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Paolina Leopardi: ritratto di una viaggiatrice
La scoperta di un carteggio inedito di Paolina Leopardi getta una nuova luce sulla sorella di Giacomo. Si tratta di un corpus di 119 lettere rinvenute da Lorenzo Abbate presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia. Le missive sono scritte da Paolina durante i suoi viaggi e sono indirizzate alla cognata Teresa Teja, moglie di Carlo. Esse si snodano nell’arco di un decennio, dal 1859 al 1869, anno della morte di Paolina e restituiscono un’immagine sconosciuta della donna, in genere considerata come una figura dimessa, vissuta entro i limiti del “natio borgo selvaggio” e nel microcosmo del palazzo avito, all’ombra di genitori austeri e rigidi. Ebbene, dal carteggio emerge il ritratto di una donna moderna, appassionata viaggiatrice dotata di spirito critico che le permette di apprezzare o fustigare le realtà con cui entra in contatto.
Ma chi è Paolina Leopardi? Ella nasce a Recanati nel 1800, terzogenita di Monaldo e Adelaide Antici. Cresce con i fratelli e riceve la loro stessa educazione nonostante sia una femmina. Ci sono tentativi di maritare Paolina ma questi matrimoni non si concludono sia perché la giovane non vuole abbassare il proprio rango pur di accasarsi sia perché respinge i pretendenti inferiori culturalmente, forte della propria superiorità intellettuale. Non è il tipo di donna che vuole sposarsi a tutti i costi ma rivendica la libertà di decidere per se stessa.
Nel 1828 muore il quartogenito dei conti Leopardi. Nel 1829 Carlo sposa Paolina Mazzagalli. Nel 1830 Giacomo se ne va e Paolina resta sola con i genitori, cosicché il suo isolamento sociale si acuisce. Dal ’32 al ’35 affianca il padre nella direzione di una rivista dal titolo «La voce della ragione» edita a Pesaro. Si tratta di una rivista reazionaria che non tarda a finire sotto la mannaia della censura pontificia. Paolina è redattrice, traduttrice e curatrice. È anche una lettrice fortissima, soprattutto di romanzi, ma, complessivamente, i libri letti sono un migliaio.
Nel 1847 muore Monaldo e questa è una perdita pesante per Paolina che scrive una memoria di famiglia. Nel 1857 muore anche la madre. Questo anno segna una svolta nella vita della Leopardi perché è allora che conosce Teresa Teja, vedova torinese istitutrice presso i conti Carradori di Recanati. Carlo Leopardi, rimasto vedovo, la conosce e dopo una vicenda rocambolesca la sposa nel luglio 1858. Tra Paolina e la cognata si instaura un forte legame di amicizia, fiducia e solidarietà. I viaggi di Paolina iniziano nel 1859 e sono un portato del legame con Teresa che le fa vedere una prospettiva fino ad allora solo intravista: evadere da Recanati.
Le lettere di viaggio sono ricche di informazioni sulle abitudini delle élite femminili, vi figurano i nomi di inservienti, sarte, modiste, cocchieri e sono piene di effusioni. “Mia amatissima” viene definita Teresa; queste formule, che ritroviamo nell’epistolografia sentimentale e amorosa, sono in realtà uno stilema della corrispondenza amicale in quanto l’amicizia è sentita come un dovere affettivo.
Paolina viaggia in carrozza, mezzo di cui conosce ogni aspetto, e in treno. È abbacinata dalle luci dei vagoni come una falena, forse come forma di compensazione per gli anni bui trascorsi nel “paterno ostello”. Le lettere contengono anche minuziose descrizioni delle stazioni.
Diretta a Bologna, sosta a Senigallia, località che adora. Nell’agosto 1861 arriva nella città felsinea che la colpisce per l’ampiezza e la quiete notturna. Visita i monumenti e fa una breve incursione a Modena, di cui riporta una brutta impressione. Nel 1862 compie un secondo viaggio, assai importante: è a Firenze, dove arriva in ottobre. Non incontra nessuno di coloro che avevano formato la cerchia di Giacomo e, pur avendo chiesto di farsi ricevere dal marchese Gino Capponi, non riesce a incontrarlo. La Toscana rapisce Paolina con il suo paesaggio e con la sua parlata e Firenze la colpisce con la sua pulizia.
Nel 1865 è in Puglia. Apprezza molto il lusso di Foggia, che all’epoca è all’apice dello splendore, anche se nota che gli abitanti mancano di civiltà. Brindisi e Bari non le piacciono.
Nel 1866 trascorre vari periodi, sempre brevi, in Ancona. All’aprile/maggio 1867 risale il viaggio della memoria a Napoli, dove Giacomo si era spento. In treno Paolina condivide il tragitto con il marchese Caracciolo, ambasciatore in Spagna. La prima impressione di Napoli è negativa perché sporca e rumorosa e nel giudizio della donna è presente lo stereotipo del napoletano furbo e ignavo. È però costretta ad ammettere che gli scenari naturali sono di una magnificenza unica.
Non manca un soggiorno a Roma, dove le antiquitates non la interessano e il fatto di non allineare le proprie preferenze a quelle dei viaggiatori alla moda è per lei motivo di cruccio. Apprezza invece la basilica di san Pietro e quella di san Paolo per i marmi e per la luminosità.
Nel dicembre 1868 è a Pisa per motivi di salute su suggerimento di Teresa. La città piaceva a Giacomo perché era piccola e gli ricordava Recanati. Il parere di Paolina è diverso perché si sente esiliata e la solitudine assume i contorni della malinconia e della paura. Nelle lettere pisane si avverte un presagio di non ritorno e infatti la donna morirà il 13 marzo 1869 senza aver rivisto la sua Recanati ma confortata dall’affetto di Teresa, accorsa al capezzale della cara cognata.
Foschia di Anna Luisa Pignatelli – Recensione
La recensione di "Foschia" di Anna Luisa Pignatelli
Ogni bambina è una principessa per il suo papà e ogni papà è un eroe per la sua bambina. Ma alcune figlie hanno con il padre un rapporto la cui ambiguità cela segreti e inquietudini le quali, come correnti sotterranee, premono per venire a galla.
Marta è gravemente malata; sa che le resta poco tempo davanti e allora quel tempo che ha lasciato dietro sé lo ripercorre con la memoria, intensamente e dolorosamente. Ella sente l’esigenza di fare i conti con il passato, con la famiglia. E, soprattutto, con suo padre Lapo.
Foschia (Fazi Editore, 2019, pp. 208) è un romanzo forte e crudo in cui Anna Luisa Pignatelli, scrittrice toscana assai apprezzata all’estero, mette a nudo la dinamica complessa del rapporto tra Lapo e Marta, un padre narciso e una figlia affamata d’amore. Un rapporto ricco di sfumature, duro, ambiguo, narrato da Marta in prospettiva autodiegetica. La giovane ha bisogno dell’accettazione del genitore, stimato critico d’arte, che però le sfugge, troppo concentrato sulla carriera, su se stesso e su una vita parallela. E allora Marta lo rincorre, cerca in tutti i modi di piacergli.
L’ambientazione nella campagna senese, che diventa teatro ameno di una vicenda tormentata, ricorda Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi. Nel podere di Lupaia, Marta trascorre un’infanzia segnata dalla morte della madre, Teresa, spirito un po’ gitano, eccentrica e alla ricerca di un rapporto panico con la natura. È allora, ricorda Marta, che il mondo comincia a essere soffuso di foschia. È allora che nasce l’infatuazione per quel padre che è sempre meno presente nella sua vita. Lapo sposa poi Dora, ricca produttrice di vini e collezionista d’arte e porta i figli — Marta ha un fratello, Antonio, figura defilata e remissiva — ad abitare a Torre al Salto, lussuosa dimora della moglie. Man mano che la figlia sente Lapo sfuggirle inesorabilmente, preso com’è dalla nuova famiglia, l’infatuazione infantile diventa passione bruciante, anche perché ella inizia a vivere le pulsioni dell’adolescenza.
“Rimaneva vivo l’attaccamento morboso che avevo sviluppato […] nei confronti di mio padre. […] Un attaccamento che s’era andato trasformando in un desiderio fisico […] come se il mio corpo d’adolescente avesse voluto appartenergli, così come a lui appartenevano i miei pensieri”.
Irrimediabilmente naufragato il loro rapporto, Marta va a studiare negli Stati Uniti, ospite della nonna paterna, donna dai modi freddi e bruschi.
I tre nuclei spaziali segnano altrettante fasi della vita di Marta.
Lupaia, dove la natura è spontanea e autentica e la casa reca l’impronta amorevole della madre, rappresenta il “benedetto e beato tempo” dell’infanzia. Torre al Salto, dove il paesaggio è addomesticato e antropizzato, emana un’aura maligna, dovuta alla presenza ostile di Dora. Forse è proprio quella negatività a risvegliare i demoni che si annidano in chi vi abita e a scatenare passioni insane. Qui Marta sboccia e diventa una giovane donna. L’America rappresenta il futuro della ragazza, la frattura definitiva con il passato e la visione finalmente limpida del mondo.
“Di colpo mi sentii adulta, forte e consapevole: come se lo spesso velo di foschia in cui mi pareva d’essere avvolta avesse lasciato il posto nella mia mente a un’improvvisa schiarita”.
Come Pietro, il protagonista del romanzo di Tozzi, ha vissuto con gli occhi chiusi per non vedere la reale condotta di Ghìsola, così Marta ha vissuto obnubilata da una foschia grazie alla quale poteva illudersi che il padre fosse quale lei avrebbe voluto.
L’arte, collante tra Marta e Lapo, è il banco di prova della progressiva corruzione dell’uomo. Da sincero cultore di ideali di purezza e verità, dell’“arte per l’arte”, egli finisce per tradire se stesso e arriva a forzare le proprie expertises in funzione del profitto.
La prosa di Anna Luisa Pignatelli è scabra e nulla concede al sentimentalismo eppure è densa di pathos; ricca di riferimenti artistici e letterari, essa è elegante anche quando porta alla luce pulsioni inconfessabili. Marta legge Lolita di Nabokov. Chissà se si riconosce in questa giovane ‘scandalosa’… In effetti si ritrova a ripeterne le movenze.
“Se non era possibile avere la sua attenzione, quella legittima di un padre verso la figlia, pensavo di meritare almeno quella che gli avevo letto nello sguardo e che aveva acceso la mia immaginazione, di un uomo sulla via del tramonto per un’adolescente in fiore”.
L’arte — eccola di nuovo — svolge per Marta un ruolo catartico: sublimando nel teatro le forti passioni che hanno ottenebrato la sua giovinezza con la foschia interiore di un groviglio di inquietudini, ella trova finalmente sollievo e pace.