Cinquant’anni fa moriva il 28 gennaio del 1972 Dino Buzzati, giornalista, narratore, poeta, pittore. Vogliamo rendergli omaggio tentando di recensire il suo romanzo più famoso anche se gli altri suoi scritti non sono sicuramente ” minori”, il Deserto dei Tartari (1940). Da questo romanzo fu tratto anche un film interpretato da noti attori come Gassman, Noiret, Giuliano Gemma.
Potrebbe sembrare scontato, oramai inutile, scriverne data la vasta critica sull’opera buzzatiana e in particolare sul romanzo più noto, visti anche i tempi in cui viviamo che non sono dei più aperti ad interrogarsi sul senso della vita, su cosa siamo. Lo scrittore con questo romanzo ci ha dato in maniera simbolica, allusiva un quadro della condizione umana basata sul passare inesorabile del tempo, sulla speranza che qualcosa accada, che possa rompere la monotonia del quotidiano e l’attesa. Il Deserto dei Tartari, com’è noto, narra la vicenda del tenente Drogo, il protagonista che a vent’anni pieno di aspettative intraprende la carriera militare e viene assegnato alla fortezza Bastiani, posta ai confini nord di un regno di cui l’autore non dà nessuna collocazione spazio-temporale determinata. Ci si può chiedere il motivo per il quale Buzzati scelse la vita militare in un luogo sperduto, isolato… Ecco la risposta: “L’ambiente militare, quello di una fortezza al confine, mi offriva due grandi vantaggi. Primo quello di esemplificare il tema della speranza e della vita che passa inutilmente perché la disciplina e le regole militari erano più lineari, rigide e inesorabili di quelle di una redazione giornalistica. Pensavo che in un ambiente militare la mia storia avrebbe potuto acquistare una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura”.
Il romanzo ha la sua genesi nel periodo in cui lo scrittore fu assunto a Milano al Corriere della Sera, prima come redattore e poi come inviato speciale e proprio l’attività redazionale con la routine quotidiana aspettando che qualcosa d’importante accadesse, che desse un senso al lavoro mentre il tempo scorreva inesorabile e consumava la vita senza che si presentasse “la grande occasione”, fece maturare la vicenda della fortezza. Non si deve credere che Buzzati limitasse al mestiere di giornalista la consapevolezza della fugacità del tempo che consuma le aspettative di una vita piena, diversa, no: quell’ambiente era la metafora universale presente in ogni genere di lavoro. Egli scrive: “Gli anni passavano e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti così, se le speranze, i sogni di quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no”.
Il romanzo esprime tutta la sua poetica che, come si può notare da alcuni passi citati, è incentrata, come abbiamo detto, sull’attesa che qualcosa d’imprevisto accada, l'”avvenimento sperato” che dia una svolta alla propria vita. Il tenente Drogo consuma i propri giorni, mesi, anni nell’attesa che arrivi il nemico così da riscattare una vita militare monotona, ripetitiva, senza significato. L’epilogo della vicenda quale sarà? Il protagonista dopo aver passato nella fortezza oltre trent’anni, diventato vice comandante, si ammala e il suo superiore gli ordina di andare a curarsi in città. Nell’ultimo capitolo Buzzati scrive: “Andava a morire in una locanda mentre i battaglioni andavano incontro alla gloria”. Qui c’è il punto cruciale che darà al protagonista la vera occasione della vita che non è la sua carriera così come la gloria letteraria dello scrittore. Qual è la vera occasione? È il sentire da parte di Drogo una speranza diversa, quella di aprirsi al mistero che è centrale in tutta la produzione buzzatiana cioè Drogo vede una luce al di là “dell’immenso portale nero”.
In sostanza, in tutti i suoi racconti c’è il mistero che si può presentare in varie modalità nella vita quotidiana e sta a noi saperlo accogliere. Può essere una porta, un ostacolo, un muro al dei quali c’è Qualcuno. Buzzati credente? Si può dire di no se si intende un credente praticante ma di sicuro un uomo alla ricerca, un uomo aperto alla trascendenza, quindi religioso nel senso che si dovrebbe ammettere che la nostra ragione non è sufficiente a dare conto del fondamento ultimo della realtà. Dio si manifesta nei tempi e nei modi che ritiene, all’uomo non resta che aspettare il “varco”, “l’oltre”. Buzzati morì di un tumore al pancreas come il padre. Negli ultimi giorni di vita trascorsi in una clinica, poco prima di spirare, chiamò la suora che lo assisteva e le chiese di portargli il crocefisso. Lo avvicinò e lo baciò.
Recensione inviata da Pasquale Ciaccio
Edito da Mondadori nel 2016 • Pagine: 221 • Compra su Amazon
Giovanni Drogo, un sottotenente, viene mandato in una lontana fortezza. A nord della fortezza c'è il deserto da cui si attende un'invasione dei tartari. Ma l'invasione, sempre annunciata, non avviene e l'addestramento, i turni di guardia, l'organizzazione militare, appaiono cerimoniali senza senso. Quando Drogo torna in città per una promozione, si accorge di aver perso ogni contatto con il mondo e che ormai la sua unica ragione di vita è l'inutile attesa del nemico. Tornato alla fortezza, si ammala e proprio allora accade l'evento tanto aspettato: i tartari avanzano dal deserto. Nell'emozione e nella confusione del momento, senza che lui possa prendere parte ai preparativi di difesa, Drogo muore, dimenticato da tutti.
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