Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Anna Karenina di Lev Tolstoj. Il romanzo è pubblicato in Italia, tra gli altri, da Rizzoli con un prezzo di copertina di 11,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 0,99.
Anna Karenina: trama del libro
Anna è giovane, bella e sposata a un uomo che non ama: quando incontra Vronskij, brillante ufficiale, con spavento e gioia se ne scopre attratta. Per Vronskij lascia marito e figlio, ma allo spegnersi dell’amore di lui si rifiuta di tornare sui propri passi e decide da sé quale dev’essere la fine. Il contraltare di Anna è il tormentato Levin, che cerca la sua strada lontano dal mondo aristocratico da cui proviene, nella semplicità della terra, nella fede. Nella vasta architettura del romanzo, Tolstoj osserva i suoi personaggi – Levin in cui mise così tanto di sé, l’amatissima Anna – mentre si muovono alla disperata ricerca di quei pochi, intensi spiragli di luce e di felicità che la vita concede agli uomini e alle donne. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta a Mosca nel 1878.
Tutto era sossopra in casa degli Oblònskije. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva avuto un legame con una governante francese ch’era stata in casa loro, e aveva dichiarato al marito che non poteva vivere con lui nella stessa casa. Quella situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente e dagli stessi coniugi, e da tutti i membri della famiglia, e dai familiari. Tutti i membri della famiglia e i familiari sentivano che la loro coabitazione non aveva senso e che le persone incontratesi per caso in una locanda erano più unite fra loro che non essi, membri della famiglia e familiari degli Oblònskije. La moglie non usciva dalle stanze; il marito non era in casa da tre giorni; i bimbi correvano per tutta la casa come sperduti; la signorina inglese s’era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto a un’amica, chiedendole di cercarle un nuovo posto; il cuoco se n’era andato via già il giorno prima durante il pranzo; la cuoca della servitù e il cocchiere s’erano licenziati.
Il terzo giorno dopo il litigio il principe Stepàn Arkàdjevic’ Oblònskij – Stiva, come lo chiamavano in società –, all’ora solita, cioè alle otto della mattina, si svegliò non nella camera di sua moglie, ma nel proprio studio, sul divano di marocchino. Egli voltò il suo viso grasso e curato sulle molle del divano, come desiderando di riaddormentarsi di nuovo per un pezzo, abbracciò stretto il cuscino dall’altra parte e si strinse ad esso con la guancia; ma a un tratto saltò su, si sedette sul divano e aprì gli occhi.
“Sì, sì, com’è stato?” pensava, ricordandosi un sogno. “Sì, com’è stato? Sì! Alàbin dava un pranzo a Darmstadt; no, non a Darmstadt, ma qualcosa d’americano. Sì, ma là Darmstadt era in America. Sì, Alàbin dava un pranzo su tavole di vetro, sì, e le tavole cantavano: Il mio tesoro,1 e nemmeno Il mio tesoro, ma qualcosa di meglio, e anche certe piccole caraffe, che erano poi donne” ricordava.
Gli occhi di Stepàn Arkàdjevic’ brillarono allegramente, ed egli si pose a pensare, sorridendo. “Sì, si stava bene, molto bene. Ancora molte altre ottime cose c’erano, ma non si possono dire a parole, e coi pensieri non si possono neppure esprimere da sveglio.” E osservando una striscia di luce che s’era fatta strada da un lato di una delle portiere di panno, egli tirò giù allegramente i piedi dal divano, trovò con essi le pantofole ornate di marocchino dorato cucitegli dalla moglie (come regalo per il suo giorno natalizio, l’anno passato) e, per un’abitudine vecchia di nove anni, senz’alzarsi, allungò il braccio verso il luogo dove nella stanza da letto era appesa la sua veste da camera. E allora si ricordò a un tratto come e perché dormiva non nella camera della moglie, ma nello studio; il sorriso sparì dal suo volto, egli corrugò la fronte.
«Ah, ah, ah! Aa!…» muggì, ricordando tutto quello ch’era stato. E alla sua immaginazione si presentarono di nuovi tutti i particolari del litigio con la moglie, l’irrimediabilità della sua posizione, e più tormentosamente di tutto la sua propria colpevolezza.
“Sì! Ella non perdonerà e non può perdonare. E quello che c’è di più terribile è che la colpa di tutto sono io, la colpa sono io, ma non sono colpevole. Appunto in questo sta tutto il dramma” pensava egli. «Ah, ah, ah!» aggiungeva con disperazione, ricordando le impressioni per lui più penose di quel litigio.
Più spiacevole di tutto era stato quel primo momento, quando egli, tornando da teatro, allegro e contento, con un’enorme pera in mano per la moglie, non trovò la moglie in salotto, con suo stupore non la trovò neanche nello studio e, finalmente, la vide in camera con in mano il disgraziato biglietto che aveva fatto scoprire tutto.
Lei, quella Dolly eternamente preoccupata e affaccendata, e di mente ristretta, come egli la stimava, sedeva immobile col biglietto in mano e lo guardava con una espressione di orrore, di disperazione e d’ira.
«Cos’è questo?» domandava ella, mostrando il biglietto.
E a questo ricordo, come capita spesso, tormentava Stepàn Arkàdjevic’ non tanto il fatto in sé, quanto il modo con cui egli aveva risposto a quelle parole della moglie.
Gli era accaduto in quel momento quello che accade alle persone quando vengono a un tratto convinte di qualcosa di troppo vergognoso. Non aveva saputo preparare il suo volto per la situazione in cui veniva a trovarsi dinanzi alla moglie dopo la scoperta della sua colpa. Invece di offendersi, di negare, di giustificarsi, di chieder perdono, di rimanere perfino indifferente – tutto sarebbe stato meglio di quello che aveva fatto –, il suo volto del tutto involontariamente (“azioni riflesse del cervello” pensò Stepàn Arkàdjevic’, cui piaceva la fisiologia), del tutto involontariamente a un tratto aveva sorriso del suo solito, buono e perciò stupido sorriso.
Questo stupido sorriso egli non poteva perdonarselo. Visto questo sorriso, Dolly era rabbrividita come per un male fisico; era prorotta, con la foga che le era propria, in un torrente di parole crudeli, ed era corsa fuori dalla stanza. Da allora in poi non aveva più voluto vedere il marito.
“La colpa di tutto è quello stupido sorriso” pensava Stepàn Arkàdjevic’.
“Ma cosa fare mai? cosa fare?” si diceva egli disperatamente, e non trovava risposta.
II
Stepàn Arkàdjevic’ era un uomo sincero nei suoi propri riguardi. Non poteva ingannare se stesso e persuadersi che si pentiva della sua azione. Non poteva pentirsi ora di non essere – lui, bell’uomo di trentaquattro anni, facile all’amore – innamorato della moglie, madre di cinque bambini vivi e di due morti, ch’era d’un anno soltanto più giovane di lui. Si pentiva solo di non averlo saputo nascondere meglio alla moglie. Ma sentiva com’era penosa la sua situazione e compiangeva la moglie, i bambini e se stesso. Forse, egli avrebbe saputo nascondere meglio i suoi peccati alla moglie, se si fosse aspettato che questa notizia le avrebbe fatto tanto effetto. Su tale questione non aveva mai riflettuto con chiarezza, ma s’immaginava confusamente che la moglie già da lungo tempo indovinasse ch’egli le era infedele, e chiudesse un occhio. Gli pareva perfino che ella, essendo una donna esaurita, invecchiata, ormai brutta, senza nulla che la distinguesse, semplice, solo buona madre di famiglia, per senso di giustizia dovesse essere indulgente. Era accaduto proprio il contrario.
“Ah, è terribile; ahi, ahi, ahi! Terribile!” si ripeteva Stepàn Arkàdjevic’ e non sapeva trovare nulla. “E come tutto andava bene prima di questo, come vivevamo bene! Lei era contenta, felice dei bambini, io non le davo noia in nulla, la lasciavo libera di occuparsi dei bambini, della casa come voleva. È vero ch’è brutto che lei sia stata governante in casa nostra. È brutto! C’è qualcosa di triviale, di volgare nel fare la corte alla propria governante. Ma che governante!” (Egli ricordò con vivezza i furbi occhi neri di Mlle Roland e il suo sorriso.) “Ma del resto, finché ella era in casa nostra, non mi permettevo nulla. E il peggio di tutto è che ella è già… E ci voleva proprio tutto questo, come apposta! Ahi, ahi, ahi! Ma cosa fare, cosa fare?”
Una risposta non c’era, eccettuata quella risposta comune che la vita dà a tutte le più complicate e insolubili questioni. Questa risposta è: bisogna vivere delle necessità della giornata, cioè cercare l’oblio. Cercarlo nel sogno non è più possibile, almeno fino a stanotte; non si può più tornare a quella musica che cantavano le donne-caraffe; perciò bisogna cercare l’oblio nel sogno della vita. “Poi si vedrà” si disse Stepàn Arkàdjevic’ e, alzatosi, mise la sua veste da camera grigia foderata di seta azzurra, annodò le nappine e, presa aria a sazietà nella sua ampia cavità toracica, col solito passo fermo dei suoi piedi in fuori, che portavano così leggermente il suo corpo grasso, si avvicinò alla finestra, sollevò la portiera e suonò forte. Alla scampanellata entrò immediatamente il suo vecchio amico, il cameriere Matvjéj, portando il vestito, le scarpe e un telegramma. Dopo Matvjéj entrò anche il barbiere con gli arnesi per fare la barba.
«Ci sono carte dal tribunale?» domandò Stepàn Arkàdjevic’, dopo aver preso il telegramma e sedendosi davanti allo specchio.
«Sulla tavola» rispose Matvjéj, che guardò interrogativamente, con simpatia, il padrone, e, dopo aver aspettato un po’, aggiunse con un sorriso furbo: «Sono venuti da parte del padrone-vetturino.»
Stepàn Arkàdjevic’ non rispose nulla e guardò solo Matvjéj nello specchio; nello sguardo in cui s’incontrarono nello specchio si vedeva come si capissero l’un l’altro. Lo sguardo di Stepàn Arkàdjevic’ pareva domandare: questo perché lo dici? non sai forse?
Matvjéj mise le mani nelle tasche del suo giacchetto, portò indietro una gamba, e bonariamente, sorridendo appena, guardò in silenzio il suo padrone.
«Ho detto di venire quell’altra domenica, e che fino allora non incomodino voi e se stessi senza scopo» disse con frase evidentemente preparata.
Stepàn Arkàdjevic’ capì che Matvjéj voleva scherzare un po’ e attirare l’attenzione su di sé. Aperto il telegramma, lo lesse, correggendo con qualche congettura le parole che, come sempre, erano sbagliate, e il suo volto s’illuminò.
«Matvjéj, mia sorella Anna Arkàdjevna sarà qui domani» egli disse, arrestando per un momento la grassoccia mano lustra del barbiere, che apriva una via rosea fra le sue lunghe fedine ricciute.
«Sia lodato Iddio» disse Matvjéj, mostrando con questa risposta che capiva come il padrone il significato di quest’arrivo, cioè che Anna Arkàdjevna, la sorella amata di Stepàn Arkàdjevic’, poteva cooperare alla riconciliazione del marito con la moglie.
«Sola o col consorte?» domandò Matvjéj.
Stepàn Arkàdjevic’ non poteva parlare, giacché il barbiere era occupato col labbro superiore, e sollevò un dito. Matvjéj fece un segno col capo nello specchio.
«Sola. Bisogna preparare di sopra?»
«Annuncialo a Dàrja Aleksàndrovna;2 dove, ordinerà lei.»
«A Dàrja Aleksàndrovna?» ripeté Matvjéj come incredulo.
«Sì, annuncialo. E, ecco, prendi il telegramma: riferiscimi quello che dirà.»
«Volete provare» capì Matvjéj, ma disse solo: «Sissignore.»
Stepàn Arkàdjevic’ era già lavato e pettinato e stava per vestirsi, quando Matvjéj, camminando adagio con le scarpe che scricchiolavano, ritornò nella stanza col telegramma in mano. Il barbiere non c’era già più.
«Dàrja Aleksàndrovna ha ordinato di annunciare che parte. Che faccia pure come pare a lui, cioè a voi» disse, ridendo solo con gli occhi, e, messe le mani in tasca e inclinando il capo da un lato, fissò il padrone. Stepàn Arkàdjevic’ stette un po’ zitto. Poi un sorriso buono e un po’ pietoso comparve sul suo bel volto.
«Eh? Matvjéj?» disse, tentennando il capo.
«Non è nulla, signore, si farà» disse Matvjéj.
«Si farà?»
«Proprio così, signore.»
«Credi? Chi c’è di là?» domandò Stepàn Arkàdjevic’, sentendo dietro la porta il fruscio d’un vestito femminile.
«Sono io, signore» disse un’energica e piacevole voce, e dalla porta si mostrò il severo volto butterato di Matrjòna Filimònovna la njànja.3
«E allora, Matrjòna?» domandò Stepàn Arkàdjevic’, andandole incontro sulla porta.
Nonostante Stepàn Arkàdjevic’ fosse in tutto e per tutto colpevole dinanzi alla moglie e lo sentisse da sé, quasi tutti in casa, perfino la njànja, l’amica principale di Dàrja Aleksàndrovna, erano dalla sua parte.
«E allora?» egli disse tristemente.
«Voi, andateci, signore, confessatevi ancora colpevole. Forse Iddio lo concederà. Si tormenta molto, e a guardarla fa pietà, e poi tutto in casa va a rovescio. Bisogna aver pietà dei bambini, signore. Confessatevi colpevole, signore. Che fare! Se ti piace andarci sopra…»4
«Ma non mi riceverà mica…»
«E voi fate il vostro dovere. Iddio è misericordioso, pregate Iddio, signore, pregate Iddio.»
«E va bene, va’» disse Stepàn Arkàdjevic’, diventando rosso a un tratto. «Su, allora vestiamoci» si rivolse egli a Matvjéj e si levò risolutamente la veste da camera.
Matvjéj teneva già in mano la camicia preparata a collare, soffiando via qualcosa d’invisibile, e con evidente soddisfazione ne circondò il corpo curato del padrone.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore russo rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Lev Tolstoj.
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