Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di Anime Scalze di Fabio Geda, romanzo edito l’11 aprile 2017 da Einaudi con un prezzo di copertina di 17,50 euro (acquistabile online con il 15% di sconto).
L’amante silenzioso: trama del libro
Ercole Santià trascorre l’infanzia ricucendo gli strappi quotidiani della vita. Lui e sua sorella Asia tirano avanti a stento – con fantasia e caparbietà – insieme al padre, un personaggio tanto inadeguato quanto innocente; eppure, come tutti, crescono, vanno a scuola, s’innamorano. Finché, all’improvviso, ogni cosa attorno a Ercole inizia a crollare.
Niente sembra in grado di fermare la slavina che lo sta travolgendo, nemmeno Viola, la ragazza che da qualche tempo illumina i suoi giorni. Convinto che quello di incasinarsi sia un destino scritto nel sangue della propria famiglia, è sul punto di arrendersi quando viene a sapere che la madre, di cui non ha notizie da anni, abita non lontano da lui. L’incontro con la donna lo metterà di fronte alla necessità di reagire compiendo una scelta drammatica. L’unica possibile, forse, se vuole cambiare il proprio destino e proteggere le persone che ama.
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Quella mattina, ricordo, nel parcheggio del centro commerciale, scendendo dal furgone, afferrando il fucile dal sedile posteriore, ho guardato di sfuggita verso il bosco e mi sono accorto che il sole stava sorgendo sulla campagna come un livido. Era ottobre. Avevo quindici anni. Luca ha guardato nella mia stessa direzione e ha detto: Ho sonno, infilando la mano sotto il casco da football americano e grattandosi la guancia. Lo ha detto senza piagnucolare; di anni, Luca, ne aveva compiuti sei il giorno prima. Per un attimo ho pensato di dare un fucile anche a lui, perché sul sedile ce n’erano due, poi mi sono detto: No, meglio di no.
Seguimi.
Luca ha ubbidito.
Abbiamo attraversato il parcheggio di corsa, in direzione di uno dei capannoni; abbiamo raggiunto la scala esterna. L’ho trascinato su stringendogli la mano per evitare che scivolasse, ma con l’altra dovevo sia aggrapparmi al mancorrente sia tenere il fucile. Ho sentito le sirene della polizia e le auto inchiodare davanti al cancello. Non ho sentito gli agenti scendere e rovistare nel furgone, attivare l’impianto di amplificazione della volante, quello no; ma ho sentito il mio nome quando l’hanno urlato.
Ercole, ha detto una voce metallica distorta dagli altoparlanti, Ercole vieni fuori e non fare sciocchezze. Dal tono si capiva che il poliziotto si stava sforzando di essere educato e che in realtà avrebbe voluto dire: Ercole, Ercole vieni fuori e non fare cazzate, ma non poteva, forse perché insieme a lui c’era della gente che si sarebbe lamentata se lo avesse sentito usare quella parola, tipo una persona di buon cuore o chessò io. Cosí ha ripetuto: Ercole, accidenti, lo sappiamo che sei lí dentro. Posa il fucile e vieni fuori.
Tsz, ho pensato, anzitutto non sono dentro, ma sopra, sul tetto; e poi che roba i poliziotti, a volte fanno tanto i gradassi – come la sera che hanno arrestato mio padre – e altre si cagano addosso per una persona di buon cuore. A me invece mica mi fanno paura le persone di buon cuore. Macché. Me non mi avranno mai.
Ercole, ha urlato il poliziotto, cazzo, mi hai sentito?
A proposito, io mi chiamo Ercole.
2.
Non puoi uccidere il tempo col cuore. Tutto richiede tempo. Le api si devono muovere rapidissime per restare immobili.
DAVID FOSTER WALLACE
Da quel giorno, il giorno in cui sono salito sul tetto con Luca, sono passati quattro anni, e di acqua sotto i ponti ne ho vista scorrere parecchia, specie sotto quello tra piazza Vittorio e la Gran Madre – e alla fine ci arriviamo; ma prima devo dirvi un altro paio di cose perché possiate farvi un quadro esatto della faccenda e capire come sono finito lassú.
Anzitutto sono nato. A Torino, in borgata Cenisia. Mamma raccontava sempre che appena mi ha visto, in sala parto, ha pensato che assomigliavo a Yoda, solo con piú capelli, ma che poi, per fortuna, sono migliorato e avrei potuto essere il figlio di Enrique Iglesias. Non ho mai visto un sacco di cose e di posti, tipo l’aurora boreale, l’ammaraggio di un aereo, Gué Pequeno e Marracash cantare dal vivo, le piattaforme petrolifere, le tempeste di fulmini sopra la foce del fiume Catatumbo e la maggior parte delle città del mondo; ma sono stato a Milano e a Boves in gita scolastica, e a Pietra Ligure al mare.
Mia nonna vendeva il pesce a Porta Palazzo e a mio nonno piacevano i combattimenti tra cani quanto la grappa al basilico: ricordo un periodo in cui parlava in continuazione di un rottweiler di nome Tomba, come Alberto, lo sciatore degli anni Novanta; non ho mai capito se era un riferimento a lui o cosa – non credo abbia mai sciato, mio nonno. Mia nonna è morta ai mercati generali, investita da un transpallet elettrico: le volevo bene perché è stata lei a insegnarmi a disegnare e anche se l’ho vista che era già nella bara e le mancava mezza faccia mi hanno permesso di infilarle un Pokémon tra le mani – Squirtle, per essere precisi. Cos’altro? Be’, mio nonno di tanto in tanto mi toccava il pisello. Ma no, non in quel modo – avete capito. Era piú una cosa tecnica, da meccanico, come per assicurarsi che ci fosse. Non so che fine ha fatto, mio nonno. Da quando mamma se n’è andata non l’ho piú visto.
A quindici anni, l’estate in cui tutto è esploso, in cui sono scappato con Luca eccetera, ero alto un metro e settantasei; e se state cercando di immaginarmi quello che posso dire è che ho ereditato le orecchie piccole e le spalle tonde da mio padre e gli occhi scuri e le ciglia lunghe da mia madre, con quell’espressione che, a detta di alcuni, sembra che sia sempre innamorato, o che stia guardando i fuochi d’artificio. Ma io mi sono innamorato solo una volta. E gli unici fuochi d’artificio che conosco sono quelli della notte del 24 giugno, quando a Torino si festeggia San Giovanni – e il mio compleanno.
Nell’autunno della prima elementare – quando avevo sei anni e mia sorella Asia undici – nonna, come ho detto, è morta investita da un transpallet elettrico; mamma è andata via un giorno qualsiasi, uno che, ricordo, il tempo non era neppure malconcio come dovrebbero essere i giorni in cui le madri se ne vanno, chessò, piovoso, o con il cielo che sembra la pelle d’un pesce; e nonno è uscito a parlare con il proprietario di Tomba, poco prima di cena, e non è piú tornato. È successo tutto nell’arco di una settimana. Papà se n’è accorto domenica. È rincasato a metà mattina dopo aver trascorso la notte fuori, ha aperto il frigo, ha preso il latte, l’ha annusato per controllare che non fosse andato a male, se n’è versato una tazza, ha cercato la scatola dei biscotti – ne era rimasto uno solo – si è seduto al tavolo della cucina, ha inzuppato l’unico biscotto bagnandosi le dita, quindi ha alzato lo sguardo, e a quel punto ha registrato la presenza mia e di Asia in piedi di fronte alla porta: io con Roxy sotto il braccio – l’orsacchiotto di pezza che prima di essere mio era stato di mia sorella e per questo lei aveva impedito che gli cambiassi nome – e Asia con la maglietta nera con la scritta «Il meglio deve ancora venire». Si è guardato attorno e ha detto: Dove cazzo sono finiti tutti quanti?
Asia ha detto: Chi?
Il biscotto mollo s’è spezzato ed è caduto nella tazza.
Vostra madre? ha chiesto papà alzando un sopracciglio.
Se n’è andata? ha risposto Asia imitandolo.
Capitava spesso che loro due parlassero facendosi delle domande che non erano delle domande.
Dove?
Tu lo sai?
Papà ha ingoiato quel po’ di biscotto che gli era rimasto sulle dita, se l’è leccate, si è alzato facendo strisciare la sedia con un rumore fastidiosissimo ed è andato in camera da letto. L’armadio era aperto e vuoto. Le grucce pendevano nude. Sul letto c’erano dei calzini spaiati, un reggiseno e una maglia che nonna le aveva portato da Porta Palazzo e che tutti dicevano non le donava, verde pistacchio, con una stampa a pappagalli ed elicotteri. Sul muro, l’impronta di un quadro che era stato rimosso. Papà è rimasto fermo e silenzioso a studiare l’armadio per un tempo infinito. Lo ricordo perché a me scappava la pipí, ma non volevo andare a farla perché a quel punto, a furia di vedere sparire la gente, avevo paura che uscito dal bagno non avrei trovato piú nessuno. Ha allungato un braccio per indicare quella desolazione e ha detto: Non ci posso credere, si è presa anche i miei vestiti.
Macché, ha detto Asia, sono lí, e ha fatto segno col mento di guardare sul fondo dell’armadio.
Papà ha girato attorno al letto, si è chinato e ha sollevato un paio di pantaloni mimetici e una camicia rosa con il colletto a punta, una doppia onda di brillantini ricamati sul taschino. Ha alzato gli occhi al soffitto e sbuffato per il sollievo. Meno male, ha detto.
Cosí siamo rimasti solo noi: io, Asia e papà. Il fatto certo è che ora a casa nostra c’era tanto di quello spazio da non saperci che fare. Abitavamo all’ultimo piano – quarto senza ascensore – di un palazzo costruito tipo cento anni fa per accogliere gli operai di una fabbrica vicina e le loro famiglie: una cucina, una camera, un bagno. Io e Asia fino a quel momento avevamo dormito in un ritaglio della stanza dei nostri genitori, dietro una parete di cartongesso in cui entrava giusto il letto a castello, mentre nonno e nonna, i nonni materni, finché c’erano stati, avevano dormito in cucina, sul divano letto arancione, che per aprirlo bisognava spostare il tavolo e le sedie contro la credenza.
L’appartamento era della vedova Rispoli, che noi avevamo sempre e solo chiamato: la vedova. Una persona di buon cuore, amica del parroco, don Lino. Ce l’aveva affittato dopo che ero nato io. Di case, la vedova, ne aveva tante da non sapere che farne e don Lino l’aveva convinta a tenere il prezzo basso, ma tanto basso che ci pagava a mala pena le spese. Il mondo è cosí se lo sai prendere dal verso giusto: pieno di persone generose. Per fare contenta la vedova bastava che, quando passava a ritirare l’affitto, trovasse noi bambini pronti ad accoglierla con un sorriso e un disegno, che i nonni scambiassero due parole davanti a una tazza di caffè, che papà le facesse il baciamano – sempre che non fosse sgattaiolato via – e che le dessimo l’occasione di arrossire di fronte ai ringraziamenti per la sua generosità, prima di farla tornare a casa con una busta pesante di monete che mettevamo da parte appositamente, come a dire che per pagarla eravamo costretti a rompere il salvadanaio.
Dopo che mamma e i nonni sono scomparsi ad accoglierla siamo rimasti io e Asia. Facevamo la doccia. Ci pettinavamo. Indossavamo le magliette pulite. E alla domanda: Come va, piccoli, vostro padre ce la fa a occuparsi di voi ora che è rimasto solo? rispondevamo con degli sguardi e dei racconti cosí commoventi da far guadagnare a papà un posto ogni volta piú alto nelle preghiere serali della vedova.
Per far passare la tristezza che ci aveva infradiciato da quando mamma era andata via, tristezza che io sentivo sulle spalle e sul collo, come stessi scavando un buco dentro me stesso e avessi quintali di macerie da portar fuori, e Asia nelle ginocchia e nelle gambe, tanto che per alcuni mesi non ha fatto altro che inciampare, ecco, per questa e per altre ragioni papà ha smontato la parete di cartongesso che divideva la camera da letto e ha detto che a quel punto la stanza era nostra, tutta; lui avrebbe dormito in cucina sul divano. Insomma, non era come avere indietro mamma e i nonni, ma era qualcosa su cui concentrarsi. Io e Asia abbiamo deciso che avremmo dormito insieme nel lettone e di lasciare il letto a castello a papà, caso mai avesse voluto, ogni tanto, prendersi una vacanza dalla cucina. Ricordo di aver pensato che ora potevamo invitare gli amici a passare la notte da noi, ma alla fine questa cosa non è mai successa. Non avevamo amici abbastanza amici da invitare senza che i genitori indagassero sulla nostra famiglia. E a quel punto la risposta era sempre la stessa, ossia che, se volevamo, potevamo andare noi a dormire da loro.
Ci siamo divisi le pareti. Asia ha preso quella dietro il letto matrimoniale e quella dell’armadio e le ha tappezzate di foto ritagliate dalle riviste di cucina: soufflé al cioccolato, ciotoline di pane con vellutata di ceci, cannelloni di melanzane, cavatelli ai fiori di zucca, anatra all’arancia, cassata siciliana, charlotte alle mele. All’epoca Asia sapeva già che da grande voleva fare la cuoca. Io invece ho preso la parete dietro il letto a castello e quella della finestra. E ho cominciato a disegnarci sopra i miei mostri.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Fabio Geda.
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