Gli autori presi in esame sono Heidegger, Lévinas, Agamben e Derrida.
Zoografie non delude: per ogni autore Calarco è in grado di presentare in maniera interessante, e analizzare da varie prospettive, ciascuna posizione.
Non prenderò in esame tutti gli autori, mi concentro, visto che abbiamo già avuto modo di parlarne, sulla lettura di Calarco di alcuni passaggi de L’animale che dunque sono di Derrida.
Chi ha letto il libro ricorderà come Derrida si rapporti in maniera problematica alla sua piccola gatta, in particolare al suo sguardo che lo coglie nudo, dando il via ad alcune riflessioni sulla nudità e sullo sguardo dell’animot. Devo dire che non avevo ben colto le implicazioni di questa scena fino a quando, leggendo Zoografie, non ho capito che poteva essere letta in modo assai proficuo considerandola un incontro con l’altro in termini levinassiani.
Derrida in primo luogo, come ricorda Calarco, precisa che non sta parlando in generale dello sguardo che i gatti rivolgono agli umani, sta parlando dello sguardo che quel gatto specifico rivolge a lui. Questo gatto non è un'”allegoria di tutti i gatti della terra, i felini che popolano le mitologie e le religioni, la letteratura e le favole”.
Questa precisazione è importante perché qui stiamo parlando di un incontro, e un incontro nella realtà non si dà con una categoria astratta di esseri (di certo è difficile incrociare lo sguardo con una categoria astratta…). Quindi trattasi di incontro fra due specifici individui: quell’essere umano – Derrida – e quella gatta.
La posizione di Lévinas nei confronti degli animali viene criticata senza indugi da Derrida. Il filosofo si chiede se anche gli altri animali hanno un volto per Lévinas, se anche nel loro sguardo possiamo ravvisare quell’imperativo morale, il non uccidermi. La risposta, in breve, è no, anche se Lévinas, quando interrogato direttamente sulla questione, ammise di trovarla problematica.
Ora, Derrida ci racconta di un incontro con un volto, quello della sua gatta.
Ci sono tre specifici argomenti analizzati da Calarco, e collegati fra loro, che vorrei ricordare:
1) Derrida incontra la sua gatta, e le attribuisce un volto
Il fulcro, qui, è il riconoscimento dell’individualità dell’Altro che ci sta davanti. Il filosofo che sta guardando il gatto riconosce di essere a sua volta guardato dal gatto.
Ciò innesca una catena di riflessioni e domande in Derrida, che riguardano tanto “chi è il gatto” quanto “chi è lui” (ricordiamo ancora come da sempre, storicamente, la definizione del sé umano si fonda su contrapposizioni/distinzioni rispetto all’animale).
Tuttavia, queste riflessioni sull’individualità dell’animot, Derrida lo sa, vengono dopo. Infatti…
2) Il suo essere colpito dallo sguardo del gatto avviene prima di ogni concettualizzazione.
In un passaggio notevole Calarco sottolinea come Derrida non solo metta in luce quanto di problematico ci sia nel sentirsi nudo sotto lo sguardo della sua gatta, ma anche come questo sentirsi nudo non nasca a seguito di concettualizzazioni. Nasce prima.
Derrida è colpito dallo sguardo del gatto prima ancora che abbia luogo la benché minima concettualizzazione (gatto, piccolo, femmina).
Il riconoscimento di avere davanti un altro individuo provvisto di un sé scatena un coacervo di riflessioni, ma questo riconoscimento non nasce da queste ultime. Le genera, perché avviene prima.
Provate a figurarvi questo discorso. Vi sembra verosimile che voi, prima di operare un qualsiasi ragionamento, davanti un altro animale come un cane o un gatto vi sentiate ri-guardati? Che prima ancora di riflettere sulla cosa abbiate già attribuito all’animale che vi sta di fronte un sé, una sua individualità?
A me sì, sembra verosimile.
Certo questo punto non è da poco, anche perché
3) L’incontro con l’Altro percepito come individualità provvista di volto non avviene in una situazione in cui l’altro animale è vulnerabile. Un’interruzione del proprio egocentrismo, un richiamo alla considerazione anche morale dell’altro sembra quindi possibile al di là del “Possono soffrire”.
Calarco effettua alcune riflessioni in merito al “can they suffer?” di Bentham e Singer, e tra gli altri spunti che fornisce a sostegno di un oltrepassamento, da parte di Derrida, dell’assunto del “possono soffrire?” riporta proprio la storia della gatta.
Derrida in effetti non si può dire che si allinei tranquillamente alla linea del primo antispecismo singeriano, che basava i propri sforzi etici sulla considerazione della possibilità di soffrire degli altri animali, con le relative conseguenze.
Calarco mette in luce in Derrida quegli elementi che tratteggiano la volontà, da parte del filosofo, di minare alla base tutto l’antropocentrismo (violento) che caratterizza il nostro pensiero nei confronti dell’Altro.
Quello che vogliamo sottolineare qui, tenendo sempre a riferimento la piccola gatta di Derrida, è come, anche in stretta aderenza al nostro vissuto, sia effettivamente difficile negare che l’interruzione del nostro egocentrismo non avvenga di continuo in presenza di altri animali, al di là del fatto che questi stiano soffrendo o meno.
Vivere, per esempio, con dei cani, non vuol dire semplicemente sfamarli affinché non patiscano i morsi della fame o portarli in giro perché non soffrano eccessivamente gli spazi chiusi.
Significa esperire di fatto la compresenza con qualcun altro, non solo “interruzioni” del nostro sé predominante per compassione o pietà, ma vera e propria dialettica di convivenza, reciprocità.
Quindi, seguendo i suggerimenti di Calarco possiamo vedere come l’incontro con la gatta sia l’incontro con un volto, come la possibilità che ciò avvenga risieda nel trovarsi e riconoscere un’individualità nell’Altro e come ciò accada prima di qualunque movimento concettualizzante.
Infine, come questo incontro rappresenti per Derrida un’interruzione del proprio egocentrismo, aprendo la strada alla possibile considerazione morale dell’altro, e come questa interruzione non si dia solo davanti a un individuo vulnerabile o che soffre.
Quest’ultimo punto, in particolare, non può che apparire come una base per un antispecismo differente, rifondato su basi più rigorose e radicali. Ciò si ricollega al discorso sull’antispecismo di seconda generazione (per usare i termini di Filippi e Trasatti, proposti nell’introduzione a un altro libro della Mimesis, Nell’albergo di Adamo), di cui Calarco può essere considerato un esponente assai interessante.
Testo originariamente pubblicato sul blog Animalismoevegetarianesimo.com
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