Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Le ali della sfinge di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 8,45 ed è l’undicesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
Le ali della sfinge: trama del libro
Non è un buon momento per il commissario Montalbano: con Livia continui litigi, incomprensioni ingigantite dalla distanza, nervosismo. Passato e futuro si ammantano nei suoi pensieri di una vaga nostalgia. E in una di queste serate di malinconia viene chiamato d’urgenza. In una vecchia discarica è stato trovato il cadavere di una ragazza. Nuda, il volto devastato da un proiettile, niente borse o indumenti in giro. Solo un piccolo tatuaggio sulla spalla sinistra – una farfalla – potrebbe favorire l’identificazione della donna. Parte l’indagine con un Montalbano svogliato, stanco di ammazzatine. Ma il caso lo trascina: ci sono altre ragazze con una farfalla tatuata sulla scapola, sono tutte dell’Europa dell’est, hanno trovato lavoro grazie all’associazione cattolica “La buona volontà” che le ha salvate da un destino di prostituzione. Montalbano non è persuaso. C’è qualcosa di poco chiaro all’interno di quell’organizzazione benefica? E mentre l’inchiesta va avanti, il commissario è incalzato da ogni parte: dal vescovo, che non ammette ombre su “La buona volontà”, dal questore, che non vuole dispiacere al vescovo, da Livia che vuole partire con lui per ritrovarsi. Tutto si muove sempre più velocemente, alla ricerca della soluzione e il commissario ha fretta, di concludere, di andarsene.
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Non si trattava del fatto che la jornata s’appresentava priva di nuvole e vento e tutta tirata a lucito dal sole, no, era un’altra sensazione che non dipinniva dalla sò natura di meteoropatico, a volersela spiegare era come un sintirisi in armonia con l’universo criato, perfettamente sincronizzato a un granni ralogio stillare ed esattamente allocato nello spazio, al punto priciso che gli era stato destinato fino dalla nascita.
Minchiate? Fantasie? Possibile.
Ma il fatto indiscutibile era che quella sensazione una volta la provava bastevolmente di frequente, mentre invece, da qualichi anno a questa parte, ti saluto e sono. Scomparsa. Scancillata. Anzi, ora le prime matinate gli provocavano spisso e vulanteri ’na sorta di rigetto, di rifiuto istintivo di quello che l’aspittava una volta dovuto accettare il jorno novo, macari se non c’era nenti di camurrioso che l’aspittava nel corso della jornata. E la conferma era data da come si comportava subito che nisciva dal sonno.
Ora, appena isava le palpebre, immediatamente le ricalava e sinni ristava allo scuro per qualichi secondo, mentre una volta, appena rapriva l’occhi, li mantiniva aperti, squasi tanticchia sbarracati, per agguantare avidamente la luci del jorno.
«E questo era, di sicuro, effetto dell’età» pinsò.
Ma a questa conclusione immediatamente s’arribbillò il Montalbano secunno.
Pirchì da qualichi anno dintra al commissario esistivano dù Montalbani sempre in disaccordo tra di loro. Appena uno dei dù diciva una cosa, l’altro sostiniva l’opposto. E infatti.
«Ma cos’è ’sta storia dell’età?» disse Montalbano secunno. «Com’è possibile che a cinquantasei anni tu ti senti vecchio? La vuoi sapiri la vera virità?».
«No» disse Montalbano primo.
«E io te la dico lo stisso. Tu ti vuoi sintiri vecchio pirchì ti torna commodo. Siccome che ti sei stancato di quello che sei e di quello che fai, ti stai costruenno l’alibi della vicchiaia. Ma se ti senti accussì, pirchì come prima cosa non presenti ’na bella littra di dimissioni e ti chiami fora?».
«E doppo che faccio?».
«Fai il vecchio. Ti pigli un cani per tiniriti compagnia, la matina nesci, t’accatti il giornale, t’assetti supra ’na panchina, lasci il cani libero e accomenzi a leggiri principianno dai necrologi».
«Pirchì dai necrologi?».
«Pirchì se leggi che qualichi coetaneo tò è morto mentre che tu sei ancora sufficentimenti vivo, ti viene ’na certa sodisfazione che t’aiuta a campare minimo altre ventiquattr’ore. Doppo un’orata…».
«Doppo un’orata te la vai a pigliari ’n culu tu e il cani» disse Montalbano primo, aggelato dalla prospettiva.
«E allura susiti, vai a travagliare e non scassare i cabasisi» concluse risoluto Montalbano secunno.
Mentre stava sutta alla doccia, il telefono sonò. Annò a rispunniri accussì com’era, lassannosi appresso una scia di vagnato. Tanto cchiù tardo sarebbe venuta Adelina a puliziare.
«Dottori, chi fici, l’arrisbigliai?».
«No, Catarè, vigliante ero».
«Sicuro sicuro, dottori? Non me lo dice per complimento?».
«No, stai tranquillo. Che c’è?».
«Dottori, che ci po’ essiri se lo chiamo di prima matina?».
«Catarè, ma tu ti rendi conto che quando mi telefoni non mi dai mai una bella notizia?».
Fu un attimo e la voci di Catarella addivintò lacrimiosa.
«Ah dottori dottori! Pirchì mi dice accussì? Mi voli ammortificari? Se fusse per mia, io ogni matina l’arrisbigliarebbi con una notizia bella, che saccio, che vincì trenta miliardi al supirinnalotto, che l’hanno fatto capo della pulizia, che…».
Non aviva sintuto rapririsi la porta, tutto ’nzemmula si vitti davanti ad Adelina che lo taliava ancora con la chiave in mano. Come mai era vinuta accussì presto? Affruntato, si voltò istintivamente verso il telefono in maniera che le sò vrigogne non restassero a vista. A quanto pare, la parte posteriore mascolina è meno vrigugnosa di quella anteriore. La cammarera sinni annò subito in cucina.
«Catarè, vuoi vedere che so perché mi telefoni? Hanno trovato un morto. Ci ’nzertai?».
«Sì e no, dottori».
«Dov’è che mi sbagliai?».
«Trattasi di morta fimminina».
«Senti, ma non c’è il dottor Augello?».
«Già in loco trovasi, dottori. Ma ora ora il dottori mi tilifonò per tilifonari a lei dottori che dice accussì che è meglio se ci va macari lei dottori di pirsona pirsonalmenti».
«Dove l’hanno trovata?».
«Nel Sarsetto, dottori, propio nel paraggio del ponti miricano».
Lontano era il posto, sulla strata per Montelusa. E lui non aviva nisciuna gana di mittirisi a guidare.
«Mandami una machina».
«Le machine sunno nel garaggi ma non ponno partiri, dottori».
«Si sono scassate tutte contemporaneamente?».
«Nonsi, dottori, funzioniano. Ma il fatto è che non ci sono cchiù sordi per accattare la binzina. Fazio tilifonò a Montelusa ma gli dissiro di portari pacienzia che tra qualichi jorno arrivano, ma picca… Accussì ora comi ora ponno caminare sulo le volanti e quella di scorta per l’onorevoli Garruso».
«Si chiama Garrufo, Catarè».
«Comu si chiama si chiama. Basta che vossia accapisce di chi parlo, dottori».
Santiò. I commissariati non avivano benzina, i tribunali non avivano carta, gli spitali non avivano termometri, e intanto, al moribunno governo, pinsavano al ponte sullo stretto. Ma la benzina per le inutili scorte ai ministri, ai viceministri, ai sottosegretari, ai capigruppo, ai senatori, agli onorevoli, ai deputati regionali, ai capi di gabinetto, ai portaborse, quella non ammancava mai.
«Hai avvertito il pm, la Scientifica e il dottor Pasquano?».
«Sissi. Ma il dottori Guaspano s’incazzò assà assà».
«Perché?».
«Disse accussì che lui non avento il dono della bibiquà, non potiva essiri in loco prima di un due orate. Dottori, me la fa una spiega?».
«Dimmi».
«Che è ’sta bibiquà?».
«Che uno può trovarsi contemporaneamente in due posti diversi e distanti. Ad Augello digli che arrivo».
Annò in bagno, si vistì.
«Pronto è il cafè» l’avvertì Adelina.
Appena trasì in cucina, la cammarera lo taliò e disse:
«Ma lo sapi che vossia è ancora un bell’omo?».
Ancora? Che viniva a significari quell’ancora? S’infuscò. Ma Montalbano secunno si fici subito vivo:
«Ennò! Non puoi ’ncazzarti! Ti contraddici, se appena un’orata fa ti sintivi vecchio e decrepito!».
Meglio cangiare discorso.
«Come mai oggi sei venuta prima?».
«Pirchì devo pigliari la currera e annare a Montelusa a parlari col judici Sommatino».
Il giudice di sorveglianza al càrzaro indove stava «ristretto» Pasquale, il figlio cchiù nico della cammarera, un delinquenti abituali che Montalbano stisso aviva arrestato dù volte e del cui primogenito era stato patrino di vattìo.
«Pari che il judice ci metti ’na bona palora per i dumiciliari».
Il cafè era bono.
«Dammene un’altra tazza, Adelì».
Dato che il dottor Pasquano sarebbe arrivato tardo, se la poteva pigliare commoda.
Il Salsetto, al tempo dei greci, era stato un fiume, po’ era addivintato un torrente al tempo dei romani, appresso un rivo al tempo dell’unità d’Italia, appresso ancora, al tempo del fascismo, un rigagnolo fituso e infine, con la democrazia, ’na discarrica abusiva. Durante lo sbarco del 1943 i miricani avivano costruito supra al letto oramà sicco un ponte metallico che qualichi anno doppo era scomparso dalla sira alla matina, completamente smontato dai latri di ferro. Ma il posto aviva conservato il nome.
Arrivò in uno spiazzo indove c’erano ferme cinco machine della polizia, dù machine private e il carro per trasportare i cataferi all’obitorio. Le machine della polizia appartinivano tutte alla questura di Montelusa, di quelle private, una era di Mimì Augello e l’altra di Fazio.
«Com’è che a Montelusa ci hanno benzina a strafottere mentre a noi faglia?» si spiò il commissario contrariato.
Preferì non darisi risposta.
Augello gli andò incontro appena lo vitti scinniri dall’auto.
«Mimì, ma non ti potivi grattiari i cabasisi da sulo?».
«Salvo, con tia non ci casco più».
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire che se non ti avessi fatto venire qua, doppo m’avresti fatto ’nzallanire con i tuoi e perché non mi hai detto questo, e perché non mi hai detto quello…».
«Com’è la morta?».
«Morta» fici Augello.
«Mimì, ’na battuta accussì è peggio di ’na revorbarata a tradimento. Se ne dici un’altra, io ti sparo per legittima difesa. Te l’addimanno nuovamente: com’è la morta?».
«Picciotta. Poco più che vintina. E deve essiri stata beddra assà».
«L’avete identificata?».
«Ma quanno mai! È nuda, i vistiti non ci sono e manco una qualisisiasi borsetta».
Erano arrivati all’orlo dello spiazzo.
’Na speci di viottolo per crape portava alla discarrica, una decina di metri cchiù abbascio. Proprio alla fine del viottolo c’era un gruppo di pirsone tra i quali raccanoscì Fazio, il capo della Scientifica e il dottor Pasquano che stava calato supra a quello che pariva un manichino. Il pm Tommaseo invece era a mezzo del viottolo e vitti al commissario.
«Mi aspetti, Montalbano, sto arrivando».
«Ma come? C’è Pasquano?» fici Montalbano.
Mimì lo taliò ’mparpagliato.
«Perché non dovrebbe esserci? È arrivato ’na mezzorata fa».
Si vidi che l’incazzatura col poviro Catarella era stata tutta ’na finta.
Pasquano era cognito che aviva un carattere fituso, e ci tiniva ad essiri considerato un omo impossibili, perciò certe volte gli piaciva assà fari tiatro per mantiniri la fama.
«Non scende giù?» spiò Tommaseo arrivando col sciato grosso.
«Che scendo a fare? L’ha già vista lei».
«Deve essere stata bellissima. Un corpo meraviglioso» fece il pm con l’occhi che gli sparluccicavano per l’eccitazione.
«Come l’hanno ammazzata?».
«Un colpo in faccia con un revolver di grosso calibro. È assolutamente irriconoscibile».
«Perché pensa a un revolver?».
«Perché quelli della Scientifica non hanno trovato il bossolo».
«Secondo lei com’è andata?».
«Ma è lampante, carissimo! Di palmare evidenza! Dunque, la coppia raggiunge lo spiazzo, scende dalla macchina, percorre il viottolo e arriva sul greto per appartarsi. La ragazza si spoglia nuda e quindi, avvenuto il congresso carnale…».
Si fermò, si liccò le labbra, agliuttì al pinsero del congresso.
«… l’uomo le spara un colpo in faccia».
«E perché?».
«Boh, questo lo vedremo».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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