Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook al prezzo di euro 7,99.
L’amore ai tempi del colera: trama del libro
Per cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni Fiorentino Ariza ha perseverato nel suo amore per Fermina Daza, la più bella ragazza dei Caraibi, senza mai vacillare davanti a nulla, resistendo alle minacce del padre di lei e senza perdere le speranze neppure di fronte al matrimonio d’amore di Fermina con il dottor Urbino. Un eterno incrollabile sentimento che Fiorentino continua a nutrire contro ogni possibilità fino all’inattesa, quasi incredibile, felice conclusione. Una storia d’amore e di speranza con la quale, per una volta, Gabriel García Márquez abbandona la sua abituale inquietudine e il suo continuo impegno di denuncia sociale per raccontare un’epopea di passione e di ottimismo. Un romanzo atipico da cui emergono il gusto intenso per una narrazione corposa e fiabesca, le colorate descrizioni dell’assolato Caribe e della sua gente. Un affresco nel quale, non senza ironia, si dipana mezzo secolo di storia, di vita, di mode e abitudini, aggiungendo una nuova folla di protagonisti a una tra le più straordinarie gallerie di personaggi della letteratura contemporanea.
- Vedi la scheda completa di L’amore ai tempi del colera su Amazon.
- Leggi le opinioni dei lettori su Amazon.
Trovò il cadavere avvolto da una coperta sulla branda da campo dove aveva sempre dormito, vicino a uno sgabello con la bacinella che era servita per vaporizzare il veleno. Sul suolo, legato a una gamba della branda, c’era il corpo disteso di un grosso danese nero col petto niveo, e accanto a lui le grucce. La stanza soffocante e composita che serviva sia da camera da letto sia da laboratorio iniziava appena a illuminarsi col bagliore dell’alba attraverso la finestra aperta, ma era una luce sufficiente a riconoscere subito l’autorità della morte. Le altre finestre, come qualsiasi fessura della stanza, erano imbavagliate con stracci o sigillate con cartoni neri, e questo aumentava la densità opprimente. C’erano un bancone zeppo di flaconi e boccette senza etichetta, e due bacinelle di peltro scrostato sotto una lampadina comune ricoperta di carta rossa. La terza bacinella, quella del liquido fissante, era vicino al cadavere. C’erano riviste e giornali vecchi ovunque, pile di negativi su lastre di vetro, mobili rotti, ma tutto era preservato dalla polvere grazie a una mano attenta. Sebbene l’aria della finestra avesse purificato l’ambiente, rimaneva ancora, per chi fosse in grado di identificarlo, il sentore tiepido degli amori sventurati delle mandorle amare. Il dottor Juvenal Urbino aveva pensato più di una volta, senza spirito premonitore, che quello non era un luogo propizio per morire in grazia di Dio. Ma col tempo aveva finito coll’immaginare che quel disordine obbediva a una risoluzione cifrata della Divina Provvidenza.
Un commissario di polizia era già arrivato insieme a uno studente molto giovane che faceva pratica come medico condotto nell’ambulatorio municipale, ed erano stati loro ad aerare la stanza e a coprire il cadavere finché non fosse arrivato il dottor Urbino. Tutti e due lo salutarono con una solennità che questa volta era più di condoglianze che di venerazione, perché nessuno ignorava il grado della sua amicizia con Jeremiah de Saint-Amour. L’eminente professore strinse la mano di entrambi, come faceva da sempre con ogni allievo prima di cominciare la sua lezione quotidiana di clinica medica, e poi prese l’orlo della coperta con i polpastrelli di indice e pollice, come se fosse un fiore, e scoprì il cadavere palmo a palmo con una flemma sacramentale. Era tutto nudo, rigido e sbilenco, con gli occhi aperti e il corpo blu, e lo si sarebbe detto più vecchio di cinquant’anni rispetto alla sera prima. Aveva le pupille diafane, la barba e i capelli giallognoli, e il ventre solcato da una cicatrice antica cucita con punti da imballaggio. Il torace e le braccia avevano una larghezza da galeotto tanto si era affaccendato con le grucce, ma le gambe inermi sembravano quelle di un orfano. Il dottor Juvenal Urbino lo contemplò per un istante col cuore addolorato come pochissime altre volte nei lunghi anni della sua lotta sterile contro la morte.
«Stronzo» gli disse. «Ormai il peggio era passato.»
Lo ricoprì e riassunse la sua prestanza accademica. L’anno prima aveva festeggiato gli ottant’anni con un giubileo ufficiale di tre giorni, e nel discorso di ringraziamento aveva respinto ancora una volta la tentazione di ritirarsi a vita privata. Aveva detto: «Avrò tutto il tempo che vorrò per riposare quando sarò morto, ma questa eventualità non rientra ancora nei miei progetti». Sebbene ci sentisse sempre meno dall’orecchio destro e si appoggiasse a un bastone con l’impugnatura d’argento per nascondere l’incertezza dei passi, continuava a indossare col portamento dei suoi anni da ragazzo il vestito intero di lino, col panciotto attraversato dalla catena d’oro dell’orologio. La barba alla Pasteur, color madreperla, e i capelli dello stesso colore, ben stirati e con la riga netta in mezzo, erano tratti fedeli del suo carattere. L’erosione della memoria sempre più inquietante la compensava nei limiti del possibile con appunti scritti in fretta su foglietti sparsi, che finivano per confondersi in tutte le sue tasche, al pari degli strumenti, delle boccette di medicine, e di tante altre cose alla rinfusa nella valigetta zeppa. Era non solo il medico più vecchio e più illustre della città, ma anche l’uomo più elegante. Tuttavia, il suo sapere troppo ostentato e il modo nient’affatto ingenuo di usare il potere del suo nome gli erano valsi meno affetto di quanto meritasse.
Le istruzioni al commissario e al praticante furono precise e rapide. Non occorreva fare l’autopsia. L’odore della casa bastava a indicare che la causa della morte erano state le esalazioni del cianuro reso attivo nella bacinella da qualche acido fotografico, e Jeremiah de Saint-Amour era troppo esperto in questo campo perché fosse stato un incidente. Davanti a un dubbio del commissario, lo bloccò con una stoccata tipica del suo modo di essere: «Non si dimentichi che sono io a firmare il certificato di morte». Il medico giovane rimase deluso: non aveva mai avuto la fortuna di studiare gli effetti del cianuro d’oro su un cadavere. Il dottor Juvenal Urbino era rimasto sorpreso di non averlo visto alla facoltà di Medicina, ma capì subito il perché dal suo facile rossore e dalla pronuncia andina: probabilmente era arrivato da poco in città. Gli disse: «Qui non le mancherà qualche pazzo d’amore che gliene fornisca l’occasione uno di questi giorni». E gli bastò dirlo per rendersi conto che fra gli innumerevoli suicidi che ricordava, quello era il primo col cianuro che non fosse causato da un infortunio d’amore. Qualcosa cambiò allora nei modi della sua voce.
«Quando l’avrà trovato, stia molto attento» disse al praticante: «di solito hanno sabbia nel cuore».
Poi parlò col commissario come avrebbe fatto con un subalterno. Gli ordinò di sveltire la procedura affinché il funerale avesse luogo quel pomeriggio stesso e col massimo riserbo. Disse: «Ne parlerò poi col sindaco». Sapeva che Jeremiah de Saint-Amour era di un’austerità primitiva, e che guadagnava con la sua arte più di quanto avesse bisogno per vivere, sicché in qualche cassetto della casa doveva esserci denaro in abbondanza per le spese del funerale.
«Ma se non lo trovate, non importa» disse. «Mi faccio carico io di tutto.»
Ordinò di comunicare ai giornali che il fotografo era morto di morte naturale, anche se pensava che la notizia non li avrebbe interessati affatto. Disse: «Se proprio bisogna, parlerò io col governatore». Il commissario, un funzionario serio e umile, sapeva che il rigore civico del professore esasperava persino i suoi amici più cari, ed era stupito davanti alla facilità con cui sbrigava le formalità legali per accelerare il funerale. L’unica cosa da cui si astenne fu parlare con l’arcivescovo affinché Jeremiah de Saint-Amour venisse seppellito in terra consacrata. Il commissario, a disagio per la sua stessa impertinenza, cercò di scusarsi.
«Credevo che quest’uomo fosse un santo» disse.
«Una cosa ancora più strana» disse il dottor Urbino: «un santo ateo. Ma questi sono affari di Dio».
Remote, dall’altra parte della città coloniale, si udirono le campane della cattedrale che chiamavano alla messa solenne. Il dottor Urbino si infilò gli occhiali a mezza luna con la montatura d’oro, e consultò l’orologio con la catena, che era quadrato e sottile, col coperchio a molla: rischiava di perdere la messa di Pentecoste.
Nel salotto c’era un’enorme macchina fotografica su ruote, come quelle dei giardini pubblici, e un fondale con un crepuscolo sul mare dipinto a pennellate artigianali, e le pareti erano tappezzate di ritratti di bambini nelle loro circostanze memorabili: la prima comunione, il travestimento da coniglio, il compleanno felice. Il dottor Urbino aveva visto quelle pareti ricoprirsi a poco a poco, un anno dopo l’altro, durante il cavillare assorto dei pomeriggi di scacchi, e aveva pensato spesso con un palpito di desolazione che in quella galleria di ritratti casuali c’era il germe della città futura, governata e pervertita da quei bambini incerti, e nella quale non sarebbero più rimaste neppure le ceneri della sua gloria.
Sulla scrivania, accanto a un barattolo contenente diverse pipe da lupo di mare, c’era la scacchiera con una partita incompiuta. Malgrado la fretta e l’umore cupo, il dottor Urbino non resistette alla tentazione di studiarla. Sapeva che era la partita della sera prima, perché Jeremiah de Saint-Amour giocava tutti i pomeriggi della settimana e almeno con tre avversari diversi, ma arrivava sempre alla fine e poi riponeva la scacchiera e le pedine nella scatola, e la scatola in un cassetto della scrivania. Sapeva che giocava con le pedine bianche, e quella volta era evidente che sarebbe stato sconfitto senza rimedio in quattro mosse. «Se fosse un delitto, qui ci sarebbe una buona pista» disse tra sé. «Conosco solo un uomo capace di organizzare un’imboscata così perfetta.» Non avrebbe potuto vivere senza scoprire perché quel soldato indomito, abituato a battersi fino all’ultimo sangue, non avesse portato a termine la guerra finale della sua vita.
Alle sei del mattino, mentre faceva l’ultima ronda, la guardia notturna aveva visto il cartello affisso sulla porta: «Entrate senza bussare e avvisate la polizia». Poco dopo era accorso il commissario col praticante, ed entrambi avevano ispezionato la casa in cerca di qualche prova che contraddicesse l’odore inconfondibile delle mandorle amare. Ma nei brevi minuti che richiese l’analisi della partita incompiuta, il commissario scoprì fra le carte sulla scrivania una busta indirizzata al dottor Juvenal Urbino, e protetta da così tanti sigilli di ceralacca che fu necessario lacerarla per estrarne la lettera. Il medico scostò la tenda nera della finestra per avere più luce, diede dapprima un rapido sguardo agli undici fogli scritti da tutt’e due le parti con una calligrafia attenta, e non appena ebbe letto il primo paragrafo capì di essersi perso la comunione di Pentecoste. Lesse col respiro agitato, tornando indietro di più pagine per riprendere il filo che aveva smarrito, e quando ebbe terminato sembrava che tornasse da molto lontano e dopo lungo tempo. La sua prostrazione era visibile malgrado lo sforzo per impedirlo: sulle labbra aveva lo stesso colore blu del cadavere, e non riuscì a dominare il tremore delle dita quando ripiegò la lettera e la ripose nel taschino del panciotto. Allora si ricordò del commissario e del giovane medico, e sorrise loro dalle brume del dolore.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore sudamericano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Gabriel García Márquez.
Lascia un commento