Jonathan Bazzi nel 2016 ha 31 anni, è sieropositivo, a partire dal giorno della diagnosi ci accompagna indietro nel tempo, all’origine di tante storie, nelle periferie tanto simili a certe province dove tanti sono cresciuti, i paesi dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal sud per lavori da poveri, dei delinquenti, dei ragazzini seguiti dagli assistenti sociali, delle case popolari tanto simili ad alveari umani, tra affitti bassi e lingue mescolate.
La periferia di appartenenza di Jonathan è quella di Rozzano (o Rozzangeles) il bronx del sud di Milano, un confine dal quale nessuno esce mai, nessuno studia, si fanno tanti figli, si spaccia, ci si buca e nel peggiore dei casi si muore durante una rapina. Figlio di genitori-ragazzini che si separano presto, cresciuto dai nonni, alla ricerca costante di una spiegazione a tutti gli stereotipi sociali che compongono la vita di un omosessuale, che deve essere per forza elegante, emotivo, ironico e con l’HIV per essere preso sul serio, per accorgersi che esiste anche se non se ne parla, anche se è invisibile e per gli invisibili muore sessualmente, sperimentando il dolore della retorica e del vittimismo, un centro dell’anima che fa paura, creato a dismisura d’uomo.
L’identificazione alla lettura dei primi capitoli è immediata, anche se non si soffre della stessa malattia la trama contiene numerose analogie con le nostre storie personali, la febbre sociale di cui parla Bazzi molti di noi la conoscono bene e c’entra ben poco con un test positivo o negativo, ha più a che fare con l’aria popolare delle provincie dimenticate, dei quartieri in decomposizione dove le radici del male si propagano in bella vista. Poi c’è l’altra febbre, quella che condizionerà la vita dell’autore per tutta la sua esistenza, spettro di una diagnosi che non sembra mai rivelarsi completamente, frammentando una quotidianità fatta da lezioni di yoga, dal fidanzato e dalla madre, le prime diverranno sempre più complicate da portare a termine, i secondi due invece si faranno sempre più apprensivi, costituendo la “rinascita” di una famiglia dilaniata dal divorzio, dall’incomunicabilità perenne tra tre generazioni diverse, che non hanno mai cercato un filo comune tra di loro, una condanna sociale e politica, oltre che intima, di anni dolenti destinati all’omertà implicita.
Raccontando se stesso per gli altri Bazzi stravolge i paradigmi autobiografici, non ci parla di carne morta ma di viva genuinità, di coraggio che si fa portatore di testimonianza cartacea oltre che orale, riscoprire gli affetti, difendere le tradizioni e le superstizioni anche nelle loro fragilità, diverrà quasi una missione. Febbre racconta di dolori, disillusioni e di continui fallimenti, ma anche della speranza di avere la forza necessaria per mostrarsi senza filtri e al riparo da compromessi di qualsiasi natura, scardinando le gabbie sociali che impongono regole composte da ansia e auto-sabotaggi di vario tipo, affrontando relazioni e malattie in modo lucido, quasi brutale, provando a farsi largo strappati alla normalità, ma non alla vita e ai suoi lettori, il vero senso delle nostre storie, e quindi pure di Jonathan.
Recensione inviata da Gianluca Ceccato
Edito da Fandango Libri nel 2019 • Pagine: 328 • Compra su Amazon
Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un'infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all'ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test dell'HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l'autore ci accompagna indietro nel tempo, all'origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano - o Rozzangeles il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla predestinazione della periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.
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