Ogni bambina è una principessa per il suo papà e ogni papà è un eroe per la sua bambina. Ma alcune figlie hanno con il padre un rapporto la cui ambiguità cela segreti e inquietudini le quali, come correnti sotterranee, premono per venire a galla.
Marta è gravemente malata; sa che le resta poco tempo davanti e allora quel tempo che ha lasciato dietro sé lo ripercorre con la memoria, intensamente e dolorosamente. Ella sente l’esigenza di fare i conti con il passato, con la famiglia. E, soprattutto, con suo padre Lapo.
Foschia (Fazi Editore, 2019, pp. 208) è un romanzo forte e crudo in cui Anna Luisa Pignatelli, scrittrice toscana assai apprezzata all’estero, mette a nudo la dinamica complessa del rapporto tra Lapo e Marta, un padre narciso e una figlia affamata d’amore. Un rapporto ricco di sfumature, duro, ambiguo, narrato da Marta in prospettiva autodiegetica. La giovane ha bisogno dell’accettazione del genitore, stimato critico d’arte, che però le sfugge, troppo concentrato sulla carriera, su se stesso e su una vita parallela. E allora Marta lo rincorre, cerca in tutti i modi di piacergli.
L’ambientazione nella campagna senese, che diventa teatro ameno di una vicenda tormentata, ricorda Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi. Nel podere di Lupaia, Marta trascorre un’infanzia segnata dalla morte della madre, Teresa, spirito un po’ gitano, eccentrica e alla ricerca di un rapporto panico con la natura. È allora, ricorda Marta, che il mondo comincia a essere soffuso di foschia. È allora che nasce l’infatuazione per quel padre che è sempre meno presente nella sua vita. Lapo sposa poi Dora, ricca produttrice di vini e collezionista d’arte e porta i figli — Marta ha un fratello, Antonio, figura defilata e remissiva — ad abitare a Torre al Salto, lussuosa dimora della moglie. Man mano che la figlia sente Lapo sfuggirle inesorabilmente, preso com’è dalla nuova famiglia, l’infatuazione infantile diventa passione bruciante, anche perché ella inizia a vivere le pulsioni dell’adolescenza.
“Rimaneva vivo l’attaccamento morboso che avevo sviluppato […] nei confronti di mio padre. […] Un attaccamento che s’era andato trasformando in un desiderio fisico […] come se il mio corpo d’adolescente avesse voluto appartenergli, così come a lui appartenevano i miei pensieri”.
Irrimediabilmente naufragato il loro rapporto, Marta va a studiare negli Stati Uniti, ospite della nonna paterna, donna dai modi freddi e bruschi.
I tre nuclei spaziali segnano altrettante fasi della vita di Marta.
Lupaia, dove la natura è spontanea e autentica e la casa reca l’impronta amorevole della madre, rappresenta il “benedetto e beato tempo” dell’infanzia. Torre al Salto, dove il paesaggio è addomesticato e antropizzato, emana un’aura maligna, dovuta alla presenza ostile di Dora. Forse è proprio quella negatività a risvegliare i demoni che si annidano in chi vi abita e a scatenare passioni insane. Qui Marta sboccia e diventa una giovane donna. L’America rappresenta il futuro della ragazza, la frattura definitiva con il passato e la visione finalmente limpida del mondo.
“Di colpo mi sentii adulta, forte e consapevole: come se lo spesso velo di foschia in cui mi pareva d’essere avvolta avesse lasciato il posto nella mia mente a un’improvvisa schiarita”.
Come Pietro, il protagonista del romanzo di Tozzi, ha vissuto con gli occhi chiusi per non vedere la reale condotta di Ghìsola, così Marta ha vissuto obnubilata da una foschia grazie alla quale poteva illudersi che il padre fosse quale lei avrebbe voluto.
L’arte, collante tra Marta e Lapo, è il banco di prova della progressiva corruzione dell’uomo. Da sincero cultore di ideali di purezza e verità, dell’“arte per l’arte”, egli finisce per tradire se stesso e arriva a forzare le proprie expertises in funzione del profitto.
La prosa di Anna Luisa Pignatelli è scabra e nulla concede al sentimentalismo eppure è densa di pathos; ricca di riferimenti artistici e letterari, essa è elegante anche quando porta alla luce pulsioni inconfessabili. Marta legge Lolita di Nabokov. Chissà se si riconosce in questa giovane ‘scandalosa’… In effetti si ritrova a ripeterne le movenze.
“Se non era possibile avere la sua attenzione, quella legittima di un padre verso la figlia, pensavo di meritare almeno quella che gli avevo letto nello sguardo e che aveva acceso la mia immaginazione, di un uomo sulla via del tramonto per un’adolescente in fiore”.
L’arte — eccola di nuovo — svolge per Marta un ruolo catartico: sublimando nel teatro le forti passioni che hanno ottenebrato la sua giovinezza con la foschia interiore di un groviglio di inquietudini, ella trova finalmente sollievo e pace.
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