L’incipit di Anna Karenina di Tolstoj oltre il famosissimo periodo iniziale: ecco un’ampia citazione del primo capitolo del capolavoro dello scrittore russo, nella bella traduzione di Pietro Zvetermich tratta dall’edizione Garzanti dell’opera.
Riportiamo l’incipit di Anna Karenina dello scrittore russo Lev Tolstoj, autore, tra gli altri, di Guerra e pace, Racconti di Sebastopoli e del bellissimo La morte di Ivan Il’ic. Qui potete trovare la scheda di Anna Karenina su Amazon
con la trama e altre informazioni utili.
Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
Tutto era in scompiglio in casa Oblònskij. La moglie aveva saputo che il marito intratteneva una relazione con la governante francese che era stata in casa loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere nella stessa casa con lui. Questa situazione durava già da più di due giorni ed era avvertita in modo doloroso dai coniugi e da tutti i membri della famiglia, nonché dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che la loro convivenza non aveva più senso e che persone riunite dal caso in una locanda qualsiasi erano più legate fra loro che non essi, familiari e domestici degli Oblònskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito non era in casa da più di due giorni. I bambini correvano abbandonati per la casa; la governante inglese aveva litigato con l’economa e scritto un biglietto a un’amica, pregandola di cercarle un nuovo posto; il cuoco se n’era andato già il giorno prima durante il pranzo; la sguattera e il cocchiere si erano licenziati.
Il terzo giorno dopo la lite, il principe Stepàn Arkàdi Oblònskij – Stìva, com’era chiamato in società – si svegliò alla solita ora, e cioè alle otto del mattino, non però nella camera da letto della moglie ma nel suo studio, sul divano di marocchino. Rigirò il corpo pieno e ben curato sulle molle del divano, come se desiderasse addormentarsi di nuovo a lungo, abbracciò forte il cuscino e vi schiacciò sopra la guancia; ma d’un tratto balzò su, si sedette sul divano e aprì gli occhi.
«Già, già, com’era?» pensò, ricordando il sogno. «Sì, com’era? Ah, ecco! Alàbin dava un pranzo a Darmstadt, no, non a Darmstadt, qualcosa d’americano. Sì, ma Darmstadt, là, era in America. Sì, Alàbin dava un pranzo su tavoli di vetro, sì, e i tavoli cantavano: Il mio tesoro,1 anzi nemmeno Il mio tesoro, ma qualcosa di meglio, e c’erano poi certe piccole caraffe, e anch’esse erano donne,» si ricordò.
Gli occhi di Stepàn Arkàdi brillarono gaiamente e, sorridendo, egli si mise a seguire un proprio pensiero. «Sì, era bello, molto bello. C’erano tante altre bellissime cose che non si potevano dire a parole e neppure esprimere da sveglio con pensieri.» E, notata una striscia di luce che trapelava da un lato della tenda di panno, buttò giù gaiamente i piedi dal divano, con essi cercò le pantofole ricamate in marocchino dorato, che gli aveva fatto la moglie (dono per il suo ultimo compleanno), e, secondo una vecchia abitudine che durava da nove anni, allungò il braccio verso il punto dove, nella camera da letto, era appesa la sua vestaglia. E qui a un tratto si ricordò come e perché non aveva dormito nella camera della moglie ma nello studio: il sorriso scomparve dalla sua faccia ed egli corrugò la fronte.
«Ah, ah, ah!…» mugolò, ricordando tutto ciò che era successo. E alla sua immaginazione si presentarono di nuovo tutti i particolari della lite con la moglie, la situazione senza via d’uscita e, più tormentosa di tutto, la propria colpa.
«Sì, lei non perdonerà e non può perdonare. E la cosa più terribile è che la colpa di tutto sono io, sono la colpa ma non sono colpevole. In questo consiste tutto il dramma,» pensò. «Ah, ah, ah!» ripeté ancora con disperazione, ricordando le impressioni per lui più penose di quella lite.
Più spiacevole di tutto era stato il primo momento, quando, di ritorno dal teatro, allegro e contento, con un’enorme pera per la moglie in mano, non aveva trovato la moglie nel salotto; con suo stupore non l’aveva trovata nemmeno nello studio e finalmente l’aveva vista in camera da letto con in mano lo sciagurato bigliettino che aveva fatto scoprire ogni cosa.
Lei, quella Dolly eternamente affaccendata e preoccupata, e non troppo acuta, com’egli la considerava, sedeva immobile con il biglietto in mano e lo guardava con un’espressione di orrore, di disperazione e d’ira.
«E questo cos’è? cos’è?» domandava, mostrando il biglietto.