Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’acchiappasogni di Stephen King, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 12,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
L’acchiappasogni: trama del libro
Tempo fa, a Derry, la città del terrore di It e Insomnia, quattro ragazzini coraggiosi compirono una buona azione. Che li trasformò per sempre. Da grandi, Henry, Jonesy, Beav e Pete hanno preso strade diverse, ma due cose hanno mantenuto un richiamo irresistibile: una è il legame con il bambino molto, molto particolare che aiutarono quel giorno lontano e l’altra è la fantastica battuta di caccia al cervo che ogni anno li riunisce nel Maine, là nella baita dove ondeggia quel curioso oggetto indiano chiamato acchiappasogni. Però stavolta li aspetta una brutta avventura: il cielo promette ben peggio di una forte nevicata e nel folto si aggira qualcuno, qualcosa, che amerebbe tanto abitare sulla Terra.
Poco importava. Ciò che contava era che avevano creduto alla prima metà della sigla quando erano un quartetto e a tutta quand’erano in cinque, e poi alla seconda metà quando erano ridiventati quattro.
Fu allora che i tempi divennero più cupi. Le giornate ’fanculo, Freddy si fecero più frequenti. Se ne rendevano conto senza sapere il perché. Sapevano che qualcosa non tornava – o perlomeno che c’era qualcosa di diverso – ma non capivano esattamente che cosa. Sapevano di essere intrappolati, ma non in che modo. E tutto questo molto prima delle luci nel cielo. Prima di McCarthy e Becky Shue.
Smag: talvolta è solo un modo di dire. E talvolta non credi in nulla al di fuori dell’oscurità. E allora come procedi?
1988. PERSINO BEAVER SI SENTE GIÙ
Dire che il matrimonio di Beaver non ha funzionato sarebbe come dire che il lancio del Challenger è andato leggermente storto. Joe «Beaver» Clarendon e Laurie Sue Kenopensky hanno tirato avanti otto mesi, poi, crash, ciao ciao bambina, qualcuno mi aiuti a raccogliere i cocci.
Fondamentalmente, Beav è un cuor contento, come vi direbbero tutti i suoi compari, ma questo per lui è un momento no. Non vede nessuno dei suoi vecchi amici (quelli che lui considera i suoi veri amici) tranne in quella settimana di novembre in cui tutti gli anni si riuniscono, e il novembre scorso lui e Laurie Sue erano ancora insieme. Legati con un filo, d’accordo, ma pur sempre insieme. Adesso passa molto tempo – troppo, lo sa anche lui – nei bar del quartiere del porto vecchio di Portland, il Porthole e il Seaman’s Club e il Free Street Pub. Beve troppo e si fa troppe canne e la mattina non osa guardarsi allo specchio del bagno; i suoi occhi arrossati guizzano via dall’immagine riflessa mentre pensa: Devo piantarla con quei bar. Ben presto avrò anch’io un problema, proprio come Pete. Gesùmatto.
Lascia perdere i bar, lascia perdere i festini, cazzo che idea, poi ci ricasca e alé, sotto! Questo giovedì è al Free Street, al solito con una birra in mano e una canna in tasca, e il juke box diffonde una vecchia cosa tipo quelle dei Ventures. Il titolo di questo brano non riesce a ricordarselo perché era famoso quando lui era ancora troppo giovane. Però il motivo lo conosce; da quando ha divorziato ascolta spesso una stazione radio di Portland che trasmette vecchia musica. Ha un effetto calmante. Molta della roba nuova… Laurie Sue era ferrata in materia e le piacevano molti pezzi, ma a Beaver questa musica non dice niente.
Il Free Street è quasi vuoto: cinque o sei al banco e altrettanti che giocano a bigliardo nella sala interna, Beaver e tre dei suoi compagni abituali seduti a un tavolo a bere Miller alla spina e a tagliare un mazzo di carte bisunte per vedere chi paga ogni giro. Che cos’è questo pezzo strumentale con la chitarra che gorgoglia? Out of Limits? Telstar? No, in Telstar c’è un sintetizzatore, e qui no. E chi se ne frega? Gli altri parlano di Jackson Browne, che ha suonato al Civic Center ieri sera e, a detta di George Pelsen che era presente, ha fatto uno spettacolo fortissimo.
«Vi dico un’altra cosa che era fortissima», dice George, guardandoli con aria solenne. Alza il mento sporgente, mostrando a tutti un segno rosso sul collo. «Sapete cos’è?»
«Un succhiotto?» azzarda Kent Astor.
«Cazzo, sei un genio», dice George. «Aspettavo lì all’ingresso degli artisti, io e un mucchio di altri tizi, sperando di beccarmi l’autografo di Jackson. O magari quello di David Lindley. Niente male, lui.»
Kent e Sean Robideau ne convengono: Lindley non è niente male – non come chitarra (Mark Knopfler dei Dire Straits sì che ci sa fare con la chitarra; e Angus Young degli AC/DC; e, naturalmente, Clapton) ma niente male comunque. Ha un gran tocco; e anche favolose treccine da rasta. Gli arrivano alle spalle.
Beaver non partecipa alla conversazione. Di colpo ha voglia di levarsi dai piedi, di uscire da questo bar sfigato e prendere una boccata d’aria fresca. Sa dove George va a parare con quel discorso, e sono tutte palle.
Il suo nome non era Chantay, non sai nemmeno come si chiamava, ti è schizzata davanti come se neppure ci fossi, e poi che cosa rappresenteresti per una ragazza come lei, saresti solo un ennesimo operaio capellone in una ennesima cittadina operaia del New England, lei si è infilata nel pullman della band ed è uscita dalla tua vita. La tua fottuta e piattissima vita. Chantays è il nome del gruppo che stiamo ascoltando, non i Mar-Kets o i Bar-Kays ma i Chantays, e questa è Pipeline dei Chantays e il segno che hai sul collo non è un succhiotto ma un’irritazione da rasoio.
A questo sta pensando quando sente un pianto. Non nel Free Street ma nella sua mente. Un pianto di tanto tempo fa. Ti entra in testa, penetra come schegge di vetro, e, ’fanculo, Freddy, qualcuno lo faccia smettere.
Sono io quello che l’ha fatto smettere, pensa Beaver. Proprio io. Io che l’ho fatto smettere. L’ho preso tra le braccia e gli ho cantato una canzone.
Intanto, George Pelsen racconta di come la porta si fosse aperta, ma a uscire non era stato Jackson Browne, né David Lindley; erano le tre coriste, una di nome Randi, l’altra Susi e l’altra ancora Chantay. Che gnocche, ragazzi. Così alte e appetitose.
«Accidenti», dice Sean roteando le pupille. È un tipo tarchiatello le cui imprese sessuali consistono in sporadici viaggi esplorativi a Boston, dove sbircia le spogliarelliste del Foxy Lady e le cameriere da Hooters. «Accidenti, proprio Chantay.» Gesticola simulando una sega. Almeno in questo è un professionista, pensa Beav.
«Allora ho cominciato a parlare con quelle… con lei, soprattutto, con Chantay, e le ho chiesto se voleva avere un assaggio della vita notturna di Portland. Allora…»
Beav tira fuori uno stuzzicadenti dalla tasca e se lo infila in bocca, bloccando l’ascolto. Di colpo lo stuzzicadenti è proprio quello che gli occorre. Non la birra davanti a lui, non la canna in tasca, e certamente non gli sproloqui di George Pelsen su come lui e la mitica Chantay si sono infilati nel retro del pickup, che grazie a Dio è coperto da un telone, e quando il Ram di George vedi sobbalzare, non è il caso di bussare.
Tutte fesserie, pensa Beaver, e di colpo si sente orrendamente depresso, come non si era più sentito da quando Laurie Sue aveva raccattato le sue cose per tornare dalla madre. Non è per niente da lui, e all’improvviso la sola cosa che desidera è togliersi dalle palle, riempirsi i polmoni con l’aria fresca e salmastra, e trovare un telefono. Vuole chiamare Jonesy o Henry, l’uno o l’altro è lo stesso; vuol poter dire: Ehi amico, come va, e sentire uno dei due rispondergli: Be’, sai Beav, Smag. Niente lanci, niente partite.
Si alza.
«Ehi, amico», dice George. Beaver ha frequentato il Westbrook Junior College con lui, e all’epoca sembrava un tipo tosto, ma quei due anni di college sono successi molte birre fa. «Dove vai?»
«A pisciare», risponde Beaver spostando lo stuzzicadenti da un angolo all’altro della bocca.
«Be’, fai bene a darti una mossa perché sto arrivando al pezzo forte», dice George, e Beaver pensa: Mutandine aperte sul davanti. Cavolo, oggi quella strana vecchia sensazione è forte, forse è la pressione atmosferica o qualcosa del genere.
Abbassando la voce, George racconta: «Quando le ho alzato la gonna…»
«Lo so: aveva le mutandine aperte sul davanti», dice Beaver. Coglie l’espressione sorpresa – quasi scioccata – di George, ma non ci bada. «Quella parte non me la voglio certo perdere.»
Si dirige verso la toilette degli uomini con il suo tanfo giallo-rosa di piscio e di disinfettante, procede oltre, supera la toilette delle donne, la porta con la scritta UFFICIO, e fugge nella stradina sul retro. Il cielo è biancastro e piovoso, ma l’aria è buona. Tanto buona. Inspira a fondo e pensa: Niente lanci, niente partite. Ridacchia.
Cammina per dieci minuti mordicchiando lo stuzzicadenti e cercando di schiarirsi le idee. A un certo punto, e non ha ben presente quando, butta via lo spinello che aveva in tasca. Poi, dal telefono pubblico del Joe Smoke Shop in Monument Square, chiama Henry. È quasi sicuro di trovare la segreteria telefonica – va ancora all’università – ma Henry è in casa e risponde al secondo squillo.
«Come va, amico?» chiede Beaver.
«Be’, sai», dice Henry. «Stessa merda, altro giorno. E tu?»
Beav chiude gli occhi. Per un istante tutto torna a posto; perlomeno a posto per quanto possano essere a posto le cose in questo triste mondo di merda.
«Più o meno lo stesso», risponde. «Più o meno lo stesso.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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