Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di 2666 di Roberto Bolano, il grandissimo romanzo dello scrittore cileno edito in Italia da Adelphi con un prezzo di copertina di 24,00 euro (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 11,99.
2666: trama del libro
Le cinque parti che compongono 2666 sono state immaginate da Bolano come libri distinti. Dopo la morte dell’autore, gli eredi hanno deciso di pubblicare le cinque parti in un unico volume. Rispetto alla sequenza della trama, le connessioni tra le parti vengono rinforzate, in particolare, dai luoghi del romanzo, dal tempo (la fine degli anni novanta) in cui tutte le storie vanno a ricongiungersi, e dal personaggio di Benno Von Arcimboldi.
“La parte dei critici” descrive un gruppo di quattro critici letterari europei che hanno fatto carriera attorno alla figura di un elusivo scrittore tedesco, Benno von Arcimboldi. La ricerca di questo autore li porterà nella città messicana di Santa Teresa.
“La parte di Amalfitano” vede protagonista Oscar Amalfitano, un professore di filosofia dell’Università di Santa Teresa, mentalmente instabile, che teme che la figlia cada preda della violenza della città.
“La parte di Fate” racconta del giornalista statunitense Oscar Fate, che scrive per una rivista che si occupa di questioni afro-americane, che viene inviato a Santa Teresa per fare un servizio su un match di boxe di cui ha scarsa conoscenza. Si occuperà invece di omicidi.
La parte dei delitti, cruda e potentissima, racconta la tragedia delle morti seriali nella città messicana di Ciudad Juárez (ovvero “Santa Teresa”). Il giornalista Sergio González Rodríguez esiste davvero, e ha scritto un libro che si intitola Ossa nel deserto. Sui delitti che da anni affliggono la città, la teoria dello scrittore è la stessa del giornalista, e cioè che i vari cartelli di narcos organizzino feste dove il divertimento principale consista nel violentare, torturare e uccidere ragazze povere. L’omertà e l’ignoranza nel romanzo fa sì che, come nella realtà, tutti siano implicati nella tragedia.
“La parte di Arcimboldi” raffigura la vita dello scrittore Benno Von Arcimboldi dall’infanzia negli anni venti fino agli eventi narrati negli altri libri, intorno al 1999.
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A partire da quel giorno (o dalla notte fonda in cui diede per conclusa quella lettura inaugurale) divenne un arcimboldiano entusiasta e diede inizio al suo pellegrinaggio in cerca di altre opere del suddetto autore. Non fu compito facile. Pur essendo a Parigi, trovare dei libri di Benno von Arcimboldi negli anni Ottanta del Novecento non era affatto un’impresa priva di ostacoli. Nella biblioteca del dipartimento di letteratura tedesca della sua università non si trovava quasi nessun riferimento ad Arcimboldi. I suoi professori non ne avevano mai sentito parlare. Uno di loro disse che il nome gli ricordava qualcosa. Dopo dieci minuti Pelletier scoprì con furia (con sgomento) che il professore pensava al pittore italiano, sul quale, peraltro, si mostrò olimpicamente non meno ignorante.
Scrisse alla casa editrice di Amburgo che aveva pubblicato D’Arsonval, ma non ebbe risposta. Perlustrò, inoltre, le poche librerie specializzate che riuscì a trovare a Parigi. Il nome di Arcimboldi compariva in un dizionario enciclopedico di letteratura tedesca e in una rivista belga dedicata, non capì mai se per scherzo o sul serio, alla letteratura prussiana. Nel 1981 fece un viaggio in Baviera insieme a tre amici della facoltà, e lì, in una piccola libreria di Monaco, in Voralmstrasse, trovò altre due opere, l’esile volumetto di cento pagine scarse dal titolo Il tesoro di Mitzi e il già citato romanzo inglese Il giardino.
La lettura di questi due nuovi libri contribuì a rafforzare l’opinione che Pelletier già aveva di Arcimboldi. Nel 1983, a ventidue anni, si assunse il compito di tradurre D’Arsonval. Nessuno gli aveva chiesto di farlo. Non c’era allora alcun editore francese interessato a pubblicare quel tedesco dal nome strano. Pelletier iniziò a tradurlo fondamentalmente perché gli piaceva, perché era felice di farlo; certo, immaginò anche di presentare quella traduzione, preceduta da uno studio dell’opera arcimboldiana, come tesi e, chissà, come prima pietra del suo futuro dottorato.
Terminò la versione definitiva nel 1984 e una casa editrice parigina, dopo alcune letture titubanti e contraddittorie, accettò di pubblicarla. Il romanzo di Arcimboldi, destinato a priori a non vendere più di mille copie, dopo un paio di recensioni contraddittorie, positive, persino eccessive, esaurì le tremila copie della prima tiratura aprendo le porte a una seconda e a una terza e a una quarta edizione.
A quel punto Pelletier aveva già letto quindici libri dell’autore tedesco, ne aveva tradotti altri due ed era considerato, quasi unanimemente, il maggior specialista di Benno von Arcimboldi che ci fosse in tutta quanta la Francia.
Allora Pelletier poté ricordare il giorno in cui aveva letto per la prima volta Arcimboldi e si rivide, giovane e povero, in una chambre de bonne, dove divideva il lavabo, in cui si lavava la faccia e i denti, con altre quindici persone che abitavano l’oscura mansarda, e dove cacava in un bagno orribile e ben poco igienico che non sembrava neppure un bagno ma una latrina o un pozzo nero, anche quello condiviso con gli altri quindici residenti, alcuni dei quali erano ormai tornati in provincia, provvisti del loro titolo universitario, oppure si erano trasferiti in posti un po’ più confortevoli nella stessa Parigi, oppure, in pochi, erano ancora lì a vegetare o a morire lentamente di schifo.
Si rivide, dicevamo, ascetico e chino sui dizionari di tedesco, illuminato da una fioca lampadina, magro e ostinato, come se tutto in lui fosse volontà fatta carne, ossa e muscoli, niente grasso, fanatico e deciso a farcela, insomma un’immagine abbastanza consueta di studente nella capitale, che in lui tuttavia agì come una droga, una droga che lo fece piangere, una droga che aprì, come scriveva un lezioso poeta olandese dell’Ottocento, le dighe della commozione e di qualcosa che a prima vista sembrava autocommiserazione ma non lo era affatto (cos’era allora, rabbia?, è assai probabile), e che lo portò a pensare e a ripensare, non con parole ma con immagini dolenti, al suo periodo di apprendistato giovanile, e dopo una lunga notte forse inutile lo costrinse a trarre due conclusioni. La prima, che la vita così come l’aveva vissuta fino allora era finita; la seconda, che gli si apriva davanti una brillante carriera: per mantenerla tale doveva preservare, unico ricordo di quella mansarda, la sua volontà. Il compito non gli parve difficile.
Jean-Claude Pelletier era nato nel 1961 e nel 1986 era già professore ordinario di letteratura tedesca a Parigi. Piero Morini era nato nel 1956, in un paese vicino a Napoli, e per quanto avesse letto Benno von Arcimboldi nel 1976, cioè quattro anni prima di Pelletier, solo nel 1988 sarebbe arrivato a tradurre il suo primo romanzo dell’autore tedesco, Bifurcaria bifurcata, passato nelle librerie italiane con più infamia che lode.
La situazione di Arcimboldi in Italia, bisogna dirlo, era ben diversa da quella francese. In realtà, Morini non era stato il suo primo traduttore. Anzi, il primo romanzo di Arcimboldi capitato nelle mani di Morini fu La maschera di cuoio nella traduzione di un certo Colosimo per Einaudi, nel 1969. Dopo La maschera di cuoio in Italia erano stati pubblicati Fiumi d’Europa nel 1971, Eredità nel 1973 e La perfezione ferroviaria nel 1975, e in precedenza, nel 1964, era comparsa presso una casa editrice romana un’antologia di racconti, in cui non erano rare le storie di guerra, intitolata I bassifondi di Berlino. Arcimboldi non era dunque un completo sconosciuto in Italia, ma non si poteva affermare che fosse un autore di successo o di relativo successo o di scarso successo, perché non aveva alcun tipo di successo, e i suoi libri invecchiavano sugli scaffali più ammuffiti delle librerie o si svendevano o venivano dimenticati nei magazzini delle case editrici per poi finire al macero.
Morini, naturalmente, non arretrò davanti alle scarse aspettative che l’opera di Arcimboldi pareva suscitare nel pubblico italiano, e dopo aver tradotto Bifurcaria bifurcataconsegnò due articoli a una rivista di Milano e a una di Palermo, il primo sul destino nella Perfezione ferroviaria e il secondo sui molteplici mascheramenti della coscienza e della colpa in Letea, un romanzo apparentemente erotico, e in Bitzius, un romanzetto di cento pagine scarse simile in un certo senso al Tesoro di Mitzi, il libro che Pelletier aveva trovato in una vecchia libreria di Monaco, la cui trama si basava sulla vita di Albert Bitzius, pastore di Lützelflüh, nel cantone di Berna, autore di sermoni oltre che scrittore con lo pseudonimo di Jeremias Gotthelf. Entrambi i saggi erano stati pubblicati e l’eloquenza o la forza di seduzione dispiegata da Morini nel presentare la figura di Arcimboldi abbatterono ogni ostacolo e nel 1991 vide la luce in Italia una sua seconda traduzione, stavolta di San Tommaso. In quel periodo Morini insegnava letteratura tedesca all’Università di Torino, i medici gli avevano diagnosticato una sclerosi multipla e aveva già subìto uno strano e spettacolare incidente che lo aveva condannato per sempre alla sedia a rotelle.
Manuel Espinoza giunse ad Arcimboldi per altre vie. Più giovane di Morini e Pelletier, Espinoza non studiò lingua e letteratura tedesca, almeno durante i primi due anni di università, ma lingua e letteratura spagnola, fra le altre tristi ragioni perché Espinoza sognava di diventare scrittore. Della letteratura tedesca conosceva solo (e male) tre classici: Hölderlin, perché a sedici anni aveva creduto che il suo destino fosse la poesia e aveva divorato tutti i libri di versi che aveva a tiro, Goethe, perché all’ultimo anno di liceo un professore spiritoso gli aveva raccomandato di leggere il Werther, dove avrebbe trovato un’anima gemella, e Schiller, di cui aveva letto un’opera teatrale. Poi avrebbe frequentato i libri di un autore moderno, Jünger, più che altro per simbiosi, perché gli scrittori di Madrid che ammirava e, in fondo, odiava con tutto il cuore non smettevano di parlare di lui. Si può quindi dire che Espinoza conoscesse un solo autore tedesco e quell’autore era Jünger. All’inizio, la sua opera gli era parsa magnifica, e siccome gran parte dei suoi libri erano tradotti in spagnolo, non aveva avuto problemi a trovarli e a leggerli tutti. Espinoza avrebbe preferito che non fosse così facile. Le persone che frequentava, d’altro canto, non solo erano devote a Jünger ma alcune erano anche i suoi traduttori, cosa che non faceva né caldo né freddo a Espinoza, perché il lustro che agognava non era quello del traduttore ma dello scrittore.
Il passare dei mesi e degli anni, che è silenzioso e crudele, portò con sé alcune disgrazie che gli fecero cambiare opinione. Non tardò, per esempio, a scoprire che il gruppo degli jüngeriani non era così jüngeriano come aveva creduto ma, come ogni cerchia letteraria, era soggetto al mutare delle stagioni, e d’autunno, in effetti, erano jüngeriani, ma d’inverno si trasformavano bruscamente in seguaci di Baroja, e in primavera di Ortega, e d’estate abbandonavano addirittura il bar dove si ritrovavano per uscire in strada a intonare versi bucolici in onore di Camilo José Cela, cosa che il giovane Espinoza, in fondo patriota, sarebbe stato pronto ad accettare senza riserve se solo avesse avvertito uno spirito più allegro, più carnascialesco in tali manifestazioni, che non andavano certo prese così sul serio come le prendevano gli jüngeriani spuri.
Fu più brutto scoprire i giudizi del gruppo sulle sue prove narrative, giudizi talmente cattivi che a volte, per esempio durante una notte insonne, giunse a domandarsi seriamente se quella gente non gli stesse chiedendo fra le righe di smettere di infastidirla, di andarsene, di non tornare più.
E fu ancora più brutto quando si presentò a Madrid Jünger in persona e il gruppo degli jüngeriani gli organizzò una visita all’Escorial, strano capriccio del maestro, visitare l’Escorial, e quando Espinoza volle unirsi alla spedizione, a qualunque titolo, tale onore gli fu negato, come se i finti jüngeriani non gli riconoscessero meriti a sufficienza da farlo entrare nella guardia reale dello scrittore o come se temessero che lui, Espinoza, potesse metterli in imbarazzo con qualche uscita da ragazzino astruso, anche se la spiegazione ufficiale (forse dettata da un impulso pietoso) fu che lui non parlava il tedesco mentre lo parlavano tutti quelli che andavano al picnic con Jünger.
Si chiuse così la storia di Espinoza con gli jüngeriani. E così iniziarono la solitudine e la pioggia (o la burrasca) di propositispesso contraddittori o impossibili da realizzare. Non furono notti comode né tanto meno piacevoli, ma Espinoza scoprì due cose che nei primi giorni lo aiutarono molto: non sarebbe mai diventato un narratore ma, a modo suo, era un giovane risoluto.
Scoprì inoltre che era un giovane rancoroso e pieno di risentimento, suppurava risentimento, e non gli sarebbe costato nulla ammazzare qualcuno, chiunque fosse, pur di alleviare la solitudine e la pioggia e il freddo di Madrid, ma preferì lasciare nell’ombra questa scoperta per concentrarsi sul fatto che non sarebbe mai diventato uno scrittore e trarre tutti i vantaggi del mondo dalla risolutezza appena riesumata.
Continuò quindi a frequentare letteratura spagnola all’università, ma si iscrisse anche a lingua e letteratura tedesca. Dormiva dalle quattro alle cinque ore a notte e il resto della giornata lo dedicava a studiare. Prima ancora di finire gli esami di letteratura tedesca scrisse un saggio di venti pagine sul rapporto fra Werther e la musica, che venne pubblicato su una rivista letteraria di Madrid e su una rivista universitaria di Gottinga. A venticinque anni aveva entrambe le lauree. Nel 1990, concluse il dottorato in germanistica con un lavoro su Benno von Arcimboldi che una casa editrice di Barcellona avrebbe pubblicato un anno dopo. A quel punto Espinoza era ormai un habitué di convegni e tavole rotonde sulla letteratura tedesca. La sua padronanza della lingua era, se non eccellente, più che decorosa. Parlava anche inglese e francese. Come Morini e Pelletier, aveva un buon lavoro e considerevoli entrate ed era rispettato (nei limiti del possibile) tanto dai suoi studenti quanto dai suoi colleghi. Non tradusse mai Arcimboldi né nessun altro autore tedesco.
Per la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla nostra guida ai libri di Roberto Bolano.
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