Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’amore fatale di Ian McEwan. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook al prezzo di euro 6,99.
L’amore fatale: trama del libro
Un pallone aerostatico travolto da un improvviso colpo di vento plana su un prato verdissimo tra Oxford e Londra. Un uomo anziano cerca di scenderne ma rimane impigliato in una fune e alcuni soccorritori tentano di aiutarlo, uno di essi morirà. La scena è agghiacciante perché imprevista e assurda nella sua realistica successione. Parte da qui questo romanzo di McEwan sull’amore e le sue ossessioni, da una disgrazia che sconvolgerà la mente di Jed Parry, un torvo giovanotto con manie religiose e vittima di una vera patologia erotica. A farne le spese è Joe Rose, divulgatore scientifico, uomo fragile e deluso, una tranquilla convivenza con la bella Clarissa, e che adesso è costretto a mettere in discussione la propria vita. Jed Parry si è follemente innamorato di lui ed è convinto di esserne ricambiato. Con ironia sottile e un gusto della comicità del tutto nuovo, Ian McEwan dipinge questo amore omosessuale assoluto: un’ossessione assurda e grottesca oppure la forma piú pura di devozione e passione? E allora: cos’è l’amore? Esiste un amore che non sia estremo e che sia autentico?
È come se assistessi alla scena da un’altezza di cinquanta metri, con gli occhi della poiana che poco prima avevamo osservato volteggiare ad ali spiegate e tuffarsi nel tumulto delle correnti: cinque uomini in corsa silenziosa diretti al centro di un prato di una quarantina di ettari. Io arrivavo da sud-est, con il vento a favore. Circa duecento metri alla mia sinistra correvano affiancati due individui. Erano Joseph Lacey e Toby Greene, braccianti agricoli che stavano riparando il lato meridionale dello steccato, là dove costeggia la strada. Piú o meno alla stessa distanza da loro, veniva John Logan la cui vettura era parcheggiata ai margini del prato con la portiera, o le portiere, spalancate. Sapendo ciò che so ora, è curioso ricordare la figura di Jed Parry dritta di fronte a me: è uscito da un filare di faggi e avanza contro vento dal lato opposto del prato a una distanza di cinquecento metri. Agli occhi della poiana, Parry e io eravamo due sagome minuscole; con le nostre camicie bianchissime sullo sfondo verde, ci correvamo incontro come due amanti, ignari della sofferenza che da quel groviglio sarebbe nata. Mi precipitavo verso un essere fuori del comune ma anche adesso, dopo tutto quel che è accaduto, sono certo che in quel momento, prima cioè che le complicate coincidenze responsabili del nostro incontro su quel prato si allineassero per darsi forma compiuta, la straordinarietà ancora non esisteva. Il caso che avrebbe scardinato le nostre vite era a pochi minuti da noi. A mascherarne l’enormità contribuiva non solo la barriera del tempo, ma anche il colosso al centro del prato con la sua fenomenale forza d’attrazione in grado di scuotere le resistenze meschine dell’uomo.
Cosa faceva Clarissa intanto? Raccontò poi che camminava spedita verso il centro del prato. Non so come riuscisse a resistere all’impulso di correre. Quando si verificò l’evento che sto per descrivere – la caduta – ci aveva quasi raggiunti e occupava un ottimo punto di osservazione, libera da un diretto coinvolgimento, come da corde e urla, e dalla nostra fatale assenza di cooperazione. Quanto descrivo risente di ciò che vide la stessa Clarissa, di ciò che ci ripetemmo nell’ossessiva analisi a posteriori. L’erba del prato avrebbe subito un primo taglio nel mese di maggio, e la fienagione doveva favorire la nuova crescita, preparare al secondo taglio, come l’evento che avrebbe avuto su di noi conseguenze di irrevocabile crescita.
Divago, rimando l’informazione. Mi attardo nell’attimo precedente perché fino a quel punto erano ancora possibili esiti differenti; il convergere di sei persone su una distesa di verde conserva una geometria confortante dalla prospettiva di una poiana; ha la riconoscibile limitatezza di un tavolo da biliardo. Le condizioni iniziali, la forza e la sua direzione, bastano a definire ogni traiettoria, ogni angolo di collisione e ritorno, mentre una luce gloriosa sovrasta l’intero prato, il tappeto verde e i corpi in movimento, ammantandoli di una chiarezza rassicurante. Mentre ci correvamo incontro, prima del contatto, credo ci trovassimo in una sorta di grazia matematica. Indugio sulla nostra disposizione spaziale, sulle distanze relative, sui punti cardinali di provenienza, perché rispetto ai fatti accaduti, quello fu l’ultimo istante in cui compresi qualcosa chiaramente.
Verso che cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in fondo. A livello superficiale tuttavia la risposta c’è; correvamo verso un pallone aerostatico. Non di quelli che sfruttano le semplici proprietà del calore, però, questo era un pallone enorme pieno di elio, gas elementare forgiato dall’idrogeno nella fornace nucleare delle stelle, il primo passo nella generazione della molteplicità e varietà della materia nell’universo, compresi noi stessi e tutti i nostri pensieri.
Correvamo incontro a una catastrofe, a sua volta una specie di fornace, nel cui calore identità e destini si sarebbero combinati in forme diverse. Alla base del pallone stava una cesta con dentro un bambino, mentre lí accanto, aggrappato a una corda, era un uomo in disperato bisogno di aiuto.
Pallone a parte, quella giornata si sarebbe comunque impressa nella memoria, sebbene nel piú piacevole dei modi, giacché ci ritrovavamo dopo una separazione di sei settimane, la piú lunga nei sette anni di vita con Clarissa. Sulla strada per Heathrow feci una deviazione a Covent Garden e trovai un parcheggio quasi regolare proprio davanti a Carluccio’s. Entrai e misi insieme un picnic il cui pezzo forte sarebbe stato una gran mozzarella che la commessa pescò in un recipiente di terracotta servendosi di una pinza di legno. Comprai anche olive nere, insalata mista e focaccia. Poi mi precipitai su Long Acre, da Bertram Rota, per ritirare il regalo di compleanno di Clarissa. Se si escludono l’appartamento e la nostra automobile, era l’oggetto in assoluto piú costoso che avessi mai acquistato. La rarità di quel libriccino pareva irradiare un calore che percepivo anche attraverso la spessa carta marrone del pacco, mentre tornavo sui miei passi alla macchina.
Quaranta minuti piú tardi passavo in rassegna gli schermi dei voli in arrivo. L’aereo da Boston era appena atterrato e calcolai che avrei avuto una mezz’ora d’attesa. Se mai qualcuno volesse conferma dell’assunto darwiniano riguardo all’universalità espressiva dell’emozione, scritta nel codice genetico degli esseri umani, allora dovrebbero bastargli pochi minuti al terminal quattro di Heathrow, quello degli arrivi. Vidi la stessa gioia, lo stesso sorriso irreprimibile sulla faccia di una robusta nigeriana, di una nonnetta scozzese dal labbro sottile e di un impeccabile pallido businessman giapponese nell’atto di spingere i rispettivi carrelli e di riconoscere qualcuno tra la folla in attesa. Se è vero che osservare la varietà umana può essere fonte di piacere, lo stesso vale anche per l’umana uguaglianza. Non facevo che sentire la stessa nota calante del mezzo singhiozzo che spesso accompagnava un nome, mentre due persone si facevano largo per abbracciarsi. Cos’era? Una seconda maggiore, una terza minore o una via di mezzo? Pa-pà! Jolan-da! Ho-bi! Nz-e! D’altra parte, esisteva anche la cantilena ascendente rivolta a bambini dall’aria serissima e diffidente da padri e da nonni assenti da molto tempo, tutti a blandire e implorare un immediato compenso d’amore. Hann-ah? Tom-my? Mi vuoi?
La varietà stava semmai nei singoli drammi: padre e figlio adolescente, turchi probabilmente, si stringevano in un lungo abbraccio, forse di perdono, o di lutto, dimentichi dell’ingorgo di carrelli intorno a loro; due gemelle identiche, sulla cinquantina, si salutavano con evidente antipatia sfiorandosi appena le mani e baciandosi a fior di pelle; un bambino americano, issato sulle spalle di un padre che non riconosceva, urlava per farsi mettere giú, e faceva saltare i nervi alla madre esausta.
Ma per lo piú erano abbracci e sorrisi, e nel giro di trentacinque minuti assistei a piú di cinquanta lieti fini teatrali, sempre meno riusciti, finché non mi sentii emotivamente stanchissimo e cominciai a sospettare persino della sincerità dei bambini. Mi stavo chiedendo quanto io stesso mi sarei reso plausibile salutando Clarissa, quando mi sentii battere su una spalla: era lei che uscendo non mi aveva visto ed era tornata a cercarmi. Il distacco svaní in un istante e recitai il suo nome, unendomi al coro degli altri.
Meno di un’ora dopo avevamo parcheggiato su una strada sterrata che tagliava attraverso un bosco di faggi nelle Chiltern Hills, nei pressi di Christmas Common. Mentre Clarissa si cambiava le scarpe, preparai lo zaino del picnic. Poi ci avviammo sul sentiero sottobraccio, ancora sotto l’effetto gioioso del nostro incontro; quanto di lei mi era ben noto – come le proporzioni e la sensazione della sua mano nella mia, il tono pacato e affettuoso della voce, la pelle chiara e gli occhi verdi di taglio celtico –, assumeva tuttavia un certo non so che di nuovo, si illuminava di una radiosità estranea facendomi tornare alla mente i primi appuntamenti e i mesi del nostro reciproco innamoramento. Oppure vedevo me stesso nei panni di un altro uomo, del mio stesso rivale in amore, venuto a portarmela via. Quando glielo dissi lei rise e commentò che ero lo scemo piú complicato del mondo, e fu mentre ci fermavamo per darci un bacio e domandarci a voce alta se non avremmo fatto meglio a rimontare in macchina e andare subito a casa, che scorgemmo tra le foglie nuove degli alberi, il pallone spostarsi come in sogno attraverso la valle boschiva a ovest. Non potevamo vedere né l’uomo né il ragazzo. Ricordo di aver pensato, senza farne parola, che si trattava di un mezzo di trasporto piuttosto insicuro quando, a segnarne la rotta, era il vento piú che il pilota. Ma riflettei che forse proprio in quello doveva consistere la natura del divertimento. E l’idea mi svaní di mente all’istante.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore inglese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Ian McEwan.
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