La meraviglia degli anni imperfetti di Clara Sánchez è in uscita il 25 febbraio 2016 nella collana Narratori moderni di Garzanti. Il romanzo della scrittrice spagnola, lungo 224 pagine, sarà presentato con un prezzo di copertina di 17,60 euro (in eBook, in ePub e Mobi, al costo di 10,99 euro). Ecco la trama ufficiale e un estratto da La meraviglia degli anni imperfetti.
La meraviglia degli anni imperfetti, trama del romanzo di Clara Sánchez
Ecco la trama di La meraviglia degli anni imperfetti: il sedicenne Fran vuole scappare da casa e dalla madre che non si è mai curata davvero di lui. Nel sobborgo di Madrid in cui vive, Fran passa il tempo in compagnia dell’amico Eduardo e di Tania, sorella dell’amico di cui è irrimediabilmente innamorato. Eduardo e Tania sono figli di una famiglia ricca e frequentano scuole prestigiose, ma col tempo Fran inizia a credere che vi sia qualcosa dietro quella facciata dorata, dubbi che vengono confermati nel più traumatico dei modi per Fran, con il repentino matrimonio di Tania con un uomo dal passato oscuro. Inoltre l’amico Eduardo inizia a lavorare per il cognato, lasciando Fran sempre più solo e preda dell’indolenza. Quello che Fran vuole davvero è capire come stanno realmente le cose, e l’opportunità arriva quando Eduardo gli consegna una chiave chiedendogli di conservarla senza farne parola con nessuno.
Nel giro di pochi giorni Eduardo scompare e Fran cerca in ogni modo di scoprire quale serratura può aprire la chiave consegnata a lui dall’amico: le sue ricerche lo porteranno a svelare diversi misteri, ma ritrovare le tracce di Eduardo si dimostra un’impresa sempre più difficile.
La meraviglia degli anni imperfetti di Clara Sánchez: un estratto dal primo capitolo
Vivevamo relativamente vicino all’Híper e un po’ più in là rispetto al centro commerciale Zoco Minerva, che aveva due piani e una copertura di vetro a volta, dove da bambino salivo spesso su un’Alfa Romeo che funzionava con cento pesetas. Casa nostra era una villetta con un giardino molto curato nel periodo della mia infanzia e un po’ più selvatico durante l’adolescenza. Era il numero sedici di calle Rembrandt, una via in leggera pendenza fino alla fermata dell’autobus, laggiù, dall’altro lato della strada, dove cominciava un enorme terreno edificabile in vendita che circondava la piccola e solitaria pensilina rossa. A volte i cristalli della pensilina, destinati a proteggere dal vento e dalla pioggia, andavano in frantumi, inondando il marciapiede di pietruzze di vetro. Perciò i viaggiatori si rifugiavano imprecando tra i ferri inflessibili senza protezione finché non arrivava il 77. Dietro i poveri viaggiatori e oltre l’immenso appezzamento si stagliava la sierra, innevata d’inverno e azzurrognola d’estate. All’inizio, finché i pianori e le piccole colline non si furono riempiti di villette, era quasi tutto un unico grande terreno dove l’estate era estate e l’inverno era inverno. D’estate gli uccelli dovevano attraversare con grande sforzo la fitta nebbia di caldo, e durante la stagione fredda il carbone luccicava come il ghiaccio. Erano diventati di moda la legna e il carbone, le stufe e i caminetti, e che si vedesse bruciare ciò che riscaldava. Nelle nere sere di dicembre il fuoco rischiarava il nostro salotto ed era lì che ci rifugiavamo in mezzo alle intemperie che si propagavano a ondate furiose dalla sierra e dal cielo, finché mia madre non mi metteva il giaccone e i guanti e non mi portava allo Zoco Minerva, dove beveva una birra guardando me che guidavo l’Alfa Romeo.
La maggior parte delle famiglie non era disposta a sopportare l’umiliazione di aspettare il 77 e usava un’auto o due auto o un’auto e una moto. Di solito le biciclette si adoperavano fino ai quindici anni, non oltre. Nella mia strada vivevano vari compagni con i quali sono andato all’asilo, poi a scuola e poi ancora al liceo. I genitori più distratti non ci riconoscevano quando, di colpo, ci allungavamo e ci lasciavamo crescere i capelli. Mio padre, che era ben poco presente in casa a quell’epoca, era quello che meno riconosceva i miei amici. E a volte se ne restava a osservarmi incuriosito come se non riconoscesse neanche me. Cazzo, diceva, come passa il tempo.
Fino ai miei tredici anni, due anni prima di abbandonare la bici, mia madre fece parte di un gruppo di donne che passava ore e ore a fare compere all’Híper, a portarci a scuola la mattina e il pomeriggio a lezione di inglese e di karate, a organizzare feste per bambini, a intervenire nelle associazioni dei genitori degli alunni, a fare i compiti con noi e ad aspettarci quando, arrivata l’età, decidevamo di andare a divertirci a Madrid e l’autobus ritardava. Finché un giorno le sentii dire che aveva perso la sua giovinezza.
«Ho perso la mia giovinezza», disse senza rivolgersi a nessuno in particolare, come parlando da sola, e a partire da quel momento iniziò a disinteressarsi di me, della cura del giardino, dei miei studi, dei pasti, dei vestiti, e anche di mio padre, che ormai non aspettava più sveglia al ritorno dai suoi continui viaggi. Aveva deciso di occuparsi solo di sé stessa.
Perciò io avevo le mie chiavi, i miei soldi per comprarmi, se avevo fame, una fetta di pizza oppure un hamburger e una Coca-Cola, ed ero libero. Se invece di andare a scuola passavo la mattinata al centro commerciale, o al centro polisportivo a guardare quanto giocavano male a tennis i vicini che non lavoravano, non succedeva niente. Era affascinante vedere come si potesse vivere senza lavorare. Avevano belle racchette, scarpe Nike e davano una mancia a quelli di noi che si offrivano di fare da raccattapalle. «Che succede, giovanotto, non sei andato a scuola?» E io stavo zitto per non rispondere: “E tu, allora, non vai a lavorare?”.
Anche l’Híper era pieno di tizi che si aggiravano in piena mattinata saccheggiando i reparti giardinaggio e ferramenta. Quattro ore per comprare, poniamo, tre viti e una canna per l’irrigazione. Il reparto bricolage era molto frequentato perché c’era sempre bisogno di installare degli scaffali in garage. Alla caffetteria alcuni prendevano duecento caffè leggendo il giornale e rimettendo a posto il mondo, in pantaloncini corti se era estate e in tuta se era inverno. Ci conoscevamo tutti di vista ma ci salutavamo soltanto se avevamo avuto qualche occasione di parlare tra noi. Alien mi faceva sempre un cenno quando mi vedeva entrare nella caffetteria. Mi avvicinavo. «Che succede, non sei andato a scuola neanche oggi?» Io mi mordevo la lingua e non dicevo niente. Avrei potuto inventarmi una scusa, per esempio che mancava il professore, ma a che pro? Lui non era mio padre.
Avevo l’impressione che Alien vivesse da solo nei pressi della pineta, perché a volte lo avevo visto da quelle parti che lanciava un bastone a un pastore tedesco. Doveva essere sulla cinquantina e aveva vissuto per tanto tempo alle Canarie, dalle parti del vulcano Teide. Portava i capelli legati in una coda di cavallo che gli arrivava alle spalle e vari ciondoli che gli pendevano sui peli del petto. Aveva anche le braccia molto pelose, quasi non gli si vedeva la pelle. Lo sguardo era penetrante e la voce profonda, e in quel periodo leggeva in continuazione libri di Asimov e altri che avevano a che fare con l’universo.
I lettori interessati possono leggere un’anteprima più ampia del nuovo libro di Clara Sánchez a questo indirizzo sulla piattaforma Google Libri.