Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di L’amante silenzioso di Clara Sanchez, romanzo edito l’8 marzo 2018 da Garzanti con un prezzo di copertina di 18,90 euro (9,99 euro per l’ebook).
L’amante silenzioso: trama del libro
Rigogliose piante di un verde smeraldo addobbano il patio dove si svolge la cena. Isabel è lì su invito di un’ambasciata spagnola in Africa. Tutti credono che sia una giovane fotografa con la voglia di immortalare i colori e i panorami di quella terra bruciata dal sole. Ma non è questa la verità. Isabel sta cercando qualcuno. Sta cercando, per conto dei suoi genitori, Ezequiel, che si è lasciato tutto alle spalle per ritrovare sé stesso. È stato un uomo a fargli credere di non aver bisogno di null’altro, Maína, che con il suo potere carismatico di persuasione ha legato a sé diverse persone che come Ezequiel si sentivano perse. Perse come amanti silenziosi in cerca d’amore. Isabel deve salvarlo. Deve farlo perché non ci è riuscita con suo fratello che si è affidato a qualcuno con le stesse capacità manipolatorie.
Per questo ha accettato questa strana missione, apparentemente semplice: trovare Ezequiel e capire se sta bene. Ma quando Isabel incontra finalmente il ragazzo e conosce Maína capisce che dietro l’obiettivo di regalare nuove prospettive di vita a chi credeva di non averne si cela qualcosa di molto più grande. Attraversando i piccoli villaggi e la natura incontaminata, Isabel si accorge di strani movimenti, nei quali sembra invischiato anche Ezequiel. C’è qualcosa che non torna. Eppure sa che non può fare troppe domande. Perché rischia di essere condizionata e di perdere anche lei il controllo. Perché la sua copertura di fotografa può cadere da un momento all’altro. Perché da sola non è facile farsi scudo da una rete di intrighi e loschi affari.
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Arrivai a Nairobi poco dopo l’alba e, dopo aver sistemato il mio bagaglio ed essermi un po’ riposata al Norfolk – un albergo nostalgico in stile coloniale, arredato con legno, palme e tazze dal bordo dorato sui tavolini –, andai a visitare la famosa fattoria di Karen Blixen sotto un sole splendente. Per ambientarmi, durante il viaggio da Madrid avevo iniziato a leggere La mia Africa, che non assomigliava molto al film con Robert Redford e Meryl Streep, la cui trama si riduceva praticamente a una storia d’amore tra bianchi nella savana. Non mi servì neanche per farmi un’idea di ciò che avrei trovato durante il mio primo giro in città: un keniota disteso all’ombra di un grande albero inclinato e inondato di fiori rossi, torrenti di persone slanciate che camminavano a passo svelto lungo il bordo delle strade e dei campi mentre le rilucenti automobili delle ambasciate, dai numeri di targa cortissimi, sfilavano accanto a loro. Ero emozionata per l’incarico che dovevo portare a termine e per quel mondo di cui avevo soltanto immagini stereotipate: bambini denutriti, donne con il turbante e branchi di zebre lanciate in corsa.
Sulla scrivania della stanza trovai un biglietto dell’ambasciata spagnola che mi invitava a un aperitivo in onore di un celebre scrittore. Salvo contrordini, avrebbero mandato una macchina a prendermi. Dalla finestra si vedeva una fontana circondata da palme e rose gialle, e un cameriere vestito di bianco che ci girava intorno portando un vassoio d’argento carico di succhi di frutta. Era tutto molto gradevole.
Mi tinsi i capelli di biondo dorato con un prodotto che avevo comprato al duty free dell’aeroporto, mi feci la doccia e indossai un vestito che mi ero portata dietro per occasioni come quella. Il resto del mio bagaglio consisteva in due paia di bermuda, magliette e due gonne nere leggere con uno spacco laterale. Se avessi avuto bisogno di altre cose, le avrei comprate. Le persone che mi avevano ingaggiato per fare quel viaggio avevano provveduto a informare l’ambasciata del mio arrivo e a comunicare il mio itinerario. Avevano detto che ero una fotografa freelance, perché, se mi fossi presentata come cooperante, all’ambasciata mi avrebbero chiesto per quale ONG lavoravo. E se fossi stata una semplice turista non si sarebbero interessati molto a me, mentre tutti volevano che tornassi a casa sana e salva.
L’aperitivo fu rapido. L’ambasciatore non poté partecipare perché aveva altri impegni e così fu l’attaché culturale a offrirci una cena presso la sua residenza privata. Lì incontrammo lo scrittore, mezzo addormentato per colpa del jet lag, il segretario dell’ambasciata, un uomo taciturno che si limitava a osservare e la cui unica particolarità erano i pantaloni rossi che indossava, un sacerdote che chiamavano padre Andrés e la moglie dell’attaché: era una ragazza spagnola piena di energia che scriveva racconti sull’Africa, sull’esempio di Doris Lessing e della stessa Blixen, per cui era facile immaginare che lo scopo di quella cena fosse propiziare un incontro tra quest’ultima e lo scrittore.
Lo scrittore dovette interessarsi controvoglia ai suoi racconti, dato che la sua attenzione era calamitata da padre Andrés e dalla sua attività umanitaria. Probabilmente era affascinato quanto me dall’aspetto del sacerdote, e non perché si presentasse in abiti civili – ormai nessuno usa più il collarino, men che meno tra giraffe e leoni – ma per quel suo sguardo limaccioso, come se vi fosse rimasto attaccato ciò che di più penoso, disgraziato e inumano c’era al mondo. La casa dell’attaché, una villetta color ocra, era molto curata. Si notavano la mano della moglie e il suo desiderio di creare una bolla isolata dalla povertà e dall’insicurezza circostanti. La cena si svolse in un patio pieno di lussureggianti piante tropicali, davvero splendido se si distoglieva lo sguardo dal grande cancello di ferro, chiuso da un enorme catenaccio, frapposto tra il cortile e il portone d’ingresso, che conferiva all’atmosfera un terribile senso d’insicurezza.
Padre Andrés informò lo scrittore che il suo raggio d’azione comprendeva la regione del lago Turkana e che, se ne aveva piacere, avrebbe potuto ospitarlo lì per qualche giorno. La proposta entusiasmò l’uomo, che voleva conoscere la vera Africa dei neri, non quella dei bianchi. L’attaché mi esortò con grande energia a unirmi al viaggio: si trattava di un’occasione magnifica per fare un grande reportage fotografico. Il sacerdote, non altrettanto entusiasta, confermò che avrebbe accolto anche me. Tra l’altro aveva con sé un album di foto della zona, che forse ci avrebbe fatto piacere vedere. Lo scrittore tirò fuori dalla tasca della giacca sportiva un paio di occhiali da lettura ed entrambi ci allungammo verso le ginocchia di padre Andrés, su cui era appoggiato l’album. Vedemmo scatti del lago, di sentieri polverosi, di vipere e, soprattutto, di ragazzi neri con varie cinghie sul torso nudo e i kalashnikov tra le mani. Lo scrittore chiese se quei giovani fossero pericolosi e il sacerdote scosse la testa dubbioso. «Faremo in modo che nei vostri giri fuori dalla missione ci sia sempre qualcuno con voi, anche se siamo perennemente a corto di personale», rispose. In ogni caso saremmo stati i benvenuti. Dovevamo arrivare fino a un punto che ci avrebbe indicato lui su una mappa, dove saremmo saliti su un piccolo aeroplano che ci avrebbe lasciato al lago. Un po’ emozionati e un po’ intimoriti, chiedemmo informazioni sugli orari dell’aeroplano. Non aveva un orario fisso. Bisognava aspettarlo per ventiquattro o quarantotto ore, non era difficile. Lo scrittore, un po’ allarmato dalla vaghezza dell’impresa, disse che non voleva dare disturbo e io aggiunsi che forse ci sarei andata in seguito, cosa che avrebbe potuto anche essere vera. Subito dopo il sacerdote mise via l’album e ci alzammo tutti, ringraziando per la bella serata.
Dovetti dare il mio indirizzo e-mail alla moglie dell’attaché perché potesse inviare anche a me i suoi racconti. Almeno io li avrei letti davvero. Il segretario, che non aveva aperto bocca per tutta la sera, accompagnò tutti con la sua auto nei rispettivi alberghi, tranne padre Andrés, che era atteso accanto al cancello da un ragazzo keniota della sua missione. Ne scorsi appena il profilo: appariva e scompariva tra i fasci di luce delle altre macchine. L’unica cosa dotata di consistenza era la sua voce, ferma e profonda.
Prima lasciammo lo scrittore al suo albergo e poi, mentre si dirigeva verso il mio, il segretario ridusse un po’ la velocità.
«Questo è un paese molto complesso, tribale. Le tribù sono importantissime, capisce? Qui non valgono i parametri occidentali. Se lo ricordi sempre. E, se ha bisogno di qualcosa, mi chiami», disse, tirando automaticamente fuori dalla tasca interna della giacca uno dei suoi biglietti da visita.
«Per esempio di cosa?» chiesi. Avrei voluto poterlo considerare un amico, ma nessuno mi aveva detto che laggiù mi avrebbe aspettato un amico, perciò mi mossi con molta cautela.
«Di qualsiasi cosa, sa a cosa mi riferisco.»
«Tipo se dovessi ammalarmi?» insistetti.
«Sì, anche», rispose lui, tirando il freno a mano davanti all’ingresso del Norfolk. «E buon viaggio verso Mombasa per domani.»
Prima di coricarmi bevvi uno dei deliziosi succhi che il cameriere portava in giro sul vassoio, mentre pensavo alle parole del segretario dell’ambasciata.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice spagnola rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Clara Sanchez.
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