Ecco il riassunto della trama di La ragazza del treno di Paula Hawkins e un’anteprima dal libro. Il volume della scrittrice britannica nata in Zimbabwe ha conosciuto un’immensa fortuna in Italia come all’estero e, a molti mesi dall’uscita, continua a fare capolino nelle top ten dei libri più venduti nel nostro paese. Vediamo di cosa tratta il romanzo e un’ampia anteprima dal testo.
La ragazza del treno di Paula Hawkins, riassunto della trama
La trama di La ragazza del treno di Paula Hawkins vede protagonista Rachel, una ragazza solitaria, senza amici, che ogni giorno sale sullo stesso treno che la conduce nella periferia londinese dove lavora (o per meglio dire lavorava, dato che i suoi problemi con l’alcol ne causano il licenziamento). Nonostante il viaggio si ripeta identico, è per lei il migliore momento della giornata: incollata al finestrino osserva le abitazioni degli altri, le strade e le persone all’esterno, in particolare una coppia, che trova sempre impegnata a fare colazione in veranda.
Rachel ha inventato dei nomi per i due: Jess e Jason. La sua routine si trova sconvolta la mattina in cui, sulla veranda di sempre, Rachel assiste a qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. La rassicurante fantasia sulla coppia viene stravolta, così come la vita della ragazza. Cosa ha visto Rachel? Quella che lei aveva nominato Jess appare in compagnia di un altro uomo, e poco dopo “Jess” scompare”. Il giorno della sua scomparsa corrisponde a una notte in cui Rachel ha bevuto in maniera smodata e di cui non ha ricordi. La ragazza si sente correlata, in qualche modo, alla mancanza della donna, e comincia così a indagare per conto proprio, fino a far emergere una verità sconcertante.
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La ragazza del treno di Paula Hawkins: un estratto dal libro
Venerdì 5 luglio 2013
Mattina
Vicino alle rotaie c’è un mucchietto di vestiti. Un indumento azzurro, sembra una camicia, arrotolata insieme a qualcosa di bianco. Potrebbero essere stati buttati tra gli alberi lungo il terrapieno dagli ingegneri che lavorano a questo tratto di linea e che passano di qua molto spesso. Ma potrebbe anche trattarsi di qualcos’altro. La mamma mi diceva che avevo un’immaginazione troppo fervida; anche Tom lo pensava. Non posso farci niente: quando vedo degli abiti ridotti a brandelli, una maglietta sporca o una scarpa spaiata, non riesco a non pensare all’altra scarpa e ai piedi che le calzavano.
Il treno sobbalza e si rimette in movimento; riprende la corsa verso Londra. Procede lento, appena più veloce di un corridore in buona forma, ma i vestiti scompaiono alla vista. La persona seduta dietro di me sospira per sfogare un’inutile irritazione: il treno locale delle 8.04 da Ashbury a Euston mette a dura prova anche la pazienza dei pendolari più rassegnati. Il viaggio dovrebbe durare cinquantaquattro minuti, ma non capita quasi mai: è una linea vecchia, decrepita, funestata da problemi di segnaletica e lavori di manutenzione che sembrano non finire mai.
Avanziamo a fatica, superando magazzini, ponti, capannoni, serbatoi dell’acqua e modeste abitazioni in stile vittoriano.
Ho appoggiato la testa al finestrino e vedo sfilare il retro degli edifici, come se fosse il piano sequenza di un film. È una prospettiva unica, ignota persino agli stessi abitanti di quelle case. Due volte al giorno, solo per pochi, fugaci istanti, ho l’opportunità di sbirciare nella vita di quegli sconosciuti. C’è un che di rassicurante nel vederli sani e salvi tra le mura domestiche.
Sento la suoneria di un cellulare: una canzoncina allegra e vivace, del tutto fuori luogo. Il proprietario ci mette un po’ a rispondere, la musica si diffonde tutto intorno. I miei compagni di viaggio si muovono sui sedili, sfogliano il giornale oppure lavorano al computer. Il treno fa una curva, poi rallenta in vista di un semaforo rosso. Cerco di non alzare lo sguardo, concentrandomi sul giornale gratuito che mi hanno dato all’ingresso della stazione, ma le lettere mi sembrano sfocate, non c’è niente che riesca a interessarmi. Continuo a vedere quel mucchietto di vestiti abbandonati lungo i binari.
Sera
Bevo un sorso, e il gin tonic in lattina trabocca. È forte e freddo; mi ricorda la prima vacanza con Tom, nel 2005, in un paesino di pescatori sulla costa dei Paesi Baschi. Ogni mattina nuotavamo per quasi un chilometro, fino all’isoletta che si trovava in mezzo alla baia, poi facevamo l’amore nelle calette più nascoste; il pomeriggio lo trascorrevamo seduti al bar a bere gin tonic che ci stordivano e a guardare i ragazzi che giocavano a pallone sulla spiaggia, durante la bassa marea, divisi in squadre numerose e male organizzate.
Mando giù un sorso, poi un altro; la lattina è quasi vuota, ma va bene così, ne ho altre tre nel sacchetto che ho appoggiato ai miei piedi. È venerdì: non devo sentirmi in colpa se bevo in treno. Finalmente è venerdì! Adesso inizia il divertimento.
Hanno detto che sarà un bel fine settimana: sole splendente, cielo sereno. Un tempo, saremmo andati fino a Corly Wood per un picnic, avremmo letto il giornale e passato il pomeriggio sdraiati su una coperta, a bere vino e goderci il sole tra gli alberi.
Poi avremmo fatto una grigliata con gli amici, o forse saremmo andati al Rose, ci saremmo seduti ai tavolini all’aperto, con la faccia arrossata dal sole e dall’alcol, e saremmo rientrati a passo incerto, tenendoci sottobraccio, per crollare infine sul divano.
Il sole splende, il cielo è terso, ma non ho nessuno con cui uscire e niente da fare. La mia vita, così com’è oggi, diventa più complicata in estate: le giornate sono lunghe e non c’è l’oscurità a proteggermi. Tutti vanno in giro a divertirsi e sono così disgustosamente felici. È frustrante. E tu ti senti a disagio se non riesci a essere come loro.
Il weekend si spalanca davanti a me: quarantotto ore vuote, tutte da riempire. Porto di nuovo la lattina alle labbra: non è rimasta neanche una goccia.
Lunedì 8 luglio 2013
Mattina
È un sollievo essere di nuovo sul treno delle 8.04. A dire il vero, non muoio dalla voglia di arrivare a Londra per iniziare la settimana; anzi, Londra non mi piace per niente. Voglio soltanto affondare nel morbido schienale di velluto, sentire il calore del sole che filtra dal finestrino, cullata dal dondolio del vagone, al ritmo confortante delle ruote che corrono sui binari. Preferisco stare qui, a guardare le case che sfilano una dietro l’altra, più che in qualsiasi altro posto.
C’è un semaforo difettoso sulla linea, a metà del percorso. O per lo meno credo che sia guasto, perché non è mai verde. Ci fermiamo spesso: a volte per pochi secondi, altre per parecchi minuti. Se ho trovato posto nella carrozza D, come capita quasi sempre, e il treno si ferma proprio in quel punto, ho una visuale perfetta della mia casa preferita: quella al civico 15.
È come tutte le altre abitazioni che costeggiano questo tratto della ferrovia: una villetta bifamiliare a due piani, con un piccolo giardino ben curato e lungo pochi metri, fino alla terra di nessuno che lambisce i binari. La conosco alla perfezione: mattoni, il colore delle tende della camera al piano superiore (beige, a motivi blu), la finestra del bagno con la vernice scrostata, le quattro tegole che si sono staccate dal tetto, sul lato destro.
Durante le sere d’estate, gli abitanti della casa, Jason e Jess, escono sulla terrazza che è stata ricavata dall’ampliamento del tetto della cucina. Sono una bella coppia, praticamente perfetta. Lui è moro e robusto, un tipo protettivo, con una bella risata argentina. Lei è minuta, molto graziosa, con la carnagione chiara e i capelli biondi, corti. Ha il viso adatto a quel taglio di capelli: zigomi alti, spruzzati di lentiggini, e la mascella ben definita.
Li cerco con lo sguardo mentre siamo fermi al rosso. Jess è quasi sempre lì, soprattutto in estate; a quest’ora del mattino beve il caffè. A volte ho l’impressione che anche lei mi veda: è come se mi guardasse e sento l’impulso di salutarla, ma sono troppo timida per farlo. Jason invece viaggia molto per lavoro. Anche quando non li vedo, penso a cosa stanno facendo in quel momento. Forse stamattina sono a casa, lei è a letto e lui sta preparando la colazione, oppure sono andati a correre, come fanno spesso. (La domenica anche io e Tom andavamo a correre: io acceleravo oltre il mio limite, mentre lui dimezzava la velocità, così potevamo procedere affiancati.) Forse Jess è salita al piano di sopra, nella camera degli ospiti, e si è messa a dipingere, o magari stanno facendo la doccia, lei appoggiata alle piastrelle e lui dietro, con le mani sui suoi fianchi.
Sera
Mi giro verso il finestrino e tengo la schiena rivolta al vagone, poi apro una bottiglietta di vino bianco comprata da Whistlestop, alla stazione di Euston. Non è freddo, ma va bene lo stesso; ne verso un po’ in un bicchiere di plastica, poi avvito il tappo e infilo la bottiglia nella borsa. Assumere alcolici in treno, di lunedì, è piuttosto disdicevole, a meno che non si beva in compagnia. Ma non è il mio caso.
Ci sono facce familiari, gente che vedo ogni settimana nei miei viaggi di andata e ritorno. Io li riconosco e loro riconoscono me, però non sono certa che mi vedano per quella che sono davvero.
È una serata splendida, calda ma non soffocante; il sole ha iniziato a tramontare, le ombre si allungano e la luce dorata lambisce le chiome degli alberi. Il treno si trascina nella sua corsa, superiamo la casa di Jason e Jess, indistinta nella luce del crepuscolo. A volte riesco a vederli anche se sono seduta da questo lato del vagone. Se non ci sono treni che arrivano in direzione opposta e se la velocità non è troppo sostenuta, li intravedo sulla terrazza. Oggi non ci sono, ma posso immaginarli: lei è seduta con i piedi sul tavolo e un bicchiere di vino in mano, lui è in piedi, dietro di lei, e le appoggia le mani sulle spalle. Sento quasi il tocco delle sue dita, così fermo e rassicurante. A volte provo a ricordare quando è stata l’ultima volta che ho avuto un contatto fisico significativo con un’altra persona, come un abbraccio o una stretta di mano calorosa; quando ci penso, il cuore mi sprofonda nel petto.
Belli rega