Su una pagina Facebook sull’antispecismo si è parlato di razionalismo e delle difficoltà nell’accettare ciò che è umano ma non è ragione. Empatia, emozioni, il portato conoscitivo delle stesse… Mi è tornato in mente un passaggio di Terre al crepuscolo di J.M. Coetzee, secondo me assai meritevole. Il libro è formato da due novelle; nella seconda, Il racconto di Jacobus Coetzee (il personaggio non a caso porta lo stesso cognome dell’autore[1]), troviamo un protagonista davvero sopra le righe. Un violentissimo pioniero boero esperto di filosofia, un vero e proprio campione del razionalismo cartesiano la cui sanità mentale, oltretutto, e non è un punto secondario, è alquanto incerta.
In un passaggio del testo il pioniero Jacobus Coetzee sta attraversando una zona semidesertica.
C’è un piccolo scarafaggio nero, di quelli che si trovano vicino all’acqua, che mi è sempre tanto piaciuto. Se sollevi la roccia sotto cui vive, sfreccia via. Se gli blocchi il passaggio prova a prendere un’altra strada. Se gli blocchi ogni strada oppure lo tiri su arriccia le zampe sotto il corpo e si finge morto. Niente riesce a distoglierlo dalla sua messa in scena, il che ha prodotto la leggenda secondo cui morirebbe di paura. Gli puoi strappare le zampe, una dopo l’altra e lui non batterà ciglio. È solo quando gli strappi via la testa dal corpo che vedi un impalpabile tremito d’insetto, e questo sicuramente è un moto involontario.
Che cosa gli passa per la testa negli ultimi momenti? Forse non ha cervello, forse il suo cervello è estroflesso in puro comportamento, come dicono che sia per la mantide religiosa (divinità ottentotta). E nondimeno, dal punto di vista formale si tratta di una vera creatura di Zenone. – Adesso sono morto solo per metà. Ora sono morto solo per sette ottavi. Il segreto della mia vita indietreggia all’infinito davanti alle tue dita che mi sondano. Tu e io potremmo passare l’eternità a dividere frazioni. Se io resto fermo ancora abbastanza tu te ne andrai via. Ora sono morto solo per quindici sedicesimi.
La sola ragione, in special modo quella strumentale, quella del potere, insomma, la nostra, non può rendere conto della vita dell’Altro, della vita in tutta la sua irriducibile singolarità.
Ed ecco allora che il paradosso consiste nell’impossibilità di comprendere gli altri nonostante questi siano in nostro assoluto potere: “Il segreto della mia vita indietreggia all’infinito davanti alle tue dita che mi sondano”. Non è possibile la comprensione profonda dell’umano come del non umano (nel testo i nativi sudafricani sono di continuo posti come bestie) per un campione dell’ideologia strumentale come Jacobus Coetzee. Come lo stesso autore suggerisce in altri libri, non si può arrivare alla comprensione dell’Altro senza passare da empatia, emozioni, senza, cioè, fare ricorso a tutte le possibilità che abbiamo in quanto esseri umani. Con la sola ragione non si può arrivare a comprenderci né a comprenderli.
Lo scarafaggio rappresenta anche, più in generale, coloro che subiscono una relazione violenta con un soggetto di potere. Il pioniero, più in là, afferma:
“Durante la prigionia ottentotta non avevo mai smesso di pensare allo scarafaggio di Zenone. C’erano state zampe, zampe metaforiche, e anche molto altro, che mi ero preparato a perdere. Nel più cieco viottolo del labirinto di me stesso mi ero nascosto abbandonando metro dopo metro di difese. Jacobus instaura un parallelismo tra sé e lo scarafaggio, ricordando i momenti di estrema debolezza trascorsi disteso nel campo dei nativi ottentotti, in una situazione in cui era lui “il debole”.
Dinanzi al potere altrui la reazione del soggetto non è di apertura o condivisione; al contrario, è descritta come chiusura, chiusura finanche disperata nel tentativo di celarsi e difendere il proprio sé in un guscio, difendendo strenuamente una sorta di “io minimo”. La reazione dell’uomo è uguale a quella dello scarafaggio: l’individuo sottoposto a violenza non si svela affatto. Si chiude. E il soggetto indagatore, colui che usa violenza, non riesce a giungere alla comprensione dell’altro, proprio perché questa non può essere raggiunta attraverso questo modo, tanto che si potrebbe dire che la mano (violenta) più stringe, meno afferra.
Quindi se da un lato questa scena mi sembra rappresentare bene lo scacco di un’etica ridotta alle possibilità della sola ragione strumentale, dall’altro mi pare anche emblematica della fallacia di un sistema che voglia cogliere l’essenza dell’Altro attraverso la violenza.
E a questo proposito nasce un facile collegamento sulle tante indagini su animali in cui si tenta di carpire i loro segreti affamandoli, tagliandoli, infliggendogli del dolore. È davvero così che arriveremo a cogliere, a intravedere il segreto della vita dei singoli animali?
Oltretutto, c’è qualcosa di sbagliato nel cercare la conoscenza attraverso la violenza anche in termini metodologici.
È una riflessione che si applica solo a certe ricerche su animali, ma facciamola.
E visto che ci siamo partiamo di nuovo da Coetzee, dal suo libro Aspettando i barbari, in cui si parla, tra l’altro, di tortura su esseri umani.
Certo, può essere che quanto “rivelato” dal torturato corrisponda effettivamente a verità, ma non è questo il punto. Il punto è che chi tortura non potrà mai essere certo che quella sia la verità[2].
Naturalmente si potrebbe obiettare che questa incertezza non si limita ai soli casi di violenza applicata; nondimeno, il fatto resta, e non bisogna mai dimenticare la scarsa attendibilità delle informazioni ottenute in questo modo.
[1] Il testo testimonia una totale sfiducia nei confronti del discorso del potere, in tutte le sue forme. Il cognome Coetzee torna in varie occasioni, a testimonianza del fatto che l’autore è conscio di far parte anch’esso di quel gruppo di potere e di non volersi sottrarre a questa evidente verità. Cfr. Lucia Fiorella, “Figure del male nella narrativa di J.M. Coetzee”, Edizioni ETS, Pisa, 2006.
[2] Cfr. anche qui “Figure del male”.
Articolo originariamente pubblicato sul blog Animalismoevegetarianesimo.com
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