Il libro Altered Carbon di Richard K. Morgan torna in libreria dopo il successo dell’omonima serie TV targata Netflix. Vediamo la trama del libro edito da TEA, alcune informazioni sull’autore e un’ampia anteprima dal testo.
Altered Carbon: trama del libro
Riasssunto della trama: Nel XXV secolo la possibilità di digitalizzare la propria coscienza e trasferirla in un altro corpo è diventata realtà. È ciò che avviene a Takeshi Kovacs, un ex soldato che si ritrova suo malgrado in un corpo “nuovo” a Bay City – una metropoli in piena decadenza, in mano a politici arroganti e spacciatori di droghe sintetiche – per far luce su un omicidio. Le indagini lo trascinano nei meccanismi perversi di una società che ha snaturato il senso della vita e della morte, una società per cui gli individui sono solo pedine in un gioco condotto da chi si può permettere l’immortalità.
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZONNel Corpo di Spedizione ti insegnano a rilassarti prima dell’immagazzinamento. Mettiti in folle e fluttua. È la prima lezione e gli istruttori te la inculcano da subito. Virginia Vidaura dagli occhi duri, col corpo da danzatrice chiuso nell’informe tuta del Corpo, passeggiava di fronte a noi in sala indottrinamento.
«Non preoccupatevi di niente», diceva, «e sarete pronti.»
Un decennio più tardi, l’ho incontrata di nuovo, in una cella del penitenziario di New Kanagawa. La aspettavano dagli ottant’anni al secolo: rapina a mano eccessivamente armata e danni organici. L’ultima cosa che mi disse mentre la scortavano fuori dalla cella fu: «Non preoccuparti ragazzo, immagazzineranno tutto». Poi chinò la testa per accendere una sigaretta, aspirò fino a riempire quei polmoni di cui non le importava più nulla e si avviò in corridoio come per recarsi a un noioso indottrinamento. Dal ristretto angolo di visuale che la griglia della cella mi concedeva notai l’orgoglio dei suoi passi e mormorai le parole a mo’ di mantra.
Non preoccuparti, immagazzineranno tutto. Un modo di dire sublimemente doppio. Tetra fiducia nell’efficienza del sistema penale e una chiave per lo sfuggente stato mentale necessario per farti superare i dirupi della psicosi. Qualunque sensazione tu provi, qualunque cosa pensi, qualunque cosa tu sia quando ti immagazzinano, la ritroverai quando ne uscirai. In stati di alta ansietà può essere un problema. Quindi rilassati. Mettiti in folle. Staccati e fluttua.
Se ne hai il tempo.
Uscii dalla vasca sbattendomi, una mano incollata sul petto in cerca delle ferite, l’altra stretta su un’arma inesistente. Il peso mi colpì come un maglio e ricaddi nel gel di galleggiamento. Agitai le braccia, colpii brutalmente il bordo della vasca con un gomito e boccheggiai. Grumi di gel mi entrarono in bocca e scesero in gola. Chiusi la bocca e afferrai il bordo rialzato del portello, ma quella roba era da per tutto. Negli occhi, a bruciarmi naso e gola, viscida sotto le dita. Il peso mi stava facendo perdere la presa sul portello, premeva sul petto come una manovra ad alta gravità, mi faceva ricadere nel gel. Il mio corpo sussultò violentemente nei confini della vasca. Gel di galleggiamento? Stavo affogando.
Di botto mi afferrarono il braccio e mi trascinarono, scosso dalla tosse, in posizione eretta. All’incirca mentre mi rendevo conto di non avere ferite al petto, qualcuno mi passò un asciugamano sulla faccia senza tante cerimonie e riacquistai la vista. Decisi di rimandare quel piacere e mi concentrai sull’espellere da naso e gola il contenuto della vasca. Restai seduto per circa mezzo minuto, a testa bassa, sputando gel e cercando di capire perché tutto pesasse tanto.
«Alla faccia dell’addestramento.» Una voce maschile, dura, del modello da penitenziario. «Cosa ti hanno insegnato negli Spedi, Kovacs?»
A quel punto capii. Su Harlan’s World, Kovacs è un cognome comunissimo. Tutti sanno pronunciarlo. Quel tizio, no. Parlava una forma cantilenante dell’amanglo che si usa su World, però storpiava malamente il cognome, infatti lo terminava con una «k» invece del «cs» slavo.
E tutto era troppo pesante.
La consapevolezza penetrò le mie percezioni annebbiate come un mattone scaraventato su un vetro smerigliato.
Ero su un altro pianeta.
Chissà quando, avevano preso Takeshi Kovacs (u.d.) e lo avevano trasferito. E siccome Harlan’s World era l’unica biosfera abitabile del sistema Glimmer, la cosa significava un agotransfer con destinazione…
Quale destinazione?
Guardai in su. Vividi tubi al neon in un soffitto di cemento. Ero seduto nel portello aperto di un cilindro metallico; sembravo un antico aviatore che si fosse scordato di vestirsi prima di salire sul suo biplano. Il cilindro faceva parte di una fila disposta lungo una parete, di fronte a una massiccia porta in acciaio, chiusa. L’aria era gelida e i muri non dipinti. Diciamo la verità, almeno su Harlan’s World le sale di neocustodia sono decorate a colori pastello e ci sono inservienti carine. Dopotutto, si suppone che tu abbia pagato il tuo debito con la società. Il minimo che possano fare è offrirti un ingresso luminoso nella nuova vita.
L’aggettivo «luminoso» non era certo adatto all’uomo davanti a me. Alto sui due metri, dava l’impressione di essersi guadagnato da vivere lottando con pantere di palude prima di cominciare quella nuova carriera. Una muscolatura gonfia su petto e braccia, tipo fisico corazzato; la testa, rasata a zero, rivelava una lunga cicatrice, una saetta che scendeva all’orecchio sinistro. Portava un completo nero largo, con le spalline, e aveva sul petto un logo a dischetto. Gli occhi, intonati all’abbigliamento, mi guardavano con gelida calma. Dopo avermi aiutato a sedere, si era allontanato dalla portata delle mie braccia, come da manuale. Era del mestiere da un pezzo.
Chiusi una narice e spruzzai fuori gel dall’altra.
«Vuoi dirmi dove sono? Leggermi i miei diritti o roba simile?»
«Kovacs, al momento non hai alcun diritto.»
Alzai lo sguardo e vidi che sul suo viso si era stirato un sorriso cupo. Scrollai le spalle e ripulii l’altra narice.
«Vuoi dirmi dove sono?»
Lui esitò un attimo, scrutò il soffitto solcato da neon come per accertarsi dell’informazione prima di darmela, poi imitò la mia scrollata di spalle.
«Sicuro. Perché no? Sei a Bay City, amico. Bay City, Terra.» Tornò la smorfia di un sorriso. «Patria della specie umana. Goditi il soggiorno sul più antico dei mondi civilizzati. Ta-tata-DA.»
«Non rovinare il buon lavoro che hai fatto sinora», replicai serio.
La dottoressa mi guidò in un lungo corridoio bianco. Sul pavimento c’erano i segni lasciati da barelle con ruote di gomma. Aveva un passo veloce e io faticavo a tenerle dietro, essendo coperto solo da una salvietta grigia e ancora gocciolante di gel. A livello superficiale, le sue erano maniere da assistenza medica, però dietro c’era una corrente di fretta. Aveva sotto il braccio un fascio di documenti cartacei e chiaramente era attesa altrove. Chissà di quante ricustodie si occupava in un giorno.
«Dovrà riposare il più possibile nelle prossime ventiquattrore o giù di lì», recitò. «Potrebbe avvertire qualche piccolo dolore, ma è normale. Il sonno risolverà il problema. Se avrà ricorrenti comp…»
«Lo so. Ci sono già passato.»
Non avevo molta voglia di interazione umana. Mi ero appena ricordato di Sarah.
Ci fermammo a una porta con la parola DOCCIA stampigliata sul vetro smerigliato. La dottoressa mi spinse dentro e mi fissò per un momento.
«Ho anche già fatto la doccia», le assicurai.
Lei annuì. «Quando avrà finito, c’è un ascensore in fondo al corridoio. Verrà rilasciato al piano di sopra. La… polizia vuole parlare con lei.»
Il manuale dice che bisogna evitare forti shock adrenalinici a chi è appena entrato in una nuova custodia, ma probabilmente lei aveva letto il mio file e non riteneva un grande evento un incontro con la polizia, dato il mio stile di vita. Cercai di condividere l’opinione.
«Cosa vogliono?»
«Non hanno ritenuto di mettermi al corrente.» Dalle parole trapelava una punta di frustrazione che non avrebbe dovuto lasciar vedere. «Forse la sua reputazione la precede.»
«Forse.» D’impulso, atteggiai il mio nuovo volto a un sorriso. «Dottoressa, non sono mai stato qui. Sulla Terra, intendo. Non ho mai avuto a che fare con la vostra polizia. Mi devo preoccupare?»
Mi guardò, e vidi affacciarsi nei suoi occhi il misto di paura, meraviglia e disprezzo del riformatore d’uomini fallito.
«Con un uomo come lei», disse infine, «penserei che siano loro a doversi preoccupare.»
«Già, giusto», convenni calmo.
Lei esitò. «C’è uno specchio nello spogliatoio», annunciò, e se ne andò. Lanciai un’occhiata alla stanza che aveva indicato, ma non ero certo di essere pronto per lo specchio.
Sotto la doccia scacciai l’inquietudine fischiettando e passai sapone e mani sul nuovo corpo. La mia custodia era sulla quarantina, anni standard del Protettorato, con un fisico da nuotatore e quella che pareva una modifica militare del sistema nervoso. Un upgrade neurochimico, con ogni probabilità. Una volta lo avevo fatto anch’io. Una certa difficoltà respiratoria indicava assuefazione alla nicotina, e sull’avambraccio c’era una cicatrice spettacolare, ma a parte quello non trovavo nulla di cui lamentarmi. I difettucci e i piccoli tic saltano fuori più avanti, e se sei saggio impari a conviverci. Ogni custodia ha una storia. Se quel tipo di cosa ti dà fastidio, vai a fare la fila da Syntheta o da Fabrikon. Io ho portato una buona dose di custodie sintetiche: le usano spesso per le udienze per la libertà sulla parola. Economiche, ma è come vivere soli in una casa piena di spifferi, e i circuiti dei sapori non sono mai perfetti. Tutto quello che mangi sembra segatura al curry.
Nel cubicolo dello spogliatoio trovai un vestito estivo ripiegato su una panchina e lo specchio alla parete. Sopra il vestito c’era un semplice orologio d’acciaio e, sotto l’orologio, una busta bianca col mio nome scritto sopra. Inspirai a pieni polmoni e mi misi davanti allo specchio.
È sempre la parte più dura. Sono quasi due decenni che lo faccio e ancora mi dà sui nervi guardare lo specchio e vedere un perfetto sconosciuto. È come estrarre un’immagine dagli abissi di un autostereogramma. Per i primi momenti vedi solo un estraneo che ti scruta da dietro una finestra. Poi la messa a fuoco cambia e ti senti fluttuare dietro la maschera e aderire al suo interno con uno shock che è quasi tattile. Hai la sensazione che qualcuno abbia tagliato un cordone ombelicale, solo che non siete stati separati voi due, ma è stata recisa l’estraneità, e ora guardi il tuo riflesso nello specchio.
Restai lì ad asciugarmi con la salvietta, abituandomi al viso. Era caucasico, un cambiamento per me, e l’impressione generale che ne ebbi fu che se nella vita esiste una strada facile, quella faccia non l’aveva mai seguita. Nonostante il caratteristico pallore di una lunga permanenza nella vasca, i tratti nello specchio riuscivano ad apparire macerati dalle intemperie. C’erano rughe da per tutto. I capelli corti erano neri, con striature grigie. Gli occhi sfoggiavano una speculativa sfumatura d’azzurro e sopra il sinistro c’era una piccola cicatrice frastagliata. Sollevai l’avambraccio sinistro per studiare la storia scritta lì, chiedendomi se le due cicatrici fossero collegate.
La busta sotto l’orologio conteneva un solo foglio di carta stampata. Supporto cartaceo. Firma a mano. Molto chic.
Be’, adesso sei sulla Terra. Il più antico dei mondi civilizzati. Scrollai le spalle e lessi la lettera, poi mi vestii, la piegai e la misi nella tasca del mio abito nuovo. Con un’ultima occhiata allo specchio indossai l’orologio e andai a incontrare la polizia.
Erano le quattro e quindici, ora locale.
La dottoressa mi aspettava seduta a un lungo, curvo banco d’accettazione. Stava compilando moduli su un monitor. Un uomo magro, severo, in uniforme nera, le stava a fianco. Nella stanza non c’era nessun altro.
Mi guardai attorno, poi riportai gli occhi sull’uniforme.
«Lei è della polizia?»
«La polizia è fuori.» L’uomo gesticolò in direzione della porta. «Questa non è giurisdizione loro. Hanno bisogno di un mandato speciale per entrare qui. Abbiamo un nostro servizio di sicurezza.»
«E lei è…?»
Mi guardò con lo stesso insieme di emozioni della dottoressa al piano di sotto. «Sullivan, direttore di Bay City Central, il penitenziario che lei sta lasciando.»
«Non sembra che l’idea di perdermi la delizi.»
Sullivan mi trafisse con lo sguardo. «Lei è recidivo, Kovacs. Non mi è mai parso il caso di sprecare buona carne e sangue per gente come lei.»
Toccai la lettera nel taschino della camicia. «Per mia fortuna, il signor Bancroft la pensa diversamente. Dovrebbe avermi mandato una limousine. Sta fuori anche quella?»
«Non ho controllato.»
Sul banco risuonò un campanello di protocollo. La dottoressa aveva concluso il data entry. Estrasse il bordo arricciato della copia cartacea, la siglò in un paio di punti e la passò a Sullivan. Il direttore si chinò sulla carta, la studiò a occhi socchiusi prima di scarabocchiare una firma e passarla a me.
«Takeshi Lev Kovacs», disse, storpiando il mio nome con la stessa abilità del suo tirapiedi nella sala della vasca, «per i poteri a me conferiti dall’Accordo Giudiziario delle NU, la rilascio in concessione d’uso a Laurens J. Bancroft per un periodo non superiore a sei settimane, al termine del quale la sua libertà sulla parola verrà ripresa in esame. Firmi qui.»
Presi la penna e scrissi il mio nome con la grafia di qualcun altro vicino all’indice del direttore. Sullivan separò le due copie e mi porse quella rosa. La dottoressa tese un secondo foglio e Sullivan lo prese.
«Questa dichiarazione della dottoressa certifica che Takeshi Kovacs (u.d.) è stato ricevuto intatto dall’Amministrazione Giudiziaria di Harlan’s World e successivamente introdotto nella custodia di questo corpo. Ne siamo testimoni io e un monitor del circuito televisivo chiuso. Viene allegata una copia su disco dei dettagli della trasmissione e dei dati della vasca. Firmi la dichiarazione.»
L’autore
Richard K. Morgan (1965) è uno scrittore e sceneggiatore inglese, autore di fantascienza e di fantasy. Le sue opere si ascrivono prevalentemente al genere letterario della fantascienza distopica. Morgan è laureato in storia presso il Queens’ College di Cambridge, dopo la laurea ha iniziato a insegnare inglese in diversi paesi del mondo. Dopo quattordici anni e la specializzazione presso l’Università di Strathclyde in Scozia, il suo primo romanzo venne pubblicato e divenne così uno scrittore a tempo pieno.
Nel 2002 fu pubblicato il suo primo romanzo, Bay City (Altered Carbon), una miscela di elementi cyberpunk e noir, che ha per protagonista l’antieroe Takeshi Kovacs. I diritti cinematografici del libro sono stati ceduti a Joel Silver, il produttore di Matrix; grazie agli introiti derivanti da questa transazione (1.000.000 US$), Morgan ha potuto dedicarsi completamente alla scrittura. Nel 2003 l’edizione statunitense ha ottenuto il Premio Philip K. Dick. La serie TV tratta dal suo primo libro, come è noto, è di recente divenuta una serie TV prodotta da Netflix.
Per altre informazioni su Richard Morgan e la bibliografia in italiano e in inglese, rimandiamo alla pagina di Wikipedia dedicata all’autore di Altered Carbon.
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