seduto sul bordo del letto, il maresciallo Ernesto Maccadò guardava il viso di sua moglie Maristella.
Prima però aveva dato un’occhiata al tempo ed era tornato in camera da letto scuotendo il capo. Avrebbe preferito scuotere la donna per svegliarla e dirle che nel cielo sopra quel paese splendevano non uno ma due soli. Invece aveva preso nota dell’ennesima tinta grigiastra, un cielo non nuvoloso ma offuscato come se ci fosse fumo, un fumo di nuvole.
Maristella dormiva oppure fingeva?
Sospirò, si alzò e si avviò per uscire riflettendo che tra le tante difficoltà prese in considerazione prima di giungere in quel paese mai aveva pensato al tempo meteorologico che invece, tra i nemici, si stava rivelando il più viscido, il più vigliacco, colpendolo nella persona di sua moglie.
Vittima silenziosa, Maristella, obbediente al dettato di seguire il marito nella buona e nella cattiva sorte e anche all’obbligo di eseguire gli ordini dell’Arma.
Così era andata.
Promosso maresciallo, al Maccadò era giunta la comunicazione del suo primo comando.
Bellano, lago di Como.
Da che erano giunti lì, alla fine dell’anno precedente, non avevano fatto altro che vivere dentro un mondo di freddo, ghiaccio, neve, vento, piogge e umidità.
Anche un po’ di sole, certo.
Mezza giornata qui, mezza giornata là.
La donna, che veniva anche lei da una campagna calabra dove un paio di giornate nuvolose, anche senza pioggia, erano considerate quasi un miracolo, aveva reagito con uno stupore attonito alle nuove condizioni, quasi non ci credesse. Giusto poche sere prima, subito dopo un temporale che aveva cancellato una timida temperatura, se n’era uscita con una domanda sconcertante, chiamandolo con il diminutivo che usava solo quando erano soli.
«Dici che prima o poi il sole arriva anche qui, Né?»
Parlava del sole come fosse una merce che scarseggiava nei negozi.
E il Maccadò s’era convinto del tutto che, avanti di quel passo, la sua fresca sposa avrebbe potuto alzare bandiera bianca, perdendo allegria, vitalità, freschezza, le doti che insieme con la bellezza l’avevano fatto innamorare.
E lui cosa poteva fare?
Ben poco, niente.
Preoccuparsi, ecco.
A tutto danno della lucidità necessaria che gli serviva per svolgere con rigore il lavoro poiché non bisognava dimenticare che era pur sempre un comandante di stazione e non lo consolava il fatto di essere capitato in un posto dove, per quanto poteva giudicare fino a quel momento, sembrava non succedesse molto di che.
Ma, quasi che il destino lo volesse smentire, non appena entrato in caserma l’appuntato Misfatti gli si era fatto incontro per avvisarlo che doveva metterlo al corrente di una grave faccenda riguardante tale Doris Brilli.
Per altre informazioni sull’autore e per la bibliografia completa rimandiamo alla pagina di Wikipedia dedicata adAndrea Vitali.
L’uccello che girava le viti del mondo: riassunto trama ed estratto
Riassunto della trama di L'uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami
L’uccello che girava le viti del mondo è un lungo romanzo di Haruki Murakami, grande scrittore giapponese autore, tra gli altri, di Norwegian Wood – Tokyo Blues, Kafka sulla spiaggia e la recente serie di romanzi 1Q84.
Vediamo insieme il riassunto della trama di L’uccello che girava le viti del mondo e un ampio estratto dall’inizio del libro.
La trama di L’uccello che girava le viti del mondo
“Vorrei dieci minuti del tuo tempo”, disse senza preamboli una voce di donna, lo sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella li però non l’avevo mai sentita”. In un sobborgo di Tokyo il giovane Okada Toru ha appena lasciato volontariamente il suo lavoro e si dedica alle faccende di casa. Due episodi apparentemente insignificanti riescono tuttavia a rovesciare la sua vita tranquilla: la scomparsa del suo gatto e la telefonata anonima di una donna dalla voce sensuale. Toru si accorgerà presto che oltre al gatto, a cui la moglie Kumiko è molto affezionata, dovrà cercare Kumiko stessa.
Lo spazio limitato del suo quotidiano diventerà il teatro di una ricerca in cui sogni, ricordi e realtà si confondono e che lo porterà a incontrare personaggi sempre più strani: dalla prostituta psicotica alla sedicenne morbosa, dal politico diabolico al vecchio e misterioso veterano di guerra. A poco a poco Toru dovrà risolvere i conflitti della sua vita passata di cui nemmeno sospettava l’esistenza. Un romanzo che illumina quelle zone d’ombra in cui ognuno nasconde segreti e fragilità.
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZONe di creature con sei dita e quattro seni
Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza ladra di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, e io l’accompagnavo fischiando. Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. Poteva anche essere un conoscente con qualche nuova proposta di lavoro.
– Vorrei dieci minuti del tuo tempo, – disse senza preamboli una voce di donna.
Io sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella lí però non l’avevo mai sentita.
– Scusi, con chi desidera parlare? – chiesi educatamente.
– Proprio con te. Dieci minuti, dammi solo dieci minuti del tuo tempo. Vedrai che riusciremo a intenderci perfettamente –. La donna aveva una voce bassa, morbida, elusiva.
– Intenderci?
– Parlo di feeling.
Sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore, Abbado continuava a dirigere la Gazza ladra.
– Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco, non potrebbe chiamare piú tardi?
– Spaghetti? – fece lei in tono sconcertato. – Spaghetti alle dieci e mezzo del mattino?
– Questo non la riguarda. Ho il diritto di mangiare quello che mi pare all’ora che mi pare, – risposi un po’ irritato.
– In effetti, – disse la donna in tono secco e impersonale, molto diverso da prima. L’umore sembrava leggermente cambiato. – Vabbè, non importa, richiamo piú tardi.
– Aspetti un momento, – risposi in fretta. – Se è per vendermi qualcosa, guardi che perde il suo tempo, mi telefonasse anche cento volte. In questo momento non posso permettermi di comprare niente, sono disoccupato, non ho soldi da buttare via.
– Lo so, non ti preoccupare.
– Come sarebbe a dire, lo sa?
– Significa che so benissimo che sei disoccupato. Per cui vai pure a prepararti i tuoi preziosi spaghetti.
– Ma lei, cosa diavolo… – Non feci in tempo a terminare, dall’altra parte avevano sbattuto giú il telefono.
Non sapendo dove sfogare il mio malumore, rimasi per un momento a guardare il ricevitore che tenevo in mano. Poi mi venne in mente la pentola sul fuoco, tornai in cucina, spensi il gas e scolai gli spaghetti. Per colpa della telefonata erano un po’ scotti, non si potevano certo dire al dente. Non erano neanche un disastro totale, però.
Intendersi? pensavo mangiando. In dieci minuti tra di noi si sarebbe dovuto creare un feeling? Ma cosa aveva voluto dire, quella lí? Magari era solo uno scherzo. Oppure una nuova strategia di vendita. Nell’uno e nell’altro caso, non era cosa che mi riguardasse.
Tornai sul divano del soggiorno e mi misi a leggere un romanzo che avevo preso in prestito in biblioteca. Intanto continuavo a gettare occhiate al telefono, domandandomi con un senso di disagio cosa potevano significare le parole di quella donna: «in dieci minuti possiamo intenderci». Cosa potevamo mai capire l’uno dell’altra in dieci minuti? A pensarci bene, lei aveva fissato quel preciso limite di tempo fin dall’inizio. E con grande sicurezza, anche. Poteva darsi che nove minuti fossero troppo pochi e undici troppi. Come il tempo di cottura degli spaghetti.
Intanto quelle riflessioni mi avevano fatto passare la voglia di leggere. Decisi di mettermi a stirare le camicie. Ogni volta che mi trovo in uno stato confusionale, io stiro camicie. Da tempi immemorabili. Eseguo l’operazione in dodici fasi, comincio dal collo (1) e finisco con il polsino della manica sinistra (12). Procedo seguendo sempre lo stesso ordine, e contando le fasi a una a una, altrimenti non ottengo un risultato soddisfacente.
Stirai tre camicie, che appesi ai rispettivi attaccapanni dopo aver controllato che non avessero pieghe. Staccai il ferro dalla presa di corrente e lo riposi insieme all’asse da stiro nell’armadio a muro. Il mio cervello sembrava essersi considerevolmente rischiarato.
Stavo per andare in cucina a bere un bicchier d’acqua, quando squillò nuovamente il telefono. Esitai un attimo. Poi decisi di rispondere, se era ancora quella lí potevo sempre riattaccare con la scusa che stavo stirando, pensai.
Invece era mia moglie Kumiko. Le lancette dell’orologio segnavano le undici e mezza.
– Stai bene? – mi chiese.
– Ho appena finito di stirare.
– È successo qualcosa? – Nella sua voce vibrava una leggera apprensione, lei sa bene che quando sono un po’ fuori fase mi metto a stirare.
– Ho semplicemente stirato delle camicie, non è successo niente di speciale, – risposi sedendomi su una sedia e spostando il ricevitore nella mano destra. – Ma come mai mi hai telefonato?
– Tu scrivi poesie, per caso?
– Poesie? – ripetei sorpreso. Come, poesie? Cosa diavolo voleva dire?
– Uno che conosco lavora in una casa editrice che pubblica una rivista letteraria per ragazzine. Sta cercando una persona che selezioni e corregga le poesie inviate dalle lettrici. Inoltre ogni mese dovresti scrivere una poesiola per la prima pagina. Per essere un lavoretto facile, non è mal pagato. Ovviamente non si tratta di un posto fisso, ma se la cosa funziona può darsi che ti passino anche dei lavori di editing.
– Facile? – risposi io. – Un momento, per favore. Io sto cercando un’attività nel campo della giurisprudenza. Da dove diavolo salta fuori, ’sta storia di correggere poesie?
– Be’, non hai detto che quando eri al liceo scrivevi delle cose?
– Sul giornalino. Sul giornalino della scuola. Commentavo i risultati del torneo di calcio, riferivo che l’insegnante di scienze era caduto per le scale ed era finito all’ospedale… articoli di questo livello, cavolate. Mica poesie. Mica so scrivere poesie, io.
– Sí, ma non è che ti chiedano chissà cosa. Delle poesie che vadano bene per delle liceali. Nessuno ti dice di comporre capolavori che restino nella storia della letteratura, basta che butti giú delle cose come ti vengono. Mi spiego?
– Buttate giú o no, io poesie non ne so scrivere. Non ne ho mai scritte, e non ho l’intenzione di scriverne, – risposi in maniera definitiva. Io scrivere poesie, roba da pazzi!
– Come vuoi, – disse mia moglie in tono di rammarico. – Però un lavoro nel campo della giurisprudenza non è che si trovi cosí, dall’oggi al domani, non ti pare?
– Ho già dei contatti con alcune persone, fra non molto dovrebbero darmi una risposta. Se poi non funziona neanche questo, allora penserò al da farsi.
– Davvero? Vabbè, lasciamo perdere. Senti, ma oggi che giorno è?
– Martedí, – risposi dopo averci riflettuto un po’.
– Allora dovresti andare in banca a pagare le bollette del gas e del telefono.
– Va bene, piú tardi, quando vado a far la spesa per stasera, passo anche in banca.
– Cosa prepari per cena?
– Non ho ancora deciso. Ci penserò dopo aver fatto la spesa.
– Senti… – fece mia moglie col tono di voler ricominciare, – tutto sommato, non è che tu abbia bisogno di trovare lavoro tanto in fretta.– Come sarebbe? – risposi. Questa era un’altra sorpresa, le donne mi telefonavano tutte per darmi delle sorprese, pareva. – Fra non molto non sarò neanche piú in cassa integrazione, mica posso restare indefinitamente a girarmi i pollici tutto il giorno.
– Sí, ma io ho avuto l’aumento e di lavoretti supplementari me ne passano in continuazione. Un po’ di risparmi li abbiamo… Non potremo concederci grandi lussi ma ce la caviamo egregiamente. Ti secca stare a casa e occuparti delle faccende domestiche? La vita che fai ora non ti piace?
– Non lo so, – risposi sinceramente. Era cosí, non lo sapevo.
– Be’, dovresti cercare di pensarci con calma, – disse mia moglie. – A proposito, il gatto è tornato?
A quelle parole mi resi conto che per tutta la mattina quel pensiero non mi aveva neanche sfiorato.
– No, non ancora.
– Perché non provi a cercarlo un po’ nel quartiere? È già da piú di una settimana che è scomparso.
Passai di nuovo il ricevitore nella mano sinistra e risposi che lo avrei fatto.
– Può darsi che sia nel giardino della casa disabitata in fondo al vicolo. Sai, quella dove c’è la statua di pietra di un uccello. L’ho visto entrare non so quante volte, lí dentro.
– Nel vicolo? – feci io. – Ma tu quand’è che ci sei andata, nel vicolo? È la prima volta che ti sento dire…
– Senti, scusa ma devo riattaccare, devo proprio andare. Mi raccomando il gatto!
La telefonata si interruppe. Restai ancora un attimo a guardare il ricevitore, poi lo misi giú.
Cosa diavolo era andata a fare, Kumiko, nel vicolo? Per entrarci bisognava scalare il muro del giardino, che senso c’era a fare una cosa del genere per infilarsi lí dentro?
Andai in cucina a bere un bicchier d’acqua, poi uscii sulla veranda a controllare la ciotola del gatto: era piena, le sardine secche che vi avevo messo la sera prima erano ancora lí, non ne mancava neanche una. Il gatto non era tornato, insomma. Rimasi in piedi nella veranda lasciandomi inondare dai raggi del primo sole d’estate, e guardai il piccolo giardino di casa. Non era uno di quei giardini la cui contemplazione potesse placare lo spirito. Il terreno era sempre umido e nero perché il sole vi batteva soltanto per pochissime ore al giorno, e tutta la vegetazione consisteva in due o tre modestissimi cespugli di ortensie in un angolo. E a me, tanto per cominciare, le ortensie non piacciono. Dagli alberi intorno arrivava costantemente il verso di un uccello, stridente come se qualcuno stesse avvitando qualcosa. Noi lo chiamavamo l’uccello-giraviti. Era stata Kumiko a chiamarlo cosí. Il suo vero nome non lo sapevamo, non sapevamo neanche che aspetto avesse. Ma questo all’uccello-giraviti era indifferente, ogni giorno veniva sugli alberi lí intorno a stringere le viti del nostro piccolo mondo tranquillo.
Forza, andiamo a cercare il gatto, pensai. A me i gatti sono sempre piaciuti, e mi piaceva quello lí in particolare. Sono creature tutt’altro che stupide, e hanno uno stile di vita proprio, se un gatto sparisce è perché vuole andare da qualche parte. Quando ha la pancia vuota ed è stanco, torna. In conclusione, era per Kumiko che dovevo mettermi alla ricerca. Tanto non avevo nulla da fare.
All’inizio di aprile, senza una ragione particolare avevo lasciato lo studio legale dove lavoravo da alcuni anni. Non si poteva neanche dire che quell’impiego non mi piacesse. Certo le mie incombenze non avevano nulla di esaltante, ma lo stipendio non era male, e l’atmosfera amichevole e simpatica.
In una parola, in quello studio fungevo da fattorino specializzato, e dato che sono tutt’altro che un fannullone, penso di non esser restato con le mani in mano. So che suona strano farsi dei complimenti da solo, ma entro i limiti delle mie mansioni avevo un certo talento. Capivo in fretta, agivo prontamente, non facevo storie, e avevo un modo molto realistico di considerare i problemi. Tant’è che quando annunciai che mi volevo licenziare, il vecchio avvocato – cioè il primo dei due titolari dello studio, padre e figlio – mi disse che potevano anche concedermi un piccolo aumento di stipendio.
Finii col licenziarmi ugualmente. Non perché avessi qualche precisa speranza o prospettiva per il mio futuro professionale, ma l’idea di chiudermi di nuovo in casa a preparare l’esame di Stato non mi attirava per niente. Tanto per cominciare, al punto in cui ero non avevo neanche voglia di diventare avvocato. Né avevo l’intenzione di restare indefinitamente in quello studio a fare sempre le stesse cose. Perciò se dovevo smettere quello era il momento, altrimenti la mia vita si sarebbe trascinata e probabilmente conclusa lí dentro. Tra l’altro avevo già trent’anni.
Una sera a cena avevo bruscamente annunciato che volevo lasciare il lavoro.
«Già…» aveva solo commentato Kumiko. Che cosa intendesse, con quel «già…» non mi era chiaro, ma lei non aveva aggiunto altro, e per un po’ era rimasta in silenzio.
Anch’io stavo zitto.
«Se desideri smettere, fai bene a farlo, – aveva detto allora lei. – Si tratta della tua vita. Fai come ti pare». E dopo quelle parole si era concentrata nell’operazione di togliere con i bastoncini le spine del pesce e posarle in un angolo del piatto.
Per la biografia e la bibliografia completa dell’autore rimandiamo alla pagina di Wikipedia dedicata ad Haruki Murakami.
Norvegian Wood: riassunto trama ed estratto
Trama di Norvegian Wood - Tokyo Blues di Haruki Murakami
Norwegian Wood – Tokyo blues è uno dei primi e più noti libri del grande scrittore giapponese Haruki Murakami. Il romanzo segue le vicissitudini del giovane Toru, diviso tra due ragazze e tormentato da pensieri solitari… Vediamo insieme il riassunto della trama di Norwegian Wood e un lungo estratto dal primo capitolo del libro. [Read more…]
Una cosa divertente che non farò mai più: riassunto trama ed estratto
La trama di Una cosa divertente che non farò mai più di David Forster Wallace
Una cosa divertente che non farò mai più è un divertentissimo libro del geniale David Forster Wallace, che ci racconta cosa vuol dire imbarcarsi in una crociera extralusso ai caraibi, un’esperienza che, ovviamente, diventa assolutamente unica grazie alla voce narrante dell’autore di Infinite Jest. Vediamo insieme il riassunto della trama di Una cosa divertente che non farò mai più e un ampio estratto dal primo capitolo del libro. [Read more…]
La scopa del sistema: riassunto trama ed estratto
Trama di La scopa del sistema di David Forster Wallace e ampia anteprima dal testo
La scopa del sistema è il primo romanzo di David Forster Wallace, uno degli autori più importanti della contemporaneità. Il testo presenta già l’inconfondibile prosa che con Infinite Jest avrebbe raggiunto il suo apice, e inoltre, come il gigantesco romanzo più famoso di Forster Wallace, presenta personaggi stralunati e perturbanti e una trama intricata e ricca di risvolti bizzarri. Vediamo il riassunto della trama di La scopa del sistema e un’ampia anteprima dall’inizio del romanzo.
La scopa del sistema: trama del libro
Le avventure di Lenore, che si mette alla ricerca della bisnonna, antica studiosa di Wittgenstein, fuggita dalla sua casa di riposo insieme a venticinque tra coetanei e infermieri; del fratello LaVache, piccolo genio con una passione smodata per la marijuana; del pappagallo di famiglia, Vlad l’Impalatore, che recita sermoni cristiani su una Tv via cavo; di Norman Bombardini, re dell’ingegneria genetica, che si ingozza di cibo e sogna di ingurgitare il mondo intero; di Rick Vigorous, il capo e l’amante di Lenore, negazione vivente del suo stesso cognome. Una galleria di personaggi uno più esilarante e paradossale dell’altro, sullo sfondo di un’America impazzita, grottesca, più vera del vero. Scritto a ventiquattro anni nel 1987, questo è il romanzo che ha rivelato al mondo la nascita di un talento e di una figura di culto e – come sottolinea Stefano Bartezzaghi nell’introduzione – “è probabilmente per questo che la notizia del suo suicidio ha percosso i suoi lettori con la forza di uno staffilante dolore personale, diretto: cosa avesse in testa quell’uomo non era più una questione letteraria, era diventata una questione esistenziale senza vie di scampo. E in tanti ci si è chiesti quando sarà possibile tornare a leggere le sue opere senza pensarci, senza dare troppo peso ai presagi di cui ora sembrano pullulare”.
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZON1981
Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti, e Mindy Metalman non fa eccezione, pensa Lenore, all’improvviso. Sono piatti e lunghi, con le dita strombate e i mignoli afflitti da bottoni di una callosità giallognola che riappare a mo’ di battiscopa lungo i calcagni, e sul dosso dei piedi sbucano peluzzi neri arricciati, e lo smalto rosso è screpolato e si scrosta a boccoli per quant’è vecchio, mostrando qua e là striature bianchicce. Lenore se ne accorge solo perché Mindy si è chinata in avanti sulla sedia accanto al minifrigo per staccare dalle unghie dei piedi appunto un paio di fiocchi di smalto; i lembi dell’accappatoio si dischiudono su un generoso scorcio di scollatura, decisamente piú sostanziosa di quella di Lenore, e lo spesso asciugamano bianco che cinge la chioma zuppa e shampizzata di Mindy si è allentato e una ciocca di capelli scuri è sgusciata tra le pieghe e scende leggiadra incorniciandole la guancia fin sul mento. Nella stanza c’è odore di shampoo Flex, ma anche di canne, poiché Clarice e Sue Shaw si stanno facendo uno spino bello grosso che Lenore ha ricevuto in dono da Ed Creamer alla Shaker School e ha portato qui al college insieme ad altra roba per Clarice.
Il fatto è che Lenore Beadsman, che ha quindici anni, è appena arrivata da casa dei suoi a Shaker Heights, Ohio, a due passi da Cleveland, per far visita alla sorella maggiore, Clarice Beadsman, che è matricola qui al college femminile Mount Holyoke; Lenore, dunque, con annesso sacco a pelo, si trova in una stanza al secondo piano del dormitorio della Rumpus Hall, cioè dove Clarice alloggia con le compagne di corso Mindy Metalman e Sue Shaw. In effetti Lenore sarebbe venuta anche per dare tipo un’occhiata al college. Infatti, benché abbia ancora soltanto quindici anni, è ritenuta molto intelligente e quindi avanti rispetto alle altre, tant’è che è già all’ultimo anno di Shaker School e appunto comincia a pensare al college da scegliere per l’anno prossimo. Perciò è venuta in visita. Siamo in marzo, ed è venerdí sera.
Sue Shaw, nient’affatto carina come Mindy e Clarice, viene a portare la canna a Mindy e Lenore, e Mindy prende la canna e per una frazione di secondo lascia in pace il piede e dà un tiro pazzesco che fa incendiare la brace mentre un seme schioppa sonoramente e fiocchi di carta incenerita si staccano in volo, cosa che Clarice e Sue trovano estremamente comica, e infatti ululano e si dànno delle gran pacche sulla schiena, e Mindy trangugia il fumo e lo trattiene e passa lo spino a Lenore, ma Lenore dice no grazie.
– No grazie, – dice Lenore.– Dài… l’hai portato tu, perché non… – gracchia Mindy Metalman cercando di non farsi sfuggire il fumo e perciò parlando come parla la gente quando trattiene il respiro.
– Lo so, ma per ora a scuola ci sono le gare e io sono in squadra e in periodo di gare evito di fumare, perché se fumo mi blocco, – dice Lenore.
Sicché Mindy scrolla le spalle e finalmente esala una gran fiatata di pallido fumo usato e tossisce una tosse da nulla e si alza con la canna e attraversa la stanza per portarla a Clarice e a Sue Shaw, che sono sedute accanto a una grossa cassa dello stereo e stanno riascoltando tipo per la decima volta di fila una canzone di Cat Stevens. A questo punto l’accappatoio di Mindy è quasi completamente aperto e rivela uno scenario che Lenore giudica decisamente impressionante, anche se poi Mindy si muove come se non fosse roba sua. Questo non fa che confermare in Lenore l’idea che le ragazze che conosce si possono nettamente dividere in ragazze che dentro di sé si credono carine e ragazze che dentro di sé non si credono carine. Le ragazze che si credono carine non fanno caso se gli si apre l’accappatoio, e sanno truccarsi, e amano sentirsi guardate quando camminano, e se in giro ci sono dei maschi adottano un atteggiamento tutto particolare; invece le ragazze come Lenore, che non si sentono particolarmente carine, tendono a non truccarsi, e fanno atletica, e calzano Converse nere, e l’accappatoio se lo tengono sempre bello annodato. Comunque Mindy è proprio carina, a parte i piedi.
La canzone di Cat Stevens è finita un’altra volta, e il braccio del giradischi si solleva automaticamente, e ovviamente nessuna delle tre ha granché voglia di alzarsi per andare fino al giradischi e rimettere il disco, sicché se ne restano sedute sulle rispettive sedie di legno: Mindy col suo accappatoio rosa sbiadito da cui adesso occhieggia una lustra e liscia gamba tutta nuda; Clarice con le sue Desert Boots e quei jeans blu scuro che Lenore chiama jeans-a-calzascarpe, e quella camicetta bianca western che indossava alla fiera la volta che le rubarono la borsa, e i biondi capelli che le inondano la camicetta, e gli occhi che adesso sono di un blu parecchio intenso; Sue Shaw coi suoi capelli rossi e una felpa verde e una gonna scozzese sul verde e grasse gambe bianche con un grosso brufolo rosso stampato in pieno ginocchio, gambe accavallate, con un piede da cui ciondola una di quelle orrende scarpe da barca con la suola bianca – un tipo di scarpe che a Lenore non piace proprio per niente.
Dopo un attimo di calma Clarice fa un lungo sospiro e dice, a voce bassissima: – Cat… è… Dio, – ridacchiando un po’ sul finire. Le altre due ridacchiano anche loro.
– Dio? E come fa a essere Dio? Cat esiste –. Gli occhi di Mindy sono tutti rossi.
– Hai detto una cosa irriverente e assolutamente blasfena, – dice Sue Shaw, occhi sbarrati e gonfi e indignati.
– Blasfena? – geme Clarice, e guarda Lenore. – Blasfema, – dice. I suoi occhi sono a posto, a parte un’allegria inconsueta, come se contenessero un segreto buffo.
– Blasferma, – dice Mindy.
– Blasfamosa.
– Blastema.
– Bluffema.
– Bluastra.
– Bluastosterone.
– Bucefalo.
– Barney Rubble.
– Baba Yaga.
– Bolscevico.
– Blasfena!
Stanno schiattando, piegate in due, e Lenore ride con quella stramba risata di solidarietà che viene quando intorno a te ridono tutti quanti e ridono talmente tanto da far venire da ridere pure a te. Il baccano della gran festa al piano di sotto filtra dal pavimento e nelle suole delle scarpe di Lenore e su fin nei braccioli della sedia. Adesso Mindy scivola via dalla sedia e arranca fino ad abbattersi sul sacco a pelo di Lenore steso sul pavimento accanto al tappeto finto-persiano di Clarice comprato da Mooradian a Cleveland, e si copre pudicamente l’inguine con un lembo di accappatoio, ma Lenore non può fare a meno di notare come il suo seno gonfi la lisa stoffa rosa dell’accappatoio, bello pieno e sodo nonostante Mindy sia sdraiata a pancia in su, lí, sul pavimento. Inconsciamente Lenore abbassa un attimo gli occhi sul proprio, di seno, sotto la camicia di flanella.
– Fame, – dice Sue Shaw dopo un minuto. – Immensa, massiccia, incontrollabile, prepotente, incontrollabile, fame.
– Vero, – dice Mindy.
– Dobbiamo… – e qui Clarice si guarda l’orologio girato sotto il polso – … aspettare un’ora, dico una, prima di mangiare alcun qualsivoglia cibo.
– Manco per sogno, impossibile.
– E invece lo renderemo possibile. Come da accordi presi in questa medesima sede meno di una settimana fa, quando convenimmo esplicitamente di non soccombere mai piú alla famelicità post-canna, onde evitare di diventare grasse e ripugnanti, tipo la nostra povera Mindy.
– Tromba di culo, – dice svagatamente Mindy, che non è grassa, e lo sa, come lo sa Lenore, come lo sanno tutte.
– Una vera signora, la nostra Metalman, – dice Clarice. Poi, dopo un minuto: – A questo proposito ti suggerirei di ricomporti oppure di andare a vestirti oppure di levarti dall’affare di Lenore, visto che non ho la minima intenzione di continuare quest’esame ginecologico che in pratica stai costringendoci a farti, cara la mia Lesbia di Tebe.
– Rottura di cazzo, – dice Mindy, o piuttosto: – Ordura di marzo –; e si alza ondeggiando e afferrandosi a cose salde, diretta alla porta che dà sulla piccola stanza singola accanto al bagno. Stando a una lettera di Clarice, la suddetta stanza Mindy se la sarebbe annessa in quanto arrivata per prima a settembre, questa jap1 di Scarsdale col corpo da paginone centrale di «Playboy», che adesso si sbuccia di dosso quel che resta dell’accappatoio, e lo molla zuppo com’è in grembo a una Lenore seduta sulla sedia accanto alla porta, la cui soglia Mindy varca a falcate lunghe di gambe ma caute di passo. Sbatte la porta.
Clarice la guarda sparire e scuote un po’ la testa e si volta a guardare Lenore e sorride. Dal piano di sotto arrivano folate di risate, e frastuono di armenti in danza. Lenore adora ballare.
Sue Shaw beve rumorosamente un sorso d’acqua da un bicchierone di plastica dei Jetsons che tiene sul suo scrittoio accanto alla porta d’ingresso. – A proposito, non è che per caso stamattina hai visto la Splittstoesser? – chiede.
– No-oo, – dice Clarice.
– Era con Proctor.
– E con ciò?
– Alle sette del mattino? Tutt’e due praticamente in pigiama, insonnoliti e rintontiti, che uscivano dalla stanza di lei, insieme? Tenendosi per mano?
– Hmmm.
– Be’, se qualcuno mi avesse detto che la Splittstoesser…
– Credevo che fosse fidanzata con uno.
– Infatti lo è.
E giú a ridere.
– Awwww.
– Chi è la Splittstoesser? – chiede Lenore.
– Nancy Splittstoesser, non te la ricordi, oggi a pranzo? Quella col maglione rosso e gli orecchini a forma di pugno?
– Ah, sí. E che ha fatto?
Clarice e Sue si guardano, e daccapo scoppiano a ridere. Rientra Mindy Metalman, pantaloncini elastici e felpa rivoltata con maniche tagliate. Lenore la guarda, e sorride al pavimento.
– Che c’è? – Mindy ha capito che dev’esserci in ballo qualcosa.
– La Splittstoesser e Proctor, – farfuglia Sue.
– Già, volevo proprio chiedertelo. – Gli occhi di Mindy si fanno enormi. – In bagno? Nella stessa doccia? Davvero?
– Oddio! – Sue sta scoppiando, e Mindy comincia anche lei a ridere, sempre con quella stramba risata di solidarietà, e guarda dall’una all’altra.
– Cioè, stanno… insieme? Credevo che Nancy fosse fidanzata.
– Lo… è, – dice Clarice facendo ridere anche Lenore.
Per la biografia e la bibliografia dell’autore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a David Forster Wallace.
Infinite Jest: riassunto trama ed estratto
Trama di Infinite Jest di David Forster Wallace e ampia anteprima dal romanzo
L’incredibile Infinite Jest di David Forster Wallace è uno dei romanzi più importanti e rappresentativi della letteratura contemporanea. La prosa sorprendente e l’acume geniale dello scrittore trascinano il lettore in un lunghissimo vortice dal quale si emerge con la sensazione di aver letto qualcosa di assolutamente unico e irripetibile. Vediamo insieme il riassunto della trama di Infinite Jest e un esempio delle straordinarie capacità tecniche di Forster Wallace. [Read more…]
Fiori sopra l’inferno di Ilaria Tuti: trama e anteprima
La trama di Fiori sopra l'inferno di Ilaria Tuti e anteprima del libro
| SCHEDA DEL LIBRO |
Il 4 gennaio 2018 Longanesi pubblicherà Fiori sopra l’inferno di Ilaria Tuti, un thriller che sarà disponibile anche in eBok al prezzo di 8,99€. Ecco la trama e un estratto dal romanzo. [Read more…]