Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’anno della morte di Ricardo Reis di José Saramago. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
L’anno della morte di Ricardo Reis: trama del libro
Nel 1936, mentre all’orizzonte si preannuncia la seconda guerra mondiale, scoppia la guerra di Spagna. In quello stesso fatidico 1936 muore Ricardo Reis, solo un anno dopo la scomparsa del suo inventore, Fernando Pessoa. Reis è infatti uno dei tanti eteronimi di Pessoa, che ne aveva immaginato l’ideale biografia (nato a Porto nel 1887, educato dai gesuiti, medico, espatriato per ragioni politiche in Brasile nel 1919) e gli aveva attribuito come poeta classicistiche odi oraziane, ma non gli aveva dato carne e sentimenti. Cosa che invece compie Saramago, che lo fa tornare dal volontario esilio in occasione della morte del suo creatore, gli fa aprire uno studio medico a Lisbona, gli fa vivere una vita sociale, gli fa avere due donne, la cameriera d’albergo Lidia e la giovane Marcenda, e un figlio, e prima di morire lo fa essere testimone di tragici eventi, filtro attraverso cui rileggere la storia della patria salazarista, allineata a fascisti, nazisti e falangisti in tutt’Europa.
In ebook L’anno della morte di Ricardo Reis (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Sono pochi quelli che scenderanno. Il vapore ha attraccato, hanno già montato la scaletta del boccaporto, cominciano ad apparire laggiù, senza fretta, i facchini e gli scaricatori, escono dal rifugio delle tettoie e garitte i finanzieri di servizio, spuntano i doganieri. La pioggia è diminuita, un nonnulla quasi. Si riuniscono in cima alla scala i passeggeri, esitando, come se dubitassero che lo sbarco sia stato autorizzato, forse ci sarà quarantena, o se temessero i gradini scivolosi, ma è la città silenziosa che li spaventa, può darsi che la gente sia morta e la pioggia stia cadendo solo per diluire in fango ciò che ancora è rimasto in piedi. Lungo il molo, altre imbarcazioni attraccate brillano fiocamente dagli oblò appannati, gli argani sono rami spogli di alberi, neri, le gru sono immobili. È domenica. Al di là dei capannoni del molo comincia la città scura, raccolta in facciate e mura, per il momento ancora difesa dalla pioggia, quasi che avvolta da una triste, alitante cortina di merletti, la città che guarda fuori con occhi svagati e sente gorgogliare l’acqua dai tetti giù per la grondaia, fino al basalto dei chiusini, al granito nitido dei marciapiedi, ai tombini pletorici, alzati taluni, se c’è stata piena.
Scendono i primi passeggeri. Spalle curve sotto la pioggia monotona, portano borse e valigette, e hanno l’aria sperduta di chi ha vissuto il viaggio come un sogno di immagini fluide, tra mare e cielo, la prua come un metronomo che sale e scende, l’altalena dell’onda, l’orizzonte ipnotico. Qualcuno porta in braccio un bambino che, dal silenzio, dev’essere portoghese, non gli è venuto in mente di chiedere dov’è, oppure glielo hanno detto prima, quando, perché si addormentasse in fretta nella cuccetta soffocante, gli hanno promesso una città bella e un vivere felice, un’altra favola, che a questi non sono andate bene le fatiche dell’emigrazione. E una donna anziana, che si impunta nell’aprire un ombrello, fa cadere la scatola di cartone verde che portava sottobraccio, a forma di baule, e contro le pietre del molo il cofanetto si è rotto, aperto il coperchio, saltato via il fondo, non conteneva nulla di valore, solo cose care, nastrini di stoffa colorata, lettere, fotografie che son volate via, perline che erano di vetro e si sono spaccate, gomitoli bianchi ora macchiati, uno è sparito fra il molo e la fiancata della nave, è una passeggera di terza classe.
Via via che mettono piede a terra, corrono a ripararsi, gli stranieri se la prendono con il temporale, come se fossimo noi i colpevoli di questo maltempo, sembra abbiano dimenticato che nelle loro france e inghilterre di solito è molto peggio, insomma, a questi tutto gli serve per disprezzare i paesi poveri, perfino la naturale pioggia, ragioni ben più valide avremmo noi di lamentarci e ce ne stiamo qui zitti, un maledetto inverno, questo, con quel ben di dio di terra strappata ai campi fertili, e come ne sentiamo la mancanza, con un paese così piccino. È già cominciato lo scarico dei bagagli, sotto i mantelli luccicanti i marinai sembrano stregoni incappucciati e in basso i facchini portoghesi si muovono con più disinvoltura, sarà per il berrettino con la visiera, per la giacca corta di tela cerata, quasi fusa insieme con la persona, ma così indifferenti al grande fradiciume da stupire l’universo, forse questo disprezzo dei conforti farà commuovere le borse dei viaggiatori, i portamonete come si dice adesso, e aumenterà con la compassione la mancia, popolo arretrato, con la mano tesa, ciascuno vende ciò che ha in sovrappiù, rassegnazione, umiltà, pazienza, magari continuassimo a trovare chi di tali mercanzie faccia commercio nel mondo. I viaggiatori sono passati alla dogana, pochi come si pensava, ma ci impiegheranno il loro tempo a uscirne, visto che sono tanti i fogli da riempire e tanto scrupolosa la calligrafia dei doganieri di servizio, magari i più rapidi si riposano proprio la domenica. Il pomeriggio si rabbuia e sono ancora le quattro, con un po’ più d’ombra si farebbe notte ma qui dentro è come se lo fosse sempre, le deboli lampadine accese tutto il giorno, alcune saltate, quella è così da una settimana e ancora non l’hanno sostituita. Le finestre, sporche, lasciano trasparire un chiarore acquatico. L’aria pesante odora di abiti bagnati, di bagagli inaciditi, della canapa dei sacchi, e la malinconia si diffonde, fa ammutolire i viaggiatori, non c’è ombra di gioia in questo ritorno. La dogana è un’anticamera, un limbo di passaggio, che sarà mai là fuori.
Un uomo brizzolato, risecchito, firma gli ultimi fogli, ne riceve le copie, se ne può andare, uscire, continuare in terra ferma la sua vita. Lo accompagna un facchino che non c’è bisogno di descrivere nei particolari, oppure dovremmo proseguire all’infinito l’esame, per non generare confusione nella testa di chi magari avesse necessità di distinguerli l’uno dall’altro, se ce n’è bisogno, poiché anche di costui dovremmo dire che è risecchito, brizzolato, e olivastro, e con il viso rasato, come si è già detto del precedente, eppure così differenti, passeggero l’uno, facchino l’altro. Questi carica la valigia grande su di un carrello di metallo, le altre due, piccole al confronto, se l’è appese al collo con una cinghia che gli passa dietro la nuca, come un giogo o il soggolo di un ordine monastico. Qua fuori, sotto la protezione dell’ampia pensilina, posa il carico per terra e va a cercare un tassì, di solito non è necessario, normalmente ce ne sono, all’arrivo dei vapori. Il viaggiatore guarda le nuvole basse, poi le pozzanghere nel terreno irregolare, le acque della darsena, sporche di olio, bucce, detriti vari, ed è allora che nota alcune navi da guerra, discrete, non pensava che qui ce ne fossero, dato che il posto adatto a questi natanti è il mare aperto oppure, se non è tempo di guerra o di esercitazioni, l’estuario, largo abbastanza per dare ancoraggio a tutte le squadre del mondo, come anticamente si diceva e forse ancora oggi si ripete, senza preoccuparsi di vedere di che squadre si tratta. Altri passeggeri stavano uscendo dalla dogana seguiti dai loro scaricatori, e in quella spuntò il tassì schizzando acqua da sotto le ruote. Si affannarono a spintoni gli aspiranti clienti, ma il facchino saltò giù dal predellino, fece un gesto ampio, È per quel signore, prova evidente di come perfino a un umile inserviente del porto di Lisbona, quando la pioggia e le circostanze sono favorevoli, è dato tenere nelle mani sobrie la felicità, in un istante concederla e toglierla, come Dio la vita, si crede. Mentre l’autista abbassava il portabagagli fissato sul retro dell’automobile, il viaggiatore domandò, e per la prima volta gli si notò un leggero accento brasiliano, Perché ci sono in darsena quelle navi, e il facchino rispose, ansando, stava aiutando l’autista a issare la valigia grande, pesante, Be’ è la darsena della marina, è stato per via del maltempo, le hanno rimorchiate qui l’altro ieri, se no magari disormeggiavano e si andavano a incagliare ad Algés. Arrivavano altri tassì, avevano tardato, o il vapore aveva attraccato prima dell’orario previsto, ora nello spiazzo c’era libero mercato, si era fatta banale la soddisfazione del bisogno, Quanto le devo, domandò il viaggiatore. Fuori tabella, quello che vuole dare, rispose il facchino, ma non disse qual era la tabella né il prezzo ordinario del servizio, confidava nella fortuna che aiuta gli audaci, anche se scaricatori, Ho solo denaro inglese con me, Ah, non importa, e sulla mano destra tesa si vide posare dieci scellini, monete che brillavano più del sole, alla fin fine l’astro regale era riuscito a vincere le nuvole che incombevano su Lisbona. Per via dei grandi pesi e delle commozioni profonde, la prima condizione per una lunga e prospera vita da facchino è avere un cuore robusto, di bronzo, altrimenti il suo padrone sarebbe già caduto steso, fulminato. Vuole ricambiare la troppa generosità, o almeno non rimanere in debito di parole, perciò aggiunge informazioni non richieste, le unisce a ringraziamenti non ascoltati, Sono cacciatorpediniere, signore, nostre, portoghesi, sono il Tago, il Dão, il Lima, il Vouga, il Tâmega, il Dão è quello più vicino. Nessuna differenza fra loro, si sarebbero anche potuti scambiare i nomi, tutti uguali, gemelli, dipinti di grigio-morte, inondati di pioggia, senz’anima viva sui ponti, le bandiere bagnate come cenci, con licenza e senza voler mancare di rispetto, ma comunque, abbiamo saputo che il Dão è questo, magari torneremo ad avere sue notizie.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore portoghese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a José Saramago.
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