Con grande piacere pubblichiamo uno dei racconti che compone il Vocabolario minimo delle parole inventate, il bel volume a cura di Luca Marinelli edito da Wojtek nel 2019. Il racconto firmato da Andrea Zandomeneghi (autore di Il giorno della nutria per Tunuè) si intitola (ed è dedicato al termine) Queleticismo.
QUELETICISMO
La prima occorrenza che c’è dato riscontrare di questo termine ormai così abusato dal nostro italico giornalismo politico, appassionato propalatore megafonale – megacafonale secondo taluni – di neologismi e amene locuzioni che spesso hanno solo una breve stagione di vita o poco più, ma che talvolta (vedi «crumiro») si piantano in maniera stabile nel tessuto linguistico, si trova in una fanfinction di 3012 di Sebastiano Vassalli dal titolo Altre vie, solite vie scritta dall’influencer – tra gli incel – italopolacco poliglotta Teofil-Szczepan Zojka di Castellammare di Stabia. Altre vie,
solite vie fu stampata in 200 esemplari dalla casa editrice partenopea Tigli d’autunno. La metà dei volumi finì al macero nonostante l’autore si fosse suicidato – destando un certo interesse mediatico – poco dopo la pubblicazione.
Il testo tratta di altre, rispetto a quelle descritte da Vassalli, attività ricreative e ludiche che hanno luogo a Fellinia (l’immane città del divertimento che si estende su tutta la riviera romagnola), in particolar modo legate a forme raffinate di pegging abbinate ad anossia praticate da maschi eterosessuali beta, non implicanti l’uso di mere cinture falliche.
Nello specifico, queleticismo, va a individuare quell’attività erotica frustrante e umiliante posta in essere – quasi fosse una forma di flagellazione per la propria condizione di minorità estetica – da due incel che si penetrano analmente vicendevolmente in sincrono (vedi «culo contro culo» in Requiem for a dream di Darren Aronofsky) con gli estremi gommati di una medesima asta e nel frattempo si masturbano e soffocano con un’apposita maschera.
Il termine si diffuse nei forum e nei gruppi fb incel, poi tracimò in qualche bacheca. In ogni caso fu intercettato da Verde Rivista – un litblog impertinente e spesso fuori luogo – che iniziò a farne un uso massiccio, soprattutto nelle recensioni di romanzi italiani. Uscì un breve articolo sul Foglio on line che dava conto dell’emersione di questa parola. Tale articolo fu la rampa di lancio che fece decollare l’uso di queleticismo: dopo un secondo articolo di Dagospia si radicò in modo epidemico nel patrimonio lessicale italiano, come testimonia la presenza del termine prima su Wikipedia, poi su Treccani on line, infine in tutti i patri vocabolari.
Nel linguaggio comune queleticimo è venuto a significare «compromesso a ribasso totale, accordo bilaterale umiliante, transazione dove entrambi soccombono, gioco a somma zero».
Nel linguaggio giornalistico e politico viene usato nel senso di «accordo di governo nel quale due forze politiche eterogenee rinunciano al proprio programma pur di sedere a Palazzo Chigi».
Nel linguaggio giuridico nostrano è attestato nella prima decade del secondo millennio – prima della sentenza della Corte di Giustizia n.16/11 Commissione vs Ungheria, Romania, Polonia (infra) che rese obsoleta quest’accezione – l’utilizzo del termine a partire dalla sentenza n. 3961/04 della Corte Suprema di Cassazione come indice sintomatico della presenza del contratto dissimulatorio nella simulazione pattizia andando a significare «sinallagma strutturalmente perfetto in cui però non c’è soddisfazione reale di nessuno dei due contraenti il negozio».
L’etimologia è controversa, in particolare si possono individuare almeno due possibili direzioni.
Secondo la prima queleticismo è da ricondurre a Qoelet (ebraico קהלת), il testo biblico anche detto Ecclesiaste dove con immane potenza viene espresso il più radicale pessimismo in relazione alla condizione e ai comportamenti umani: poiché tutto non è che vanità di vanità (vanitas vanitatum et omnia vanitas – «vanità delle vanità, tutto è vanità») ogni agire che non sia un porre fiducia totalizzante nel volere del Padre (strada preclusa all’antropologia contemporanea) è la vanità mortificante di un compromesso a ribasso con le leggi eterne della vita naturale che non conoscono né senso, né reale piacere, né salvezza. Da qui, secondo taluni, prenderebbe le mosse Teofil- Szczepan Zojka descrivendo la vanità completa e irredimibile di Fellinia e l’idea che anche nell’erotismo non è percorribile altra via che quella totalmente vana, frustrante e umiliante del «culo contro culo» incel che assume un significato paradigmatico applicabile all’antropico nella sua interezza.
Per la seconda scuola di pensiero, al contrario, il termine ha origine nello slang delle baraccopoli di Calcutta: keletism cioè «truffa con bluff ad alto rischio». Inizialmente andava a indicare la vendita di MDMA (methylenedioxy methamphetamine) tagliato per più del 50% con lassativo: dopo la pippata di prova prima dell’acquisto accadeva che – a seconda della costituzione del compratore – si manifestassero a volte scariche improvvise che rivelavano il sordido e proditorio taglio esagerato. Siccome però successivamente divenne la regola quel tipo di taglio, allora chi comprava lo faceva consapevolmente, accettando un compromesso a ribasso: avere qualcosa di orrenda qualità è meglio che non avere niente. Così iniziò a significare appunto «compromesso a ribasso, negozio turpe in cui s’accetta scientemente la turpitudine».
Ultimamente, in ogni caso, queleticismo è entrato a far parte con prepotenza del linguaggio giuridico comunitario – e successivamente anche nostrano – con la sentenza della Corte di Giustizia n.16/11 Commissione vs Ungheria, Romania, Polonia, andando a individuare una fattispecie ulteriore di nocumento illecito al mercato comune derivante dalla violazione delle estrinsecazioni esemplificative di comportamenti vietati – analogicamente interpretate con effetto vincolante dalla Corte di Giustizia – contenute nella normativa antidumping facente parte della più vasta panoplia antitrust.
La fattispecie de qua consiste in un accordo di dumping tra due o più stati membri che sistematicamente e sincronicamente pongono in essere operazioni commerciali in perdita per desertificare un settore di mercato, appropriarsene agevolmente – cercando sempre di non sforare la soglia della posizione dominante attraverso la parcellizzazione per non incorrere nella normativa contro l’abuso di tale situazione – e tiranneggiarlo poi in modo sostanzialmente – ma non formalmente – monopolistico, o meglio oligopolistico. La fattispecie si integra quando si riscontrano tanto scientia et consilium fraudis tra due o più stati e relativi agenti privati di mercato domestici, quanto una serie di comportamenti coordinati individuabili in base a indici sintomatici riferibili al dumping; comportamenti che posti in essere da un solo agente privato di mercato non potrebbero produrre effetto alcuno, mentre nell’azione collettiva concertata e col sostegno – normativo, agevolazioni burocratiche e fiscali, non finanziamenti diretti per non incorrere nella normativa contro gli aiuti di stato – degli stati producono la desertificazione ut supra. Si ritiene che il fenomeno sia stato battezzato queleticimo perché in una prima fase, quando va contestato prima che manometta il mercato in modo irreversibile, si concreta in un accordo orizzontale e verticale consistente in un’azione prolungata in grave perdita.
Rimane un mistero come un termine apparentemente tanto sciocco e marginale abbia avuto una tale diffusione in ambiti così diversi. Ci sembra sensato supporre che la parola sia andata a definire una categoria dello spirito contemporaneo preesistente e pervasiva: l’accettazione – rectius la ricerca masochistica spasmodica – dell’umiliazione turpe vicendevole allo scopo di provare o sentire qualcosa nel deserto di senso che ci circonda e ci abita. Il queleticismo andrebbe pensato quindi in ultima analisi come l’extrema ratio dell’uomo dinnanzi al trionfo del nichilismo passivo.
Il libro da cui è tratto il racconto

Edito da Wojtek nel 2019 • Pagine: 166 • Compra su Amazon
Di solito le parole sono gli strumenti che gli scrittori usano per creare e animare i loro mondi: mondi ancora inesistenti che si servono di parole esistenti per essere narrati. Nel "Vocabolario minimo delle parole inventate" è come se questo rapporto si invertisse e i mondi degli scrittori, i loro racconti, diventassero il mezzo per dare vita a nuove parole: parole inventate che si servono di mondi immaginari per essere dette, scritte, narrate. Un esperimento letterario polifonico in cui ventidue scrittori italiani della litweb si confrontano in modo eterogeneo con il racconto di una parola da loro stessi inventata per comporre un nuovo lessico che rende esprimibile ciò che fino a un momento prima è stato inespresso.

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