Nell’aprile del 2019 esce “Le cose che bruciano”, il quarto romanzo di Michele Serra, giornalista classe 1954, edito da Feltrinelli. Il protagonista è Attilio Campi, un politico di mezza età che ha deciso di ritirarsi dalla scena pubblica per isolarsi in montagna, per conoscersi meglio e per capire alcune questioni della vita.
In questo aspetto ricorda molto il protagonista del primo romanzo di Serra, Antonio Lanteri, giornalista di successo che lascia tutto e torna alla casa dei genitori sui monti perché ha bisogno di staccare la spina e ripulirsi dalla sporcizia di cui si è coperto nel tempo (“è come se dentro di me non ci fosse più posto” così si presenta l’io narrante di “Il ragazzo mucca”, scritto nel 1997) .
Attilio si sente “intorcinato” e “insopportabile”, o tale per lo meno è stato definito dall’autore nell’incontro del 4 aprile 2019 in occasione della presentazione del libro presso la Feltrinelli di Vittorio Emanuele II a Milano.
Un uomo pieno di fissazioni e di manie che emergono continuamente e ostinatamente tra le pagine del libro con ripetizioni incalzanti, come il pensiero maniacale rivolto a certe proposte che aveva fatto in qualità di politico ed anche il richiamo continuo alla figura di un prete, tale Saverio Gavagnin, che il protagonista soprannomina Beppe Carradine.
Questo ex-politico ora si è dato alla vita nei campi e, immerso nella natura, ha stretto amicizie solide con contadini e allevatori della zona. Cerca di liberarsi dai pesi della vita cittadina, ma un ingombro continua a pesargli sulle spalle: mobili e cianfrusaglie ereditate da vari parenti che non sa come gestire e con i quali decide di fare un rogo: da qui il titolo “Le cose che bruciano”. Bruciare le cose del passato per ridurre al minimo gli oggetti che ci circondano e per liberarsi di sensazioni che non si vogliono più provare; una sorta di minimalismo sull’onda di Marie Kondo, restando con poco o comunque solo con lo stretto necessario: semplicemente l’essenziale.
In questo romanzo, come in tutti gli altri di Serra, si sta in un limbo sospeso di attesa per molte pagine, durante le quali si conoscono il protagonista, gli altri personaggi, i luoghi e i tempi, ma l’azione vera e propria arriva solo alla fine: solo nelle ultime pagine infatti si chiude il cerchio e si capiscono tante cose, come se il protagonista stesso riuscisse a tirare le fila dei suoi pensieri solo dopo aver condotto in lettore per un bel po’ all’interno della sua vita e della sua mente ingarbugliata.
E così nelle pagine finali viene spiegato perché “il valore delle cose […] andrebbe sempre rimesso in discussione” e si capisce che basta davvero poco “per darsi una passata di umiltà”.
Un libro da leggere d’un fiato, diviso in 30 brevi capitoli, che rispondono in varia misura a tanti quesiti lasciati sospesi in “Ognuno potrebbe”, pubblicato 4 anni prima, e nei quali si riprendono tematiche e riflessioni già esposte più di 20 anni fa in “Il ragazzo mucca”, ma ora elaborate e affrontate con maggior saggezza.
Un libro che sta dalla parte di chi crede che questa vita moderna e frenetica in qualche modo ci stia un po’ distruggendo. Un libro dedicato alla natura, alle cose semplici e ai rapporti veri e genuini tra persone.
Recensione inviata da Caterina Di Cesare
Edito da Feltrinelli nel 2019 • Pagine: 171 • Compra su Amazon
Attilio Campi è un cinquantenne che si è ritirato a vivere in campagna, e nell’incipit fulminante del romanzo si descrive così: “Dicono che mi sono rovinato con le mie mani”. Alle spalle ha una brillante carriera politica distrutta sul più bello dalla sua stravagante proposta di legge per la reintroduzione dell’uniforme obbligatoria nelle scuole. Bocciata la proposta dal suo stesso partito, Campi, furibondo, sparisce dalla scena pubblica. Noi lo troviamo lì, nella solitudine della campagna di Roccapane, in confidente simbiosi con la natura, a rifare il verso del rigogolo, a occuparsi di legna e di irrigazione e a rimuginare contro i nemici nuovi, come il testimone di Geova che incautamente gli si presenta a casa un mattino, e con quelli vecchi, come il giornalista Ettore Mirabolani, suo antico rivale. Attilio si propone di incontrarlo, chiama a raccolta tutte le forme di ostilità per smontarle, presentarglisi davanti e consumare la pace. Aspira al traguardo dell’umiltà. Non facile, soprattutto per uno come lui. Vorrebbe liberarsi di tutte le some che gli impediscono salvezza e leggerezza, vorrebbe sbarazzarsi della gelosia nei confronti della moglie spesso assente (donna di molti aeroporti), o delle pesanti eredità della madre e della zia Vanda. Pesanti anche in termini di ingombro, casse e casse di libri, lettere, fotografie, per disfarsi delle quali sogna ogni giorno un falò diverso, in un crescendo di fantasie barocche, senza peraltro riuscire mai a realizzarlo. Così come non riesce mai davvero a fare pace, nemmeno nella sua immaginazione, con Ettore Mirabolani, “quello stronzo”. Il cammino verso l’umiltà è fatto di continui inciampi, arresti e salite, ma l’importante non è il traguardo, è il percorso. Male che vada Attilio avrà imparato, alla fine, a fare il verso del rigogolo.
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