Il thriller L’uomo di gesso di C.J. Tudor, edito da Rizzoli il 30 gennaio 2018, ha un prezzo di copertina di 20 euro per l’edizione cartacea e di 9,99 per la versione eBook (in pdf, epub o mobi). Chi è il misterioso uomo di gesso? Vediamo insieme il riassunto della trama del libro di Tudor.
L’uomo di gesso: trama del libro
Guardandosi indietro, tutto è cominciato quel giorno alla fiera, con il terribile incidente alla giostra. Il giorno in cui Ed, dodicenne, ha incontrato per la prima volta l’uomo di gesso. È stato proprio lui, l’uomo di gesso, a dargli l’idea di utilizzare quei disegni per i messaggi con il suo gruppo di amici. E all’inizio era uno spasso per tutti. Fino a quando non è stato ritrovato il cadavere di una ragazzina. Ma sono passati trent’anni, e Ed pensava di essersi lasciato il passato alle spalle…
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZON«Tempesta in arrivo, Eddie.»
Mio padre adorava azzardare previsioni meteo con voce profonda e autorevole, come gli annunciatori alla tele. Parlava sempre con assoluta sicurezza, anche se di solito non ci azzeccava.
Guardai fuori dalla finestra, il cielo era di un blu perfetto, così intenso che dovevi stringere gli occhi per non restare abbagliato.
«Non sembra che ci sarà una tempesta, papà» dissi, con la bocca piena. Stavo mangiando un sandwich al formaggio.
«Certo, e lo sai perché? Perché non ci sarà proprio nessuna tempesta» intervenne mamma, che era entrata in cucina all’improvviso, senza far rumore, come una specie di ninja. «La BBC dice che ci sarà il sole e farà caldo per tutto il weekend… e non parlare a bocca piena, Eddie» aggiunse.
«Uhm» rispose papà, come del resto faceva sempre quando non era d’accordo con mamma ma non osava dirle che aveva torto.
Nessuno aveva il coraggio di affrontarla di petto. Mia madre era – e lo è ancora, del resto – minacciosa sotto molti aspetti. Alta, con capelli corti e scuri, occhi marroni che potevano accendersi di gioia o infiammarsi di nera furia quando si arrabbiava (e, un po’ come l’Incredibile Hulk, nessuno ci teneva a farla arrabbiare).
Mamma era una dottoressa, ma non una normale, come quelle che mettono i punti sulle gambe o ti fanno delle iniezioni e roba del genere. Papà una volta mi disse che la mamma «aiutava le donne che erano nei guai». Non specificò che genere di guai, ma immaginavo fossero piuttosto seri, se avevano bisogno di un medico.
Anche papà lavorava, ma da casa. Era uno scrittore, lavorava per riviste e giornali. Non tutto il tempo, però. A volte si lamentava perché nessuno gli dava lavoro oppure, con una risata amara, diceva: «Questo mese non ho il mio pubblico, Eddie».
Io ero solo un ragazzino e mi sembrava che il suo non fosse un lavoro «vero». Un lavoro adatto a un papà. Un papà doveva mettersi la cravatta e uscire la mattina per andare in ufficio e tornare a casa la sera, più o meno all’ora del tè. Mio padre andava a lavorare nell’altra stanza e si sedeva davanti al computer con il pigiama e una maglietta, a volte senza nemmeno pettinarsi.
Era diverso dagli altri papà anche nell’aspetto. Aveva una barba folta e incolta, capelli lunghi che teneva legati in una coda di cavallo. Indossava dei jeans strappati tutti pieni di buchi, persino d’inverno, e magliette scolorite con sopra il nome di vecchi gruppi, tipo Led Zeppelin e Who. A volte portava anche dei sandali.
Gav la Palla una volta disse che mio papà era un «hippie di merda». Probabilmente aveva ragione, ma all’epoca io lo presi come un insulto, gli diedi una spinta e lui mi gettò a terra, e me ne tornai a casa barcollando con dei lividi nuovi e un naso che sanguinava.
Più tardi facemmo pace, naturalmente. Gav la Palla poteva essere una vera testa di pinolo quando ci si metteva. Era uno di quei ragazzini ciccioni che devono sempre essere i più casinisti e odiosi per scoraggiare i bulli veri, ma era anche uno dei miei migliori amici e una delle persone più leali e generose che conoscessi.
«Devi sempre prenderti cura dei tuoi amici, Eddie Munster» mi disse una volta in tono solenne. «Gli amici sono tutto.»
Eddie Munster era il mio soprannome. Perché di cognome facevo Adams, come la Famiglia Addams, insomma. Naturalmente, il bambino della Famiglia Addams si chiamava Pugsley, e Eddie Munster in realtà era quello di The Munsters, ma al tempo a certe cose non si faceva caso e quel soprannome mi rimase incollato addosso, come capita talvolta.
Eddie Munster, Gav la Palla, Mickey Metallo (per colpa del gigantesco apparecchio ai denti), Hoppo (David Hopkins) e Nicky. La nostra banda. Nicky non aveva un soprannome perché era una ragazza, anche se cercava con tutte le sue forze di nasconderlo. Diceva parolacce come un maschio, si arrampicava sugli alberi come un maschio e quando faceva a botte poteva vedersela alla pari con tutti i maschi o quasi. Eppure a guardarla si capiva subito che era una ragazza. E anche molto carina, con lunghi capelli rossi e la pelle chiara, spruzzata da innumerevoli lentiggini. Non che io ci facessi caso, eh, figuriamoci.
Dovevamo vederci tutti quanti quel sabato. Ci incontravamo quasi ogni sabato, per andare a casa di qualcuno di noi, o al parco giochi, o a volte in giro per i boschi. Ma quel sabato era speciale, perché c’era il luna park. Arrivava ogni anno, lo tiravano su al parco, vicino al fiume. Quell’anno per la prima volta avevamo il permesso di andare da soli, senza adulti a controllarci.
Aspettavamo quel giorno da settimane, sin da quando i primi manifesti erano comparsi sui muri della città. Ci sarebbe stato l’autoscontro e anche l’ottovolante, la nave dei pirati e l’Orbiter. Era superfico.
«Allora» dissi, finendo il sandwich al formaggio più velocemente che potevo, «con gli altri sono rimasto d’accordo per vederci fuori dal parco alle due, va bene?»
«Be’, mi raccomando, non ti allontanare dalle strade principali» disse mamma. «Niente scorciatoie, niente vie secondarie, e non parlare con nessuno che non conosci.»
«Va bene.»
Mi allontanai dalla sedia e mi diressi alla porta.
«E portati il marsupio.»
«Oh, mammaaaaa.»
«Andrai sulle giostre e chissà dove, e il portafoglio ti potrebbe cadere. Marsupio. E niente discussioni.»
Aprii la bocca e la richiusi immediatamente. Sentivo le guance andare a fuoco. Odiavo quello stupido marsupio. I turisti ciccioni portavano il marsupio. Non sarei mai sembrato fico di fronte ai ragazzi e a Nicky. Soprattutto a Nicky. Ma mamma era fatta così: niente discussioni con lei.
«Bene.»
In realtà non andava bene, ma vedevo le lancette dell’orologio della cucina che correvano verso le due e dovevo filare, e subito. Filai su per le scale, afferrai quello stupido marsupio e ci misi dentro i soldi. Cinque bigliettoni. Una fortuna. Poi tornai di sotto a passo di carica.
«A dopo.»
«Divertiti.»
Certo che mi sarei divertito, non avevo il minimo dubbio. C’era un bel sole. Avevo la mia maglietta preferita e le Converse. Sentivo l’attutito thump, thump delle musiche del luna park, l’odore degli hamburger e dello zucchero filato. Sarebbe stata una giornata perfetta.
Gav la Palla, Hoppo e Mickey Metallo erano già davanti all’ingresso quando arrivai.
«Ehi, Eddie Munster. Ma che bel borsello!» urlò Gav la Palla.
Diventai rosso, anzi probabilmente viola, e gli mostrai il medio. Hoppo e Mickey Metallo ridacchiarono per la battuta. Poi Hoppo, che era sempre il più gentile, quello che metteva pace tra tutti, disse a Gav la Palla: «Almeno non è una cosa da gay come i tuoi pantaloncini, testa di pinolo».
Lui fece una smorfia, tese l’orlo dei pantaloncini e fece una specie di balletto, sollevando le gambe tozze come se fosse una ballerina. Gav la Palla era fatto così. Era impossibile insultarlo, perché tanto se ne fregava. O, almeno, era quello che faceva pensare a tutti.
«E comunque» dissi, perché nonostante il diversivo di Hoppo mi sentivo ancora un cretino con quel marsupio addosso, «mica me lo porto.»
Sganciai la chiusura, mi infilai il portafoglio nella tasca dei pantaloni e mi guardai intorno. Una folta siepe correva per tutto il perimetro del parco. Infilai il marsupio in mezzo ai rovi, così nessuno lo avrebbe visto anche se ci fosse passato proprio davanti, e allo stesso tempo non avrei avuto problemi a riprenderlo prima di tornare a casa.
«Sicuro di volerlo lasciare lì?» chiese Hoppo.
«Già, che succede se la mammina lo viene a sapere?» si inserì Mickey Metallo, con quella sua solita cantilena maligna.
Anche se faceva parte della nostra banda ed era il miglior amico di Gav la Palla, a me Mickey Metallo non era mai piaciuto granché. In lui c’era qualcosa di freddo e orribile come la ferraglia che portava appiccicata ai denti. Ma forse non c’era da sorprendersi, con il fratello che si ritrovava.
«Non mi importa» mentii con un’alzata di spalle.
«Sapessi a noi» disse Gav la Palla, impaziente. «Possiamo lasciar perdere quel cavolo di borsello e darci una mossa? Voglio iniziare con l’Orbiter.»
Mickey Metallo e Hoppo erano pronti a partire – di solito facevamo tutto quello che voleva Gav la Palla. Probabilmente perché era il più grosso e quello che faceva più casino.
«Ma Nicky non è ancora arrivata» dissi.
«E allora?» rispose Mickey Metallo. «Lei arriva sempre tardi. Andiamo. Ci troverà.»
Mickey aveva ragione. Nicky era sempre in ritardo. D’altra parte, non erano quelli i patti. Dovevamo rimanere insieme, uniti. Non era sicuro andare al luna park da soli. Soprattutto per una ragazza.
Per alcuni cenni biografici rimandiamo i lettori alla pagina dell’agenzia letteraria che rappresenta C.J. Tudor.