Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Acqua buia di Joe R. Lansdale, romanzo edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
Acqua buia: trama del libro
Sue Ellen ha sempre saputo che May Lynn sognava di diventare una star del cinema. Quando la ritrova annegata nel fiume Sabine, con i piedi legati a una macchina da cucire, decide con i suoi amici Terry e Jinx di bruciare il corpo e portare le ceneri fino a Hollywood. Un sogno forse irrealizzabile, ma che diventa realtà quando Sue Ellen e i suoi amici – un ragazzo bianco che tutti sospettano di omosessualità e una ragazza nera dalla lingua troppo lunga – scoprono nel diario di May Lynn una mappa che li porta a dissotterrare un bel po’ di soldi, piú che sufficienti a pagarsi il viaggio fino alla Mecca del cinema, ma anche ad attirare le attenzioni di parecchia gente. Comincia cosí per i tre ragazzi una fuga a rotta di collo nel Texas degli anni Trenta, cosí caro a Joe Lansdale. Mentre sulle loro tracce, accanto a parenti avidi e tutori della legge corrotti, si staglia l’ombra di Skunk, un assassino spietato che vive nei boschi e taglia le mani alle sue vittime, avvolto nella leggenda eppure pericolosamente reale.
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Il telefono invece funzionava, anche se non bene come la dinamite; ma a lui non piaceva starsene lí a girare la manovella per dare corrente al filo elettrico che, messo in acqua, folgorava i pesci. Aveva paura, diceva, che uno dei ragazzini di colore che vivevano poco lontano si stesse facendo una nuotata e si beccasse cosí una scarica, il che poteva ridurlo come un ceppo di cipresso o, nel migliore dei casi, scombinargli il cervello facendolo diventare ritardato come suo cugino Ronnie, che non era in grado neanche di ripararsi dalla pioggia a meno che qualcuno non glielo dicesse, e a restare sotto una grandinata non ci metteva niente.
Mia nonna, quella vecchiaccia malefica che per fortuna è morta, sosteneva che papà avesse quella che lei chiamava la «Vista», che possedesse delle doti soprannaturali tali da fargli vedere nel futuro, o qualcosa del genere. Per come la vedo io, fosse stato vero, ci avrebbe pensato due volte prima di maneggiare la dinamite da sbronzo e rimetterci due dita.
E poi non l’avevo mai visto mostrare tutta questa simpatia per la gente di colore, quindi alla sua scusa per non girare la manovella del telefono non avevo mai abboccato. La mia amica Jinx Smith, che per l’appunto è di colore, non gli era mai piaciuta, e papà non perdeva occasione per puntualizzare che noi eravamo meglio di lei e della sua famiglia, anche se casa loro era piccola ma pulita mentre la nostra era grande e lurida, con una veranda tutta storta, il comignolo puntellato da un lato con un pezzo di legno e un paio di maiali che scavavano buche in giardino. Per quanto riguarda suo cugino Ronnie, secondo me a papà non glien’era mai fregato un accidente, visto che spesso e volentieri lo prendeva in giro e gli faceva il verso fingendo di sbattere contro i muri e sbavare qua e là. Peraltro, quando papà era sbronzo fin sopra gli occhi, la sua imitazione si trasformava in una certa rassomiglianza.
Comunque non escludo che, il futuro, papà potesse vederlo davvero; solo che era troppo stupido per poterne cavare qualcosa.
Insomma, papà aveva una decina di sacchi di iuta che lui e zio Gene avevano riempito di noci acerbe e di qualche sasso per appesantire il tutto, e insieme li gettavano in acqua legati a delle corde, a loro volta fissate alle radici e agli alberi sulla sponda.
Io e il mio amico Terry Thomas eravamo scesi a dare un’occhiata e anche una mano, visto che non avevamo di meglio da fare. Dapprincipio Terry, quando gli avevo detto cosa mi passava per la testa, il motivo per cui stavamo andando laggiú e che mi serviva il suo aiuto, non voleva saperne ma alla fine si era arreso ed era venuto ad aiutarmi a buttare giú i sacchi e a tirare su i pesci. Tuttavia la situazione lo innervosiva parecchio, perché mio zio e mio padre non gli stavano per niente simpatici. Neanche a me, a dirla tutta, ma mi piaceva passare il tempo all’aria aperta e fare cose da uomini, anche se forse sarei stata piú contenta con una canna da pesca tra le mani invece di un sacco di noci velenose. Comunque era sempre meglio starmene sulla riva del fiume che in casa a passare lo straccio per terra.
La mia nonna paterna diceva sempre che non mi comportavo affatto come una ragazza, che sarei dovuta rimanere a casa a imparare come si manda avanti un orto, a sbucciare piselli e sbrigare le faccende.
«Sue Ellen, ma come credi di trovartelo un marito, se non sai cucinare né pulire e non tieni mai i capelli legati?» mi diceva sporgendosi in avanti dalla sedia a dondolo e guardandomi con occhi appiccicosi e senza un briciolo d’affetto.
Ovviamente non la stava raccontando giusta. I lavori da donne li avevo sempre fatti, solo che non ero tanto brava. E, se vi è capitato di farli, sapete benissimo che sono una noia mortale. A me piacevano le cose da ragazzi e da uomini. Quelle che faceva mio padre e che comunque, a guardarle bene, mica erano chissà che: pescare, mettere trappole per poi vendere le pelli, sparare agli scoiattoli sugli alberi e vantarsene neanche avesse ammazzato una tigre. Le sue spacconate saltavano quasi tutte fuori quando era ubriaco fradicio. Una volta avevo provato anch’io, a bere, ma non mi era piaciuto. Lo stesso vale per masticare tabacco, fumare sigarette e mangiare tutto quello che ha dentro della lattuga.
Per quanto riguarda la storia dei capelli legati, in realtà mia nonna si riferiva a certe questioni religiose, ma io non riuscivo proprio a convincermi che Dio, con tutte le grane che doveva avere per la testa, potesse perdere tempo con le acconciature.
In questo giorno di cui vi sto raccontando, papà e zio Gene bevevano e gettavano i sacchi nell’acqua che al contatto con le noci diventava subito marrone scuro. Dopo qualche tempo com’era prevedibile, iniziarono a venire a galla un bel po’ di persici e breme, tutti quanti a pancia all’aria.
Io e Terry restammo sulla sponda a guardare papà e zio Gene che salivano sulla barca a remi e si staccavano dalla riva per andare a raccogliere i pesci con le reti, neanche fossero noci di pecan cadute da un albero. Da quanti erano, avevo già capito che mi sarebbe toccato pesce fritto per cena e non solo quella sera, ma anche la successiva; poi saremmo passati al pesce essiccato, ovvero un’altra cosa che mi sono scordata di mettere nell’elenco delle cose che mi fanno schifo. Secondo Jinx il pesce essiccato sa di mutande sporche, e non sarò certo io a sollevare obiezioni. Fosse affumicato andrebbe pure bene, ma con quello essiccato sembra proprio di masticare la tetta di una cagna morta.
Non che le noci li facessero morire avvelenati, i pesci; li stordivano quel tanto che bastava a farli venire a galla, pance bianche bene in vista e branchie in azione. Papà e Gene li raccoglievano con delle reticelle attaccate a dei bastoni per poi ficcarli in un sacco bagnato, pronti a essere sventrati e puliti.
I sacchi erano fissati alla riva con delle corde, e io e Terry scendemmo fin giú per iniziare a recuperarli. Le noci erano ancora abbastanza verdi da poter essere usate piú a valle per stordire altri pesci, quindi ci toccava conservarle. Afferrammo una corda e cominciammo a tirare, ma il sacco era davvero pesante e non ci riuscimmo.
– Non mollate, arriviamo, – gridò papà dalla barca.
– Secondo me questo dobbiamo tagliarlo, – mi disse Terry. – È inutile farci venire un’ernia.
– Non intendo mollare tanto facilmente, – dissi io, e alzai gli occhi per vedere cosa stava succedendo alla barca. Aveva un buco sul fondo, e papà e zio Gene non potevano starci ancora per molto. Lo zio era costretto a svuotarla con un barattolo da caffè mentre papà remava fino a riva. Dopo che l’ebbero tirata fuori dall’acqua, vennero a darci una mano.
– Maledizione, – fece papà. – O quelle noci pesano quanto una Ford oppure mi sto infiacchendo.
– Certo che ti stai infiacchendo, – rispose zio Gene. – Non sei piú quello di una volta. Mica sei forte come me, l’esempio vivente del maschio verace.
Papà gli rivolse una smorfia. – Ma se sei piú vecchio.
– Già, – disse lo zio, – però mi sono mantenuto bene.
– Come no! – ululò mio padre.
Zio Gene era grasso come un maiale, ma senza averne il temperamento. Era un omone, alto, spalle larghe e braccia che parevano il collo di un cavallo. Neanche sembravano parenti, lui e papà. Mio padre era un povero cristo tutto pelle e ossa con la pancia in fuori, e se mai fosse capitato di vederlo senza berretto, voleva dire che gli era marcito sulla testa. Tra lui e lo zio contavano forse diciotto denti, e la maggior parte erano in bocca di papà. Secondo mia madre il motivo era che non se li lavavano abbastanza e che masticavano troppo tabacco. Certe volte, quando guardavo quelle guance incavate, mi veniva in mente una vecchia zucca lasciata a marcire in un campo. Lo so, non è una bella cosa essere stomacati dai propri parenti, ma la situazione era questa, poche chiacchiere.
Ci mettemmo tutti a tirare la corda e alla fine, proprio quando ero sicura che stessero per uscirmi le budella, il sacco venne a riva. Il fatto è che non c’era solo quello. Impigliato, c’era qualcosa di gonfio e bianco da cui ciondolavano lunghi ciuffi di erba bagnata.
– Fermi un attimo, – disse papà, e continuò a tirare.
Poi mi resi conto che non era erba, ma capelli. E sotto quei capelli una faccia grossa e tonda come la luna, bianca come un lenzuolo e gonfia come un cuscino di piume. Fu solo quando vidi il vestito che capii di chi si trattava. Era l’unico vestito che avevo mai visto indosso a May Lynn Baxter. Un vestito a fiori blu, cosí stinto che a malapena si distingueva il colore originale dei fiori, e che le era diventato sempre piú corto via via che cresceva.
L’unica volta che ricordavo di averla vista senza quel vestito era stata quando, una sera, io e lei assieme a Terry e Jinx eravamo sgattaiolati fuori di casa per andare a fare un tuffo nella buca. Allora, al chiaro di luna, mi era sembrata proprio carina, senza niente addosso, ben fatta e con i capelli biondissimi lunghi fino alla vita, e quel vestito appeso a un ramo vicino al fiume. Si muoveva come al ritmo di una musica che solo lei riusciva a sentire. Capii allora che sarebbe diventata il tipo di ragazza che gli scapoli si voltano a guardare, tirando un gran sospiro, mentre gli uomini sposati vorrebbero che la loro moglie prendesse fuoco all’istante. Il punto è che lo era già, quel tipo di ragazza.
Terry non l’aveva degnata neanche di uno sguardo, probabilmente perché è una checca. Gira questa voce, in parte grazie a un ragazzino che abita a valle del fiume e che un’estate era venuto a trovare dei parenti. Se sia vero non lo so, comunque non me ne frega niente. Terry lo conosco da quando eravamo piccoli, e quel che ho potuto vedere io dell’amore tra un uomo e una donna ha piú che altro a che fare con papà che se ne va in giro senza combinare niente, a parte sbronzarsi e fare a mamma un occhio nero. Una volta, dopo che l’aveva pestata ben bene per poi andarsene a pescare, era venuto giú un nubifragio e io ero rimasta sdraiata sul letto a sperare che un fulmine schizzato dal cielo lo beccasse dritto in testa e gli facesse saltare anche quegli ultimi denti, riducendolo in un cumulo di cenere, e lasciandogli integro soltanto il berretto. Lo so che è una cattiveria, ma l’avevo pensato esattamente cosí.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore texano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Joe R. Lansdale.
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