Il riassunto della trama di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, uno dei più bei romanzi italiani dal 2000 a oggi, a nostro giudizio. Il libro di Pennacchi è edito in Italia da Mondadori, è lungo 460 pagine ed è stato seguito, di recente, dal volume Canale Mussolini parte seconda.
Canale Mussolini: riassunto della trama del libro
Riassunto della trama di Canale Mussolini: i Peruzzi sono una famiglia di agricoltori che dalla Pianura Padana si trasferiscono nel centro Italia per la bonifica delle Paludi Pontine decisa dal fascismo. Il loro trasferimento è forzato: giunge dopo che l’ampia famiglia perde tutto a causa dei “maledetti” Zorzi Vila. Il grande romanzo di Pennacchi narra dapprima le vicende della famiglia nel nord Italia e le vicissitudini dei tanti personaggi che all’epoca la compongono: i contatti con Rossoni e Mussolini, le proteste, l’avvicinamento al socialismo e poi al fascismo, al quale poi tutta la famiglia resta legata. I personaggi sono tantissimi, dalla testa calda zio Pericle a zio Adelchi, poco desideroso di lavorare nei campi, da zio Iseo a Turati, esponenti di più generazioni di Peruzzi.

Edito da Mondadori nel 2015-10 • Pagine: 460 • Compra su Amazon
Canale Mussolini è l'asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. I suoi argini sono scanditi da eucalypti immensi che assorbono l'acqua e prosciugano i campi, alle sue cascatelle i ragazzini fanno il bagno e aironi bianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce e punteggiata di città appena fondate, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Tra queste migliaia di coloni ci sono i Peruzzi. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle... → CONTINUA SU AMAZON
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Citazioni Canale Mussolini: anteprima del libro di Pennacchi
Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare a venire fino qua?
Ci hanno cacciato, ecco il perché. Con il manico della scopa. Il conte Zorzi Vila. Ci ha spogliato di tutto. Derubati. Le bestie nostre. I vitelli. Le mucche con delle poppe così. Non ha idea del latte che facevamo. Con uno schizzo solo riempivamo un secchio. Non facevamo nemmeno in tempo a sederci sullo sgabello e a massaggiare un po’ la tetta che via, come titillavi il primo capezzolo partiva un getto che lo riempiva. Dovevamo reggerlo forte tra le gambe perché non cadesse.
Cosa fa, ride? non ci crede? Glielo avrei voluto far vedere.
E i buoi? Avevamo certi buoi che tiravano gli aratri a due a due peggio di un caterpillar.
Che fa, ride di nuovo?
Se li portavano in spalla gli aratri quei buoi, sulle corna. Se li mangiavano coi denti. Lei non ha proprio idea, le giuro, noi le rivoltavamo un podere in un giorno, lassù, con una coppia delle bestie nostre. E dalla mattina alla sera il conte Zorzi Vila ce le ha rubate. Se le è fatte sue, le bestie nostre. Nudi come vermi ci ha lasciato. E fu quella volta – quando si portarono via le bestie dopo averci dato lo sfratto – che zio Adelchi corse su in casa e poi in solaio, a prendere sotto la capriata, dietro il mattone smosso, la pistola di zio Pericle. Poi scese come un matto giù nell’aia, strillando e sparando. E il fattore scappava. E tutti scappavano. Ma il fattore saltellando a zompi dietro agli altri, a cercare di nascondersi perché era proprio lui che voleva lo zio Adelchi. «At cópo!» gridava al fattore: «Dove sì ch’at cópo?». E mia nonna – l’unica che non scappasse, oltre alle bestie naturalmente, le bestie che di colpo ferme in mezzo alla corte, già in fila per partire, non capivano più niente poveracce, e ruminavano – mia nonna sola andava incontro al figlio che sparava: «Delchi, tosato, Delchìn».
E zio Adelchi finì i colpi e restò con la pistola in mano e la guardò, la pistola, chiedendole quasi perché. E poi s’abbracciò a sua madre a piangere come da bambino. E mia nonna faceva: «Delchìn, Delchìn», inginocchiati tutti e due in mezzo all’aia a lamentarsi, mentre gli altri gli si rifacevano attorno.
E pure il fattore tornava, mentre il conte Zorzi Vila silenzioso gli faceva con la mano il cenno di stare lontano. Finché non sono arrivati i carabinieri. E così li hanno trovati i carabinieri, in mezzo all’aia inginocchiati e con mio zio piangente. Gli hanno messo le catene e hanno preso a tirarlo e nello stesso istante il conte Zorzi Vila ha ripreso ad urlare con la boria di sempre al suo fattore: «Avanti! Cosa stiamo aspettando?», e lui ha ripreso a tirare le catene delle bestie e sono ripartiti assieme, zio Adelchi coi carabinieri e le bestie nostre con la gente degli Zorzi Vila.
Come dice? Che lei non ce lo vede proprio lo zio Adelchi in preda alla furia che spara come un matto e poi si mette a piangere tra le braccia di sua madre? che lei se lo ricorda alto ed impettito, riverito da tutti nella divisa dei vigili urbani?
Ma questo è venuto dopo, molto dopo, e poi comunque la furia c’è sempre stata nella mia famiglia. Mica che uno va in giro tutto il santo giorno a dire alla gente: «Guardate che ho la furia appresso». Uno se la porta dentro, nascosta bene bene in una piega dell’anima e magari non esce mai fuori. Ma poi salta il giorno in cui meno te lo aspetti e ti pungono sul vivo, nel vivo di quella piega d’anima e la furia esce fuori e prende il sopravvento e tu dopo dici: «Ma che è successo? Io non lo volevo fare. Torniamo indietro di un minuto solo, vi prego, torniamo a tutto com’era prima». E invece niente sarà più come prima e magari ci fosse, quel giorno, tua madre per piangerle addosso.
Comunque zio Adelchi non era quel santo che ricorda lei, quello che, come dice lei, tutti lo andavano a cercare quando c’era una lite per fare da paciere. Altro che paciere, lui ha portato sempre la guerra, almeno in casa sua, che poi era anche la nostra. E fu più per lui che per le bestie, alla fin fine, che noi venimmo qui.
Per le bestie non c’era niente da fare. Mio zio Pericle – prima che arrivasse il giorno del conte e del fattore – era già stato ad informarsi al fascio e ai sindacati, prima a Rovigo e poi a Ferrara, perché a Rovigo non contavano niente. Era Ferrara che comandava e se a Ferrara ti dicevano: «Guarda Peruzzi, non c’è niente da fare, la questione è così e così, è la quota 90, ci vorrebbe solo Rossoni», tu capivi che era persa, perché quelli erano di Balbo, dalla parte degli agrari e se ti dicevano «Vai da Rossoni» – che non si erano mai potuti vedere – era poi per dargli la colpa: «Visto? Non t’ha fatto niente». E poi Rossoni stava a Roma, chi lo trovava più? Mio zio Pericle si metteva ad andare fino a Roma?
E invece quando ha visto il fratello più piccolo – zio Adelchi venticinque o ventisei anni mentre zio Pericle, che era del ’99, ne aveva trentadue di anni e già qualche figlio a carico – quando oltre alle bestie ha visto il fratello trascinato via in catene dai carabinieri e mia nonna che si voltava verso di lui, Pericle, come se solo lui ci potesse mettere rimedio, ed urlava «Pericle, Pericle!», lui avrebbe anche voluto dire: «Eh, Pericle un casso», perché mai si sarebbe aspettato che l’Adelchi potesse dare di matto. Sì, lo aveva visto salire su in casa di corsa, ma non ci aveva fatto neanche caso, perché non lo teneva in gran conto quel fratello – sempre altrove, quando c’era davvero da menare le mani – e lo avrebbe riempito di botte ogni volta che strillava invece con quella voce aguzza addosso alle sorelle. Ma quando lo ha visto risbucare dalla scala, o meglio, dalla porta che dava sulla scala e lasciare anche aperta la zanzariera e strillare e sparare, e un altro po’ inciampare nello scendere dalle scale esterne e sparare come un matto e il fattore che scappava e lui «At cópo, at cópo» a sparare ancora – be’, detta così sembra chissà quanto tempo, e invece è un attimo solo – in quell’attimo a zio Pericle, a vedere il fratello, gli è venuto da ridere: «Varda l’Adelchi». E all’improvviso gli ha voluto bene.
E così quando sua mamma gli ha detto «Pericle, Pericle», lui avrebbe voluto rispondere «Pericle un casso», ma quella ha aggiunto subito: «Va’ fìn Roma, Periclìn», che Periclino non lo aveva mai chiamato neanche da bambino. E allora ha detto: «Va bèn, domàn andémo a Roma», voltandosi come per un dato di fatto, una constatazione più che un ordine, a zio Temistocle, il fratello più grande, che lei però non può ricordarselo, non può averlo conosciuto perché i figli lo riportarono in Altitalia negli anni Sessanta, a Torino. Loro andavano in fabbrica, alla Fiat, e lui li aspettava a casa.
Come dice? quanti eravamo? Una caterva. Diciassette figli aveva fatto mio nonno, otto femmine e nove maschi, e altri diciassette ne aveva fatti suo fratello, otto femmine e nove maschi anche lui. Tutti uniti come un solo braccio all’inizio, una famiglia sola, ma poi ci siamo divisi. Loro sono rimasti là, non sono venuti in Agro Pontino. Ma non ci siamo divisi per questo; non sono venuti perché ci eravamo già divisi e non ci siamo più uniti. È la politica che ci ha diviso.