Il nuovo romanzo d’avventura di Clive Cussler, L’enigma dei Maya, scritto in collaborazione con Thomas Perry sarà pubblicato in Italia il 15 giugno 2017 da Longanesi con un prezzo di copertina di 16,40 euro (ordinabile online con il 15% di sconto). Le versioni mobi, epub e pdf di L’enigma dei Maya avranno invece un costo di 9,99 euro.
L’enigma dei Maya, trama del libro di Clive Cussler
La trama di L’enigma dei Maya vede protagonisti i coniugi Sam e Remi Fargo. I cacciatori di tesori, questa volta, si trovano in Messico per dare il loro aiuto alla popolazione colpita da un terremoto. Durante le operazioni di soccorso, tuttavia, scoprono uno scheletro che stringe a sé un vaso sigillato al cui interno è custodito un antico manoscritto maya. I segreti custoditi nel preziosissimo manoscritto non riguardano solamente i maya, ma l’umanità tutta, e presto Sam e Remi scopriranno che c’è qualcuno che è disposto a tutto pur di impadronirsi della reliquia.
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Un estratto dal romanzo di Cussler e Perry
Rabinal, Guatemala, 1537
Passata la mezzanotte, fra’ Bartolomé de Las Casas era ancora nello studio, alla luce delle candele, nella missione maya di Rabinal. Prima di andare a letto, doveva compilare il rapporto al vescovo Marroquín, per convincere le gerarchie ecclesiastiche del successo delle missioni domenicane in Guatemala. Si tolse il mantello nero e lo appese a un piolo sulla porta. Rimase immobile per un istante, ascoltando i rumori della notte: il delicato tubare di qualche uccello, il frinire degli insetti nella quiete assoluta.
Si avvicinò all’armadietto di legno alla parete, lo aprì e tirò fuori il prezioso libro. Glielo aveva portato Kukulcán, un uomo di sangue reale famoso per la straordinaria erudizione, insieme ad altri due, perché li esaminasse. Las Casas posò il libro sul tavolo. Lo studiava da mesi e il lavoro di quella sera sarebbe stato fondamentale. Sistemò un foglio di pergamena sul tavolo e aprì il meraviglioso volume.
Quella pagina era suddivisa in varie parti. C’erano disegni di creature fantastiche dalle sembianze umane che lui ipotizzava rappresentassero divinità, sedute e con lo sguardo rivolto a sinistra; sotto di esse, sei colonne verticali composte da simboli indecifrabili: si trattava di scrittura maya, a detta di Kukulcán. Le pagine erano bianchissime e i simboli in rosso, verde, giallo e azzurro. Le parti scritte erano in nero. Las Casas appuntì la penna per renderla quanto più sottile possibile, divise il foglio in sei colonne verticali e iniziò a copiare i simboli. Era un’operazione difficile e faticosa, ma faceva parte del lavoro. Rientrava nella sua vocazione domenicana tanto quanto il suo abbigliamento: il saio bianco, simbolo di purezza, e il mantello nero che rappresentava la penitenza. Non aveva idea di cosa significassero quei caratteri o i nomi delle divinità mitologiche, ma sapeva che in quei disegni c’era una cultura dalle radici profonde, che la Chiesa avrebbe dovuto conoscere per comprendere i nuovi convertiti.
Per lui, gestire la lenta e pacifica conversione degli indios maya era un dovere personale, una penitenza. Bartolomé de Las Casas non si era recato nel Nuovo Mondo in pace. Ci era andato armato di spada. Partito dalla Spagna, nel 1502 aveva fatto rotta su Hispaniola insieme al governatore Nicolás de Ovando e aveva accettato un’encomienda, una terra conquistata, e il diritto di rendere schiavi tutti gli indios che vi avesse trovato. Nel 1513, dopo un decennio di crudeltà messe in atto dai conquistatori e dopo aver preso gli ordini sacerdotali, aveva 1
Rabinal, Guatemala, 1537
Passata la mezzanotte, fra’ Bartolomé de Las Casas era ancora nello studio, alla luce delle candele, nella missione maya di Rabinal. Prima di andare a letto, doveva compilare il rapporto al vescovo Marroquín, per convincere le gerarchie ecclesiastiche del successo delle missioni domenicane in Guatemala. Si tolse il mantello nero e lo appese a un piolo sulla porta. Rimase immobile per un istante, ascoltando i rumori della notte: il delicato tubare di qualche uccello, il frinire degli insetti nella quiete assoluta.
Si avvicinò all’armadietto di legno alla parete, lo aprì e tirò fuori il prezioso libro. Glielo aveva portato Kukulcán, un uomo di sangue reale famoso per la straordinaria erudizione, insieme ad altri due, perché li esaminasse. Las Casas posò il libro sul tavolo. Lo studiava da mesi e il lavoro di quella sera sarebbe stato fondamentale. Sistemò un foglio di pergamena sul tavolo e aprì il meraviglioso volume.
Quella pagina era suddivisa in varie parti. C’erano disegni di creature fantastiche dalle sembianze umane che lui ipotizzava rappresentassero divinità, sedute e con lo sguardo rivolto a sinistra; sotto di esse, sei colonne verticali composte da simboli indecifrabili: si trattava di scrittura maya, a detta di Kukulcán. Le pagine erano bianchissime e i simboli in rosso, verde, giallo e azzurro. Le parti scritte erano in nero. Las Casas appuntì la penna per renderla quanto più sottile possibile, divise il foglio in sei colonne verticali e iniziò a copiare i simboli. Era un’operazione difficile e faticosa, ma faceva parte del lavoro. Rientrava nella sua vocazione domenicana tanto quanto il suo abbigliamento: il saio bianco, simbolo di purezza, e il mantello nero che rappresentava la penitenza. Non aveva idea di cosa significassero quei caratteri o i nomi delle divinità mitologiche, ma sapeva che in quei disegni c’era una cultura dalle radici profonde, che la Chiesa avrebbe dovuto conoscere per comprendere i nuovi convertiti.
Per lui, gestire la lenta e pacifica conversione degli indios maya era un dovere personale, una penitenza. Bartolomé de Las Casas non si era recato nel Nuovo Mondo in pace. Ci era andato armato di spada. Partito dalla Spagna, nel 1502 aveva fatto rotta su Hispaniola insieme al governatore Nicolás de Ovando e aveva accettato un’encomienda, una terra conquistata, e il diritto di rendere schiavi tutti gli indios che vi avesse trovato. Nel 1513, dopo un decennio di crudeltà messe in atto dai conquistatori e dopo aver preso gli ordini sacerdotali, aveva partecipato alla conquista di Cuba, accettando un’altra concessione reale di terre e indios come sua quota del bottino di guerra. Ripensando alla sua vecchia vita, fu assalito da vergogna e sensi di colpa.
Quando aveva finalmente ammesso a se stesso di essere stato tra i responsabili di un peccato gravissimo, aveva iniziato un percorso di pentimento ed espiazione. Las Casas si sarebbe ricordato per sempre di quel giorno del 1514 in cui, con coraggio e dignità, aveva denunciato le proprie azioni passate e restituito gli schiavi indios al governatore. Ricordare quel giorno era un po’ come riaprire una vecchia ferita. In seguito, era tornato in Spagna al fine di intercedere presso i potenti per la protezione degli indios. Era successo ventitré anni prima e, da allora, si era prodigato instancabilmente, scrivendo e lavorando per compensare i torti commessi e permessi.
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