Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Anime di vetro di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Anime di vetro: trama del libro
C’è la morte nell’anima di Luigi Alfredo Ricciardi. Imprigionato nel guscio della solitudine piú completa, che non permette a nessuno di intaccare, è sulla soglia della disperazione. All’ottavo appuntamento con i lettori del commissario dagli occhi verdi, piú che mai protagonista in una indagine dove tutto è anomalo, Maurizio de Giovanni ci regala la meraviglia di un romanzo in cui le anime di ciascuno si rivelano fatte di vetro: facili a rompersi in mille pezzi, lasciano trasparire la fiamma che affascina e talvolta danna, e occorre allora il sacrificio della rinuncia, che può apparire incomprensibile ed esporre alla vendetta. Prende cosí forma un congegno narrativo misteriosamente delicato e struggente, vertiginoso e semplice, che spinge Ricciardi su strade rischiose. E lo costringe a fare i conti con sé stesso e i propri sentimenti. Mentre le pagine sembrano assumere la voce di una delle piú celebri canzoni partenopee, per carpirne il piú nascosto segreto.
Approfondimenti sul libro
In ebook Anime di vetro (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
Il ragazzo rimane in piedi. Intravede i contorni dei mobili, cataste di libri e una massa informe, forse una poltrona, dalla quale viene un respiro pesante. Attende. Bilancia il peso del corpo da un piede all’altro. Forse dorme, pensa; la donna non ha detto niente. Chissà chi è: una domestica. La figlia. Una parente.
Decide di azzardare un buongiorno, a mezza voce.
Ben arrivato, dice la poltrona. Apri la finestra, per favore.
La voce è graffiata, impastata. Stava dormendo, pensa il ragazzo, e si sente un maleducato. Scusatemi, mormora, avevate detto alle tre, e io…
Lo so, dice la poltrona, sbrigativa. Apri la finestra, una sola imposta. Per favore.
Facendo attenzione a dove mette i piedi nel timore di far cadere o calpestare qualcosa, il ragazzo raggiunge la finestra e apre un’imposta. Entra prepotente la luce, gli fa sbattere le palpebre. Lancia un’occhiata al meraviglioso panorama, che lo sorprende di meno, avendolo guardato per un’ora mentre, seduto sul muretto, aspettava il momento fissato. Il mare si stende luccicante, e l’isola sembra a portata di mano.
Si volta. La luce avvolge una libreria polverosa e traboccante di volumi, dischi, soprammobili, oggetti di ogni forma. La stanza non è grande, o forse le dimensioni appaiono ridotte dall’immensa quantità di cose. Gli occhi del ragazzo vagano, curiosi. Ora la poltrona, un po’ defilata rispetto al chiarore che entra dalla finestra, mostra il suo ospite.
Lo so che cosa stai cercando, dice il vecchio. È proprio dietro di te.
Il ragazzo si volta e lo vede; o meglio, ne vede la custodia. Fa un passo di lato, allontanandosene come per un moto di rispetto e soggezione. Il vecchio ridacchia.
Portamelo, dice. E siediti qua, vicino a me.
Lo dice sgombrando da un fascio di fogli una specie di sgabello, a mezzo metro dalla poltrona. Ormai si vede bene, e il ragazzo riconosce il pentagramma, le note che corrono sulla carta. Fuori, un colombo tuba insistente per un paio di secondi e vola via.
Tu la suoni bene, la chitarra, dice il vecchio. Sei bravo. Veramente.
Il ragazzo vorrebbe chiedere come lo sa e dove l’ha sentito. Ma non era una domanda, e lui risponde solo se gli chiedono qualcosa.
Il vecchio continua: ti sono venuto a sentire. Mi avevano detto di te, e quando hai chiesto di incontrarmi mi è cresciuta la curiosità. Sei bravo. E tieni pure una bella voce.
Rimane zitto per un po’, e il ragazzo non resiste: ma davvero siete venuto a sentirmi? E perché non vi siete fatto riconoscere? Io… sarebbe stato un onore enorme. È stato, un onore enorme. Vi avrei… insomma, vi avrei accolto come si deve.
Di nuovo, il vecchio ridacchia. Proprio per questo non mi sono fatto riconoscere. Ti volevo sentire come sei. Per quello che sai fare. Dammi qua.
Prende la custodia tra le mani. Non può suonare, pensa il ragazzo. Ha le mani deformate dall’artrite, e mi pare pure che gli tremino. È un vecchio. Ho sbagliato a venire, non mi può dare niente. Un vecchio.
Starai pensando che sono vecchio, dice il vecchio. Un povero vecchio. E mi guardi le mani, tutte storte. Tremano. Starai pensando: ma questo come fa a suonare?
No, no, dice il ragazzo, ma che dite? Voi… Il vostro nome è una leggenda, per tutti quanti noi. Io non mi permetterei mai.
Il vecchio annuisce.
È vero, sono vecchio. E non potrei suonare, se si suonasse solo con le mani. Come fai tu, che suoni solo con le mani.
C’è durezza, nella voce del vecchio. Come un’accusa. Eppure il tono non è cambiato, basso e secco. Il ragazzo ha un brivido, poi chiede: perché dite cosí? Che significa?
Il vecchio non risponde subito. Guarda la luce che entra dalla finestra, da dov’è seduto non riesce a vedere il mare, solo un pezzo di cielo con una nuvola metà bianca e metà rosa nella luce obliqua del sole calante.
Significa che mica ci sta un solo modo, di suonare. Ce ne stanno tanti. Tu sei bravo con la chitarra e con la voce, non sbagli i toni e tieni pure una bella estensione. È un buon presupposto.
Presupposto di che?, chiederebbe il ragazzo. Ma si trattiene. C’è qualcosa in quel vecchio che gli toglie la parola. Pensa confusamente che dovrebbe domandare, esprimere. Sono io che ho chiesto un appuntamento, no? Penserà che sono un fesso, si dice.
Si schiarisce la voce. Io, insomma, io sono venuto per… ecco, la chitarra va bene. Ma io vorrei pure… lo so che sono bravo. Cioè, me lo dicono, mi vengono a sentire. Ma io penso, penso che ci vuole qualcosa di piú, no? Ho un maestro, studio ancora, mi sono già diplomato, ma lo so che devo studiare sempre. Per questo vi ho cercato.
Il vecchio tossisce in un fazzoletto, una tosse catarrosa, grassa. Allunga la mano verso il tavolino, il ragazzo si alza di scatto e gli prende un bicchier d’acqua pieno a metà. Il vecchio beve, ringrazia con un cenno del capo e ripone il fazzoletto in una tasca della giacca da camera. Il ragazzo per la prima volta percepisce a livello cosciente l’odore di vecchiaia che c’è nella stanza: un retrogusto pungente sotto la carta vecchia, la polvere e il tempo.
Il vecchio fa scattare coi pollici le chiusure della custodia che, da quando se l’è fatta dare dal ragazzo, ha tenuto in grembo come fosse un bambino.
Il rumore è perfettamente sincrono, come se le serrature fossero una sola. Uno schiocco secco, uno sparo.
Le mani adunche e deformi tirano fuori il piccolo strumento panciuto. Gli occhi avidi del ragazzo si posano sulla curva dolce della cassa, sul manico intarsiato d’avorio e madreperla, sulle quattro coppie di corde. Si accorge di trattenere il fiato ed espira, un po’ rumorosamente. È davanti a una leggenda.
Il vecchio si sposta in avanti sulla poltrona, piegando appena una gamba e appoggiando con cura la custodia a terra. Le dita tremanti percorrono lo strumento e arrivano alle chiavi. Il ragazzo si accorge, incantato, che il vecchio sta regolando la tensione delle corde a memoria, senza sentirne il suono. Impossibile, pensa. È impossibile.
Il vecchio alza lo sguardo sul ragazzo. Ora il viso è in perfetta luce e il giovane può vedere il reticolo di rughe profonde, la carnagione scura come il cuoio, i pochi capelli bianchi troppo lunghi, le labbra sottili. Gli occhi imbiancati dalle cataratte e tuttavia curiosi, intensi.
Nella mano destra gli è comparso un plettro. Il ragazzo si chiede da dove sia venuto fuori, perché non ha visto che lo estraeva dalla custodia né dalle tasche: forse, pensa, era incastrato tra le corde. Il vecchio emette un accordo armonioso, dimostrando di aver incredibilmente accordato lo strumento alla perfezione. Il suono profondo resta a vibrare nell’aria per qualche secondo.
Il ragazzo prova a spezzare la tensione inspiegabile che sente addosso. Dice: Maestro, io volevo chiedervi di farmi qualche lezione. Lo so che non ne date a nessuno, che dite che non ci sono persone degne di… Che nessuno sa piú quello che significa suonare veramente lo strumento. Ma io, io veramente sono innamorato di questa musica, e vorrei… voglio imparare. Non cerco il successo, lo avete visto, ve l’hanno detto che mi vengono già a sentire in tanti. La gente si accontenta. Sono io che… Io non sono contento, Maestro. Studio, studio, suono, suono ma quello che viene fuori non mi piace mai. Io voglio imparare davvero, Maestro. Vi prego.
Il vecchio ha abbassato gli occhi sul complesso di legno e corde che tiene tra le mani. Accarezza l’oggetto, come se le parole del ragazzo fossero state quelle del vento che entra dalla finestra facendo vibrare i fogli sulla scrivania.
Una storia, dice il vecchio.
Che?, chiede il ragazzo, disorientato.
Una storia. Ogni canzone è una storia.
Il ragazzo pensa che il vecchio non lo abbia minimamente ascoltato e che stia seguendo il corso di qualche suo pensiero. È un vecchio, dopotutto. Un povero vecchio rimbambito. Non mi può insegnare niente, sto perdendo tempo. Ha una gran voglia di uscire da quella brutta bottega di antiquariato.
Mentre sta per alzarsi, il vecchio suona.
È l’introduzione di una canzone famosissima, una di quelle che lui, il ragazzo, suona ogni sera e che riscuote gli appassionati applausi della platea; gli stessi accordi, lo stesso tempo. Eppure al ragazzo sembra di ascoltarla per la prima volta. Le mani, quegli artigli malfermi e deformi, sono diventate ali d’uccello che percorrono il breve manico con la leggerezza dell’aria e l’intensità dell’acqua.
Alla fine dell’introduzione il vecchio si ferma, solleva gli occhi sul viso del ragazzo.
Tu suoni bene. Ma non sei soddisfatto e hai ragione a non esserlo, perché sei lontano, lontanissimo dal posto che devi raggiungere. Perché canti, ma non racconti.
Che volete dire, Maestro? Il testo? Devo migliorare l’espressione, devo…
Il vecchio ride, è rumore di carta vetrata su legno.
No, non solo il testo. Lo strumento, lo vedi? Lui racconta, e deve dire quello che dicono le parole della canzone. Non ti deve accompagnare, lo strumento: deve raccontare pure lui. Ha le sue parole, commenta quello che dici tu, lo sottolinea.
E canta per conto suo.
Il ragazzo ha paura anche di respirare, l’espressione uguale a un punto di domanda. Il vecchio ride ancora.
Tu la sai «Palomma ’e notte»? In realtà lo sai che dice?
La canzone che suona ogni sera, gli applausi, l’insoddisfazione dentro.
Forse no, Maestro. Forse non lo so.
Il vecchio annuisce. Bravo. Bravo. Cosí devi essere: umile. Tu sei un pezzo dello strumento, come le corde, come il legno di abete della cassa. Forse non lo so, ha detto. Hai sentito?
Parla con lo strumento, pensa il ragazzo. Ma che ci faccio, qui? Poi ricorda l’introduzione, e decide di restare fermo sullo sgabello.
Il vecchio parla come se raccontasse una favola a un bambino.
Lui tiene quarantacinque anni, lei ventisei. Gli scrive una lettera, dice che è innamorata di lui, innamorata pazza. Lui non sa che fare: è bella, è alta. Gentile. Gli piace assai. Ma lui, lui pensa di essere un vecchio. Pensa: non è il bene suo, questo amore. «Io» non sono il bene suo.
Glielo dice, ma lei continua: per me, decido io. Se non mi volete me lo dovete dire: io non ti voglio. Ma lui la vuole, eccome se la vuole; quindi non gliela può dire quella cosa, in coscienza. Ci pensa: come deve fare? È sera e alla finestra, mentre entra un’aria calda e dolce come adesso, si avvicina una palummella, una falena, attirata dalla fiamma della sua candela insonne.
A questo serve, una canzone. Una canzone racconta una storia. Una canzone entra in una storia e la cambia. Lui scrive una poesia, va da un amico suo musicista. E glielo dice cosí.
Il vecchio abbassa lo sguardo, accarezza lo strumento.
E canta, con una voce da giovane. Il ragazzo, mentre ascolta, pensa: no, non da giovane, da uomo. Un uomo di quarantacinque anni che parla a una ragazza.
Tiene mente ’sta palomma,
comme ggira, comm’avota,
comme torna n’ata vota
’sta ceroggena a tentà!
Palumme’, chist’è nu lume,
nun è rosa o giesummino,
e tu a fforza ccà vvicino
te vuo’ mettere a vulà!
Vattenn’ ’a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va’, palummella, e torna,
e torna a ’st’aria
accussí fresca e bella!
’O bbí ca i’ pure
mm’abbaglio chianu chiano,
e ca mm’abbrucio ’a mano
pe’ te ne vulè caccià?
(Guarda questa falena,
come gira, come svolazza,
come torna un’altra volta
a tentare questa candela!
Farfallina, questo è un lume,
non è rosa o gelsomino,
e tu per forza qua vicino
ti vuoi mettere a volare!
Vattene da là!
Vattene, pazza!
Va’, farfallina, e torna,
e torna a quest’aria
cosí fresca e bella!
Lo vedi che anch’io
mi abbaglio piano piano
e che mi brucio la mano
per volerti cacciare via?)
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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