Edito da Tunuè nel 2019 • Pagine: 154 • Compra su Amazon
L’esordio di Andrea Zandomeneghi si fa notare per la grande capacità affabulatoria e per l’originalità della voce e del pensiero.Davide Aloisi è un cefalgico cronico che abita a Capalbio assieme al nipote Giulio e alla madre Eufemia, gravemente malata, in una villa frequentata da bizzarri personaggi locali. Una mattina, dopo una nottata a base di alcol e benzodiazepine trascorsa in canonica con il parroco, sul pianerottolo di casa trova una nutria scorticata. Il rinvenimento gli provoca un'angoscia che si fa pensiero ossessivo quando realizza che ha l'aria di un'intimidazione o di uno sfregio, e che il possibile responsabile potrebbe nascondersi tra chi gli sta intorno - oltre al nipote e alla madre, la badante di lei Dorota, suo figlio Esteban, dedito alla santeria, l'amico ufologo Emanuele, fino allo stesso parroco e a un losco possidente locale: tutti hanno un possibile movente. Sulla base di coincidenze, suggestioni e congetture, Davide opera ricostruzioni che lo portano a dubitare di tutti, nel corso di una giornata sempre più vorticosa, in cui il clima casalingo precipita fino al parossismo.
Il giorno della nutria, pubblicato nella sempre interessante collana di romanzi Tunué, vede come protagonista Davide Aloisi, un cefalgico e colto abitante di Borgo Carige (piccola frazione di Capalbio) che una mattina si ritrova sul pianerottolo di casa un cadavere di nutria scorticato. Il ritrovamento scatena in Davide, che la sera prima si era ubriacato pesantemente, una serie di pensieri ossessivi. Contestualmente a una nuova assunzione di alcol e psicofarmaci, il protagonista cerca di capire chi possa essere il responsabile di quell’atto osceno (la nutria deposta davanti casa), permettendo al lettore di conoscere meglio gli altri personaggi della storia: la madre malata di Davide, Eufemia, il nipote Giulio, il parroco Don Stefano, l’amico Emanuele, la badante Dora, il giovane Esteban.
Il romanzo di Zandomeneghi racconta la vita di uomo dalla mente tormentata, in una giornata particolarmente tormentosa, e al contempo crea l’affresco, ironico e grottesco, di una porzione di provincia italiana. La zona di cui si parla è in particolare quella dell’agro di Capalbio, un “agro dimenticato da Dio ma non dai turisti romani”, come lo definisce il narratore (e nemmeno dai cronisti di “Studio Aperto”, potremmo aggiungere). A presentarci ogni cosa è il protagonista (che coincide con il narratore, e che come narratore non può essere considerato affidabile, almeno non del tutto).
La prosa
Zandomeneghi si dimostra in grado, con la sua particolarissima prosa, di indurre il lettore a riflettere – insieme al protagonista della vicenda, che potremmo definire un pensatore – su temi alti e vari che vanno dalla natura del fatto cristiano alla stilizzazione nel cinema di genere, e al contempo si dimostra in grado di afferrare il lettore con forza, per trascinarlo con sempre maggior veemenza nella rocambolesca e dolorosa giornata di Davide.
La qualità della prosa è uno dei punti di forza del libro; tanto che gli originali costrutti sintattici di Zandomeneghi valgono da soli la lettura. Fermiamoci allora a leggere alcuni passaggi, a partire dall’incipit.
E comunque, quando la sciagurata vicenda principiò, quel martedì mattina di fine aprile, io non ero granché lucido, anzi sarebbe più corretto dire che versavo in un penoso stato di rincoglionimento stordito e dolorante. Correnti poderose di agonia cefalgica e umorale da postsbronza. Anche per questo, soprattutto per questo, credo, fui così turbato dal rinvenimento del cadavere di nutria scorticato che andava oscenamente scongelandosi, infatti era stato inequivocabilmente congelato in precedenza, buttato sulle scale esterne – che non danno direttamente sulla strada, danno sul giardino recintato con muretti bassi sovrastati da gelsomini rampicanti – di casa mia, a Borgo Carige, Capalbio; a metà strada tra le lagune di Orbetello e la foce dell’impianto di raffreddamento della centrale elettrica di Montalto, o, se si preferisce, a metà strada tra l’estuario del Fiora e quello dell’Albegna.
Per poi continuare con una delle invettive di Davide.
La credenza fa mondo e la vostra supposta credenza in Dio di mondo non ne fa. (Pietro Prini con Lo scisma sommerso la vede lunga, e gli va dato atto di questo, ma non la vede tutta: lo scisma è una scissione tra due credenze diverse – lui vedeva che i vostri comportamenti e le vostre idee erano diverse da quelle cattoliche apostoliche romane: voi trombate prima del matrimonio e pensate che non sia peccato: il problema non è trombare prima del matrimonio, o fare peccato, “tutti siam peccatori”, il problema è credere che non sia peccato: non è questione di azioni, è questione di ortodossia – ma voi nel Dio della Chiesa non credete affatto, non credete né in Dio né nella Chiesa, voi vi professate credenti e non lo siete: non c’è scisma, voi siete semplicemente del tutto profani; per altro non vi ricordate che extra ecclesiam nulla salus? E dite “noi siam cristiani e cattolici”. Quanto detto finora è circa il cattolico. Circa il cristiano: le radici cristiane dell’Europa… bleah… ma non capite che voi intendete le radici borghesi dell’Europa invece di quelle cristiane? Non capite che la concezione borghese è la perfetta antitesi di quella cristiana? E poi la famiglia… bleah… ma non lo sapete che la famiglia è di questo mondo, che è il vostro radicamento fondamentale nel regno della mondanità, che è il più grande ostacolo per la via di Cristo? Ma voi non lo ricordate che Cristo è imitazione? Che Cristo è ortoprassia? Ma voi come cazzo lo leggete il fatto cristiano? Ma siete consapevoli della vostra manomissione delle parole?) Fa mondo magari la vostra – perché anche voi ci credete, tutti ci credono – credenza nei diritti umani universali (o fondamentali). Ma ripeto: la fede non è credenza e comunque la vostra fede è come la tariffa di una sim che non usate. La credenza è fatto umano, la fede o è fatto mistico o è fatto nullo. E non azzardatevi a dire che la vostra fede è mistica, perché mistica è quella realtà più reale e realizzante di tutte. La peste alle vostre famiglie. Figliastri bastardi di Cartesio adottati dal mercato: tanto gli atei quanto i credenti. La peste alle vostre famiglie. Ma non tergiversiamo oltre.
E giungere infine alla narrazione di uno dei sogni del protagonista, in cui possiamo vedere la prosa farsi più delirante e sanguigna.
Con enorme fatica, semiparalizzato, riuscii a portarmi la mano destra alla bocca che spalancai, la mano però non c’entrava, me la slogai disperatamente con la morsa delle mascelle e ritentai; così disarticolata riuscii a ficcarmela in gola e ad afferrare con due dita un viluppo di quella laida laniccia di polvere, peli e capelli che mi risaliva su per la trachea, iniziai a tirarlo via tra i conati e percepivo che uscendo fuori si portava dietro l’intera matassa soffocante, questa aveva allignato negli alveoli polmonari e non si staccava. Detti uno strattone, sentii l’interno del petto strapparsi e vomitai sul pavimento l’immondo groviglio intriso di sangue. Poi vomitai ancora e ancora: boli di piume e ossicini di tordo – i bezoar! – e pezzi di polmone neri per il tabagismo, marcescenti, divorati da bigattini, larve di mosca carnina – qualcuna mi si muoveva in bocca, sotto la lingua e mi affrettai a sputarla con sommo disgusto. Solo allora mi accorsi che la stanza era piena di mosche che ronzavano ovunque, per colpa mia: non avevo pulito, tutto era lurido e gli insetti avevano proliferato. Era colpa mia. Solo colpa mia. Si spalancò d’improvviso la porta ed entrò una vecchia, ultracentenaria: era mia madre. Accese la luce. Stava gobba e si trascinava una gamba, ansimando. Nella mano destra – la pelle era solo un fragile velo traslucido, un budello sottilissimo, cosparso di macchie marroni, che conteneva a fatica i gonfi cordoni venosi bluastri – deformata dall’artrite, teneva un corto bastone nodoso, su cui si appoggiava.
Oltre alla capacità di costruire paragrafi molto complessi e sorprendenti (mai boriosi perché densi di significato – da notare che le divagazioni sono anche un buon modo, per l’autore, di caratterizzare il protagonista-narratore) balza all’occhio una rara padronanza del lessico, che spazia dall’aulico allo scatologico immergendosi di continuo nei gerghi specifici (con largo uso di terminologia clinica, giudiziaria, filosofica e teologica). Viene naturale rileggere più volte certi passaggi, il che è sintomatico di quanto sia peculiare e piacevolmente nuova la voce narrante di Zandomeneghi.
L’autore rilegge il suo romanzo
Intreccio, temi e contenuti
L’autore decide saggiamente di incarnare molti temi e diverse dicotomie portanti del romanzo nella figura del protagonista, Davide. L’intreccio è compresso in poche ore e vede un crescendo ossessivo e drammatico che culmina in un finale sostanzialmente negativo. Il già pericolante equilibrio mentale di Davide viene messo a dura prova non solo dall’avvenimento centrale del romanzo (che funge anche da incidente scatenante) ovvero il ritrovamento del cadavere di nutria davanti casa, ma anche da tutti i personaggi che si muovono attorno a Davide: la madre perennemente allettata e malata di Alzheimer, il nipote Giulio, l’amico Emanuele, tutti personaggi, questi, verso i quali Davide nutre sensi di colpa profondi.
Il senso di colpa funge da motore per le riflessioni sul “gesto” (la deposizione della nutria), riflessioni che accompagnano il lettore fino alle ultimissime pagine del romanzo. Pertanto si tratta di un tema centrale: “Da quale mia colpa è scaturita la nutria?” si chiede a più riprese il protagonista. Ma quello della colpa è solo uno dei temi che il lettore si ritrova davanti. Il giorno della nutria è infatti un condensato di temi e dicotomie che dà molto gusto al pensiero.
È interessante notare, per esempio, come il discorso sulla libertà intellettuale ed esistenziale derivante dall’uccisione degli dèi e delle ideologie “instradative” novecentesche si leghi, nel testo, all’attualissima problematica della dipendenza da sostanze stupefacenti. L’uomo ha tirato giù gli dèi e le costrizioni sociali del passato solo per potersi drogare e poter scopare come con chi e quando vuole? Questo chiede, parafrasando, Eufemia a suo figlio Davide. Sono domande che ci riportano all’enorme e mai risolta domanda emersa, a suo tempo, con il nichilismo. Ovvero: cosa viene dopo il nichilismo?
Come abbiamo avuto modo di scrivere nella nostra intervista all’autore, che vi consigliamo di leggere, l’ipercritico e iperriflessivo Davide è al contempo liberissimo (dalle religioni, dalle ideologie, dalle convenzioni sociali) e ingabbiato (dalle sue dipendenze, oltre che dal senso di colpa e da problemi di salute), il che lo rende un personaggio lacerato fin nel profondo.
Altro tema centrale del testo è la malattia (non solo la cefalea e i disturbi ossessivi di Davide, ma anche l’Alzheimer della madre). Quella rappresentata da Zandomeneghi è una malattia che deforma il reale, una malattia infida e “scivolosa”, che talvolta è reale, talvolta è simulata (come nel caso della madre), sempre aggrovigliata ad altro: il senso di rabbia e abbandono della madre, le dipendenze di Davide, i sintomi depressivi di entrambi. Nonostante il filtro grottesco, la malattia messa in scena da Zandomeneghi appare molto realistica: è la malattia dei nostri tempi; è costitutiva per molti di noi ed è perennemente mischiata ai disagi psicologici di chi vive lontano dalla città in un’epoca urbanizzata, di chi è subissato da stimolanti artistici e consumistici nei quali si può anche affogare, di chi non partecipa al competitivismo capitalistico, di chi si strugge (con molta consapevolezza) alla ricerca del senso.
Un dettaglio della copertina
È molto interessante notare, infine, come la ricerca del “colpevole” da parte di Davide, ovvero di chi ha deposto la nutria, si trasformi presto nella ricerca della colpa di Davide che ha indotto qualcuno a lanciargli una nutria morta sulla soglia di casa: è un passaggio importante, poiché conduce rapidamente il lettore da una premessa in stile mistery ai territori nudi e crudi dell’introspezione. Proprio in considerazione di ciò appare adeguata e quasi inevitabile la rivelazione finale, la soluzione del “mistero della nutria”, che – senza essere troppo espliciti – arriva in qualche modo a chiudere un cerchio, dall’Io all’Altro all’Io, dal Dentro al Fuori al Dentro.
In conclusione
Il giorno della nutria è un romanzo intenso, intessuto di idee e scritto con stile personalissimo e affascinante, che segna l’emergere di un nuovo autore d’interesse nel panorama letterario italiano.