Trama di Il sole è anche una stella di Nicola Yoon: Natasha non crede né al caso né al destino. E neppure ai sogni: non si avverano mai. Sua madre dice che le cose succedono per una ragione. Ma Natasha è diversa. Crede piuttosto nella scienza e nella relazione causa-effetto. Ogni azione conduce necessariamente a un’altra e così via. Sono le azioni di ognuno a determinare il destino. Per intenderci, non è il tipo di ragazza che incontra un ragazzo carino in un polveroso negozio di dischi a New York e s’innamora di lui. Eppure è quel che accade, proprio a dodici ore dall’essere rimpatriata in Giamaica insieme alla sua famiglia. Lui si chiama Daniel. È il figlio perfetto, studente modello e sempre all’altezza delle molte aspettative dei genitori. Quando è con Natasha, però, tutto è diverso. Qualcosa in lei gli suggerisce che il destino abbia in serbo un che di speciale – per entrambi. Ed è come se ogni momento della loro vita li avesse preparati solo per vivere questo meraviglioso, singolo istante.
MIA madre mi dice che è ora di piantarla e che quello che sto facendo è inutile. Siccome è arrabbiata, parla con un accento più marcato del solito e ogni sua affermazione è una domanda.
«Non ti sembra che sia ora di piantarla, Tasha? Non ti sembra che stai facendo una cosa inutile?» mi rimprovera, prolungando la U di inutile per un secondo di troppo.
Mio padre non fiata. È ammutolito per la rabbia o per l’impotenza – quale delle due non riesco mai a capirlo – e, dato il broncio perenne, è difficile immaginare il suo viso con un’altra espressione. Se tutto fosse successo anche solo qualche mese fa, mi sarebbe dispiaciuto vederlo così, ma adesso non me ne importa più di tanto. È colpa sua se ci troviamo in questo casino.
L’unico della famiglia a essere contento degli ultimi sviluppi è Peter, il mio fratellino di nove anni. In questo momento sta facendo la valigia con No Woman, No Cry di Bob Marley in sottofondo. «Un classico per quando si preparano i bagagli», l’ha definita.
Nonostante sia nato qui in America, Peter dice di voler vivere in Giamaica. È sempre stato timidissimo e ha difficoltà a farsi degli amici. Secondo me è convinto che la Giamaica sarà un paradiso e che per qualche motivo laggiù se la passerà meglio.
Siamo tutti e quattro nel soggiorno del nostro bilocale, che funge anche da camera per me e Peter. Ha due piccoli divani letto che apriamo di sera e, al centro, una tenda bluette a mo’ di séparé. In questo istante la tenda è scostata e si vedono entrambe le nostre metà di stanza.
Indovinare chi di noi due vuole andarsene e chi vuole restare è un gioco da ragazzi. La mia parte del soggiorno ha ancora un aspetto vissuto, con i libri nello scaffale Ikea e la mia foto preferita di me e della mia migliore amica Bev sulla scrivania. Siamo in posa nel laboratorio di fisica, con tanto di occhiali protettivi e bocca a cuore. Gli occhiali sono stati un’idea mia, le labbra sexy un’idea sua. Non ho tolto un solo indumento dal comò e nemmeno staccato dalla parete il mio poster della NASA che raffigura la volta celeste. È enorme – in realtà sono otto poster uniti insieme – e mostra le principali stelle, costellazioni e sezioni della Via Lattea visibili dall’emisfero nord. Fornisce persino istruzioni su come trovare la stella polare e orientarsi con gli astri nel caso ci si perda. I tubi che ho comprato per trasportarlo sono ancora chiusi e appoggiati al muro. Dalla parte di Peter, invece, le superfici sono pressoché spoglie e le sue cose sono già quasi tutte riposte in valigie e scatoloni.
Mia madre ha ragione, ovviamente… quello che sto facendo è inutile. Ma prendo comunque le cuffie, il libro di fisica e qualche fumetto. Se mi toccherà aspettare, almeno potrò leggere e finire i compiti.
Peter mi guarda e scuote la testa. «Perché ti porti dietro quello?» mi domanda, riferendosi al testo di fisica. «Ce ne andiamo, Tasha. Non devi consegnare nessun compito.»
Mio fratello ha appena scoperto il potere del sarcasmo e lo sfrutta alla minima occasione.
Non mi degno nemmeno di rispondergli, mi limito a indossare le cuffie e mi avvio verso la porta. «Torno presto», dico a mia madre.
Lei storce la bocca e si volta dall’altra parte. Mi sforzo di ricordare che non ce l’ha con me. «Tasha, non è mica che ce l’ho con te, capito?» è una frase che ripete spesso, in questi giorni. Sto andando all’Ufficio Cittadinanza e Immigrazione degli Stati Uniti (USCIS) nel centro di Manhattan per vedere se c’è qualcuno che mi possa aiutare. Siamo immigrati irregolari e stasera saremo rimpatriati.
Quella di oggi è la mia ultima possibilità di convincere qualcuno – o il fato – a suggerirmi una scappatoia per restare in America.
Io non credo nel fato, sia chiaro. Ma sono disperata.
Per ulteriori informazioni sull’autore di origini giamaicane rimandiamo alla pagina di Wikipedia EN dedicata a Nicola Yoon.