Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Acciaio di Silvia Avallone, romanzo edito in Italia da Rizzoli con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 4,99.
Acciaio: trama del libro
Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d’uscita. Poi un giorno arriva l’amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l’amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. Silvia Avallone racconta un’Italia in cerca d’identità e di voce, apre uno squarcio su un’inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più.
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Uno spicchio di pelle zoomata in controluce.
Quel corpo da un anno all’altro era cambiato, piano, sotto i vestiti. E adesso nel binocolo, nell’estate, esplodeva.
L’occhio da lontano brucava i particolari: il laccio del costume, del pezzo di sotto, un filamento di alghe sul fianco. I muscoli tesi sopra il ginocchio, la curva del polpaccio, la caviglia sporca di sabbia. L’occhio ingrandiva e arrossiva a forza di scavare nella lente.
Il corpo adolescente balzò fuori dal campo e si gettò in acqua.
Un istante dopo, riposizionato l’obiettivo, calibrato il fuoco, ricomparve munito di una splendida chioma bionda. E una risata così violenta che anche da quella distanza, anche soltanto guardandola, ti scuoteva. Sembrava di entrarci davvero, tra i denti bianchi. E le fossette sulle guance, e la fossa tra le scapole, e quella dell’ombelico, e tutto il resto.
Lei giocava come una della sua età, non sospettava di essere osservata. Spalancava la bocca. Cosa starà dicendo? E a chi? Si iniettava dentro un’onda, riemergeva dall’acqua con il triangolo del reggiseno in disordine. Una puntura di zanzara sulla spalla. La pupilla dell’uomo si restringeva, si dilatava come sotto l’effetto di stupefacenti.
Enrico guardava sua figlia, era più forte di lui. Spiava Francesca dal balcone, dopo pranzo, quando non era di turno alla Lucchini. La seguiva, se la studiava attraverso le lenti del binocolo da pesca. Francesca sgambettava sul bagnasciuga con la sua amica Anna, si rincorrevano, si toccavano, si tiravano i capelli, e lui lassù, fisso con il sigaro in mano, sudava. Lui gigantesco, con la canotta fradicia, l’occhio sbarrato, impegnato nella calura pazzesca.
La controllava, così almeno diceva, da quando aveva cominciato ad andare al mare con certi ragazzi più grandi, certi elementi che gli ispiravano nessuna fiducia. Che fumavano, che di sicuro si facevano anche le canne. E quando lo diceva alla moglie, di quegli sbandati che frequentava sua figlia, gridava come un ossesso. Si fanno le canne, si fanno di coca, spacciano le pasticche, quelli là si vogliono scopare mia figlia! Quest’ultima cosa non la diceva esplicitamente. Tirava un pugno sul tavolo o nel muro.
Ma forse aveva preso l’abitudine di spiare Francesca da prima: da quando il corpo della sua bambina si era 1
Nel cerchio sfocato della lente la figura si muoveva appena, senza testa.
Uno spicchio di pelle zoomata in controluce.
Quel corpo da un anno all’altro era cambiato, piano, sotto i vestiti. E adesso nel binocolo, nell’estate, esplodeva.
L’occhio da lontano brucava i particolari: il laccio del costume, del pezzo di sotto, un filamento di alghe sul fianco. I muscoli tesi sopra il ginocchio, la curva del polpaccio, la caviglia sporca di sabbia. L’occhio ingrandiva e arrossiva a forza di scavare nella lente.
Il corpo adolescente balzò fuori dal campo e si gettò in acqua.
Un istante dopo, riposizionato l’obiettivo, calibrato il fuoco, ricomparve munito di una splendida chioma bionda. E una risata così violenta che anche da quella distanza, anche soltanto guardandola, ti scuoteva. Sembrava di entrarci davvero, tra i denti bianchi. E le fossette sulle guance, e la fossa tra le scapole, e quella dell’ombelico, e tutto il resto.
Lei giocava come una della sua età, non sospettava di essere osservata. Spalancava la bocca. Cosa starà dicendo? E a chi? Si iniettava dentro un’onda, riemergeva dall’acqua con il triangolo del reggiseno in disordine. Una puntura di zanzara sulla spalla. La pupilla dell’uomo si restringeva, si dilatava come sotto l’effetto di stupefacenti.
Enrico guardava sua figlia, era più forte di lui. Spiava Francesca dal balcone, dopo pranzo, quando non era di turno alla Lucchini. La seguiva, se la studiava attraverso le lenti del binocolo da pesca. Francesca sgambettava sul bagnasciuga con la sua amica Anna, si rincorrevano, si toccavano, si tiravano i capelli, e lui lassù, fisso con il sigaro in mano, sudava. Lui gigantesco, con la canotta fradicia, l’occhio sbarrato, impegnato nella calura pazzesca.
La controllava, così almeno diceva, da quando aveva cominciato ad andare al mare con certi ragazzi più grandi, certi elementi che gli ispiravano nessuna fiducia. Che fumavano, che di sicuro si facevano anche le canne. E quando lo diceva alla moglie, di quegli sbandati che frequentava sua figlia, gridava come un ossesso. Si fanno le canne, si fanno di coca, spacciano le pasticche, quelli là si vogliono scopare mia figlia! Quest’ultima cosa non la diceva esplicitamente. Tirava un pugno sul tavolo o nel muro.
Ma forse aveva preso l’abitudine di spiare Francesca da prima: da quando il corpo della sua bambina si era come desquamato e aveva assunto gradualmente una pelle e un odore preciso, nuovo, forse, primitivo. Aveva, la piccola Francesca, cacciato fuori un culo e un paio di tette irriverenti. Le ossa del bacino si erano arcuate, formando uno scivolo tra il busto e l’addome. E lui era il padre.
In quel momento osservava sua figlia dimenarsi dentro il binocolo, slanciarsi con tutta se stessa in avanti per acchiappare una palla. I capelli zuppi aderivano alla schiena e ai fianchi, alla distesa della pelle intarsiata di sale.
Gli adolescenti giocavano a pallavolo in cerchio, intorno a lei. Francesca slanciata e in movimento, in un unico clamore di grida e schizzi dove l’acqua era bassa. Ma Enrico non si occupava del gioco. Enrico stava pensando al costume di sua figlia: Cristo, si vede tutto. Costumi del genere andrebbero proibiti. E se solo uno di quei bastardi fottuti si azzarda a toccarla, scendo in spiaggia con un randello.
«Ma cosa fai?»
Enrico si voltò verso la moglie che lo stava osservando in piedi, al centro della cucina, con un’espressione avvilita. Perché Rosa avviliva, rinsecchiva, a vedere suo marito alle tre del pomeriggio con il binocolo in mano.
«Controllo mia figlia, se permetti.»
Sostenere gli occhi di quella donna a volte non era facile neppure per lui. C’era un’accusa costante, conficcata dentro le pupille di sua moglie.
Enrico increspò la fronte, deglutì: «Mi sembra il minimo…».
«Sei ridicolo» sibilò lei.
Lui guardò Rosa come si guarda una cosa fastidiosa, che fa imbestialire e basta.
«Ti sembra ridicolo tenere d’occhio mia figlia, coi tempi che corrono? Non lo vedi con che gente va al mare? Chi sono quei tipi là, eh?»
A quell’uomo, quando dava in escandescenze – e succedeva molto spesso – gli si congestionava la faccia, si gonfiavano le vene del collo in un modo che faceva paura.
Quando aveva vent’anni, prima che si lasciasse crescere la barba e mettesse su tutti quei chili, non ce l’aveva la rabbia. Era un bel ragazzo appena assunto alla Lucchini, che fin da bambino si era scolpito i muscoli a forza di zappare la terra. Si era fatto un gigante nei campi di pomodori, e poi spalando carbon coke. Un uomo qualunque, emigrato dalla campagna in città con uno zaino in spalla.
«Non ti rendi conto di quello che combina, alla sua età… E come cazzo va in giro conciata!»
Poi, negli anni, era cambiato. Giorno dopo giorno, senza che nessuno se ne accorgesse. Quel gigante che non aveva mai varcato i confini della Val di Cornia, che non aveva mai visto nessun altro straccio d’Italia, si era come congelato dentro.
«Rispondi! Lo vedi come cazzo va in giro tua figlia?»
Rosa si limitò a stringere più forte lo strofinaccio con cui aveva appena asciugato i piatti. Rosa aveva trentatré anni, le mani piene di calli, e dal giorno del suo matrimonio si era lasciata andare. La sua bellezza di ragazza meridionale era finita in mezzo ai detersivi, nel perimetro di quel pavimento lavato tutti i giorni da dieci anni.
Il suo silenzio era duro. Uno di quei silenzi fermi, d’attacco.
«Chi sono quei ragazzi, eh? Li conosci?»
«Sono dei bravi ragazzi…»
«Ah, allora li conosci! E perché non mi dici niente? Perché in questa casa non mi si dice mai niente, eh? Francesca con te parla, vero? Sì, con te sta ore e ore a parlare…»
Rosa gettò lo strofinaccio sul tavolo.
«Chiediti il motivo» soffiò, «perché con te non parla.»
Ma lui non la stava già più a sentire.
«A me non viene detto niente! A me non mi si dice mai niente, maremma cane!»
Rosa si chinò sulla bacinella con l’acqua sporca. Alcune sue coetanee, d’estate, andavano ancora in discoteca. Lei non ci era mai stata.
«E cosa sono, io? Scemo? Ti sembro scemo? Che va in giro come una puttana! E tu come la cresci, eh? Brava! Ma io un giorno o l’altro…»
Sollevò la bacinella e la vuotò nell’acquaio del balcone, gli occhi fissi sui grumi neri nel vortice dello scarico. Avrebbe voluto vederlo morire, stramazzare al suolo agonizzante.
«Vi mando in culo io, a te e a lei! Lavoro per cosa? Per te? Per quella puttana?»
E passargli sopra con l’auto, triturarlo sull’asfalto, ridurlo a una poltiglia, al verme che era.
Anche Francesca avrebbe capito. Ammazzarlo. Se non lo avessi amato, se mi fossi cercata un lavoro, se dieci anni fa fossi uscita di qui.
Enrico le voltò le spalle e protese il corpo gigantesco dalla balaustra, nel sole che alle tre del pomeriggio pesa come l’acciaio e calpesta tutto. La spiaggia, dall’altra parte della strada, si affollava di ombrelloni e di grida. Un carnaio, pensò. E riaccese il mozzicone di toscano che teneva fra le dita. Dita tozze, rosse e callose. Le dita di un operaio che non usa i guanti, neppure quando deve misurare la temperatura della ghisa.
Da una parte c’era il mare, invaso di adolescenti in quell’ora bestiale. Dall’altra il muso piatto dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. I motorini allineati sui marciapiedi erano parcheggiati di traverso, ciascuno con il suo adesivo, con la sua scritta di Uniposca: “France ti amo”.
Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro. Non c’era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria.
Un balcone più sopra, al quarto piano, un altro uomo si sporgeva dalla ringhiera arrugginita e guardava verso la spiaggia.
Lui ed Enrico erano le sole figure umane affacciate.
Il sole tramortiva. E l’intonaco se ne cadeva a pezzi.
L’ometto, a torso nudo, aveva chiuso in quel momento lo sportellino del cellulare. Un nano, in confronto al gigante con il binocolo del terzo piano. Durante l’intera telefonata aveva gridato: non perché fosse arrabbiato, ma perché quello era il suo tono di voce. Aveva parlato di soldi, di cifre astronomiche, e non aveva distolto un attimo gli occhietti vispi dalla spiaggia, cercando qualcosa che da quella distanza, senza occhiali, non poteva trovare.
«Un giorno di questi ci vado anch’io al mare. E chi me lo vieta? Dopotutto sono stato licenziato» ridacchiò fra sé e sé, a voce alta.
Dall’interno della casa si sentì un urlo.
«Cosaaa?»
«Niente!» rispose lui, dopo essersi ricordato di avere una moglie.
Sandra comparve sul terrazzino con il mocio grondante di ammoniaca.
«Artù!» gridò brandendo il mocio. «Cos’è, sei impazzito?»
«Ma scherzavo!» fece un gesto con la mano.
«Ti sembrano scherzi da fare? In questo momento, che dobbiamo pagare la lavastoviglie, le rate dell’autoradio di tuo figlio… Un milione e passa per un’autoradio!, dico io, e questo si mette anche a far battute…»
Non era una battuta. Si era fatto sgamare sul serio alla Lucchini a rubare taniche di gasolio.
«Spostati, vai. Che devo passare il cencio.»
Da quando era stato assunto, Arturo fotteva il gasolio al signor Lucchini, così, tanto per fare il pieno e rivenderne un po’ ai contadini. Non se n’era mai accorto nessuno, per tre anni. E adesso, porca puttana…
«T’ho detto spostati, che ’sto pavimento fa pena.»
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Silvia Avallone.
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