Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’appartamento di Danielle Steel, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 19,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99.
L’appartamento: trama del libro
È un tranquillo sabato pomeriggio di primavera quando Claire, giovane designer di scarpe, trova la casa dei suoi sogni nel cuore di New York. Un meraviglioso loft al quarto piano di una ex fabbrica, nel quartiere emergente di Hell’s Kitchen: luminoso, con un soggiorno immenso e le caratteristiche pareti di mattoni rossi. Claire se ne innamora al primo sguardo, ma sa bene che quell’appartamento è infinitamente grande per viverci da sola. E così, un po’ per caso, un po’ per destino, nella sua vita entrano Abby, scrittrice in cerca d’ispirazione; Sasha, specializzanda in medicina; e Morgan, consulente finanziaria di successo a Wall Street. Le quattro giovani donne, che all’apparenza non hanno nulla in comune, portano tra quelle mura le loro speranze, le rispettive storie e carriere. Giorno dopo giorno, si trovano a condividere gioie, delusioni, successi e fallimenti, e quella convivenza improvvisata, pian piano, si trasforma in un’amicizia sincera. Claire, Abby, Sasha e Morgan si sentono parte di un’insolita grande famiglia. L’appartamento di Hell’s Kitchen diventa così l’angolo di pace necessario per inseguire i propri sogni. E il loro legame un porto sicuro dove trovare riparo e conforto per andare avanti. Sempre. Anche quando la vita separerà le loro strade. Quattro protagoniste forti e indipendenti, in una New York bella e volubile che fa sognare e, al tempo stesso, soffrire.
Faceva la stilista di scarpe per la Arthur Adams, un brand di calzature classiche e ultraconservatrici. Nulla da dire sulla qualità, naturalmente, ma, nonostante fossero ben fatte, non erano affatto estrose e soffocavano il suo senso creativo. Walter Adams credeva fermamente che le scarpe d’alta moda fossero un trend passeggero e scartava tutte le creazioni più innovative di Claire, trasformando così il suo lavoro quotidiano in una fonte di costante frustrazione. Gli affari prosperavano senza però crescere, come invece sarebbe accaduto se la giovane sognatrice avesse potuto osare di più. Walter tuttavia resisteva con tenacia a ogni proposta di cambiamento. Claire era certa che affari e profitti sarebbero migliorati se solo le avesse dato ascolto, ma il suo datore di lavoro, ormai settantaduenne, credeva unicamente nella vecchia linea di produzione e si rifiutava di cedere alla moda delle scarpe di lusso, malgrado il fervore con cui lei talvolta lo supplicava di osare.
Così, non restava che fare ciò che le era stato chiesto, pena la perdita del lavoro. Il sogno di Claire era creare una linea di scarpe sexy e di gran moda, ma purtroppo sapeva benissimo che fino a quando fosse stata alle dipendenze della Arthur Adams non c’erano speranze. Walter detestava il cambiamento e così Claire doveva rassegnarsi a creare scarpe di foggia classica. Persino i modelli senza tacco erano troppo tradizionali per lei. Walter le aveva lasciato aggiungere un tocco di moderata eccentricità solo alla collezione di sandali estivi per le clienti che si recavano in vacanza agli Hamptons, a Newport, a Rhode Island o a Palm Beach. Ripeteva come un mantra che la loro clientela era composta in prevalenza da persone benestanti, conservatrici e di una certa età, che sapevano sempre cosa aspettarsi dal brand. Sebbene Claire gli avesse più volte suggerito di rivolgere l’attenzione a un target più giovane, Walter si era sempre rifiutato di darle ascolto, preferendo mantenere le abitudini consolidate. Inutile discutere. Anno dopo anno, le creazioni si susseguivano senza sorprese, senza guizzi di fantasia. Claire viveva questo stato di fatto con profonda frustrazione e si consolava unicamente al pensiero di avere un lavoro che, da quattro anni, le permetteva di mantenersi. Prima di arrivare alla Arthur Adams aveva lavorato per una linea di scarpe graziose ma a basso costo e di scarsa qualità. Purtroppo l’azienda era fallita dopo due anni. Quella in cui attualmente era impiegata puntava tutto sul pregio dei materiali e sul design tradizionale; fin quando avesse seguito le direttive, la griffe e lo stipendio sarebbero stati al sicuro.
A ventotto anni, Claire avrebbe gradito aggiungere almeno qualche tocco di eccentricità alla linea, osare qualcosa di nuovo. Non si dava facilmente per vinta alle resistenze del suo capo e così, a ogni creazione, cercava di aggiungere quel tocco di stile che la contraddistingueva, forte anche della consapevolezza di essere stata assunta grazie alle sue solide basi di designer in grado di creare scarpe confortevoli da indossare e semplici da produrre. Le calzature erano prodotte in Italia, in una fabbrica che aveva già collaborato con il primo fondatore e che si trovava a Parabiago, in provincia di Milano. Claire vi andava tre o quattro volte all’anno per discutere della confezione dei modelli. La ditta era tra le più affidabili e rispettate d’Italia e lavorava anche per collezioni più estrose della loro. Ogni volta che si recava in quel Paese, ammirava incantata quelle creazioni fantasiose e si chiedeva se mai avrebbe avuto la possibilità di disegnare scarpe che amava, un sogno che si rifiutava con caparbietà di accantonare.
Arrivò a destinazione tutta sudata, con i lunghi capelli biondi appiccicati al collo. Dopo nove anni si era ormai abituata a tutte quelle rampe che, come lei stessa sosteneva, l’aiutavano a mantenere le gambe in forma, in particolare quando indossava scarpe con i tacchi. Aveva trovato l’appartamento per caso, mentre gironzolava nei dintorni. A quei tempi alloggiava presso la casa dello studente della Parsons, sulla Undicesima Strada; un giorno, però, durante una passeggiata nel quartiere di Chelsea aveva proseguito verso nord, in quella che un tempo era una delle zone peggiori della Grande Mela ma che, pian piano, si era innalzata socialmente. Fino al Diciannovesimo secolo, Hell’s Kitchen aveva la fama di ospitare baracche e caseggiati popolari e di essere teatro di lotte fra bande e omicidi, prima fra italiani e irlandesi, in seguito tra i portoricani che vivevano in una condizione di guerra costante. La situazione era già migliorata ai tempi in cui Claire era arrivata da San Francisco per frequentare la scuola di design, la stessa dove la madre aveva studiato arredamento d’interni. Claire aveva sempre sognato di iscriversi a quell’istituto per specializzarsi in fashion design. Malgrado non nuotassero nell’oro, la madre aveva risparmiato ogni volta che le era stato possibile, e negli anni era riuscita a mettere da parte il necessario per farla ammettere e sistemarla, almeno per il primo anno, presso la casa dello studente.
Al secondo semestre, Claire si era messa in cerca di un appartamento; aveva sentito che nella zona di Hell’s Kitchen se ne trovavano, ma non era andata a dare un’occhiata fino a quel fatidico sabato pomeriggio di primavera. Hell’s Kitchen era un quartiere che si estendeva dalla Trentesima alla Cinquantesima, sulla West Side, e dall’Ottava sino all’Hudson; con gli anni era diventato famoso tra gli attori, gli sceneggiatori e i ballerini grazie alla sua vicinanza con il quartiere dei teatri, con il famosissimo Actors Studio, il Baryshnikov Arts Center e l’Alvin Ailey American Dance Theater. Gran parte degli edifici d’epoca era ancora in piedi, magazzini e fabbriche erano stati ristrutturati e suddivisi in appartamenti. Nonostante le modeste migliorie, il quartiere aveva mantenuto molto del suo stile originale e parecchi fabbricati avevano un aspetto ancora piuttosto malandato.
Quel giorno, mentre girovagava, aveva notato un cartello AFFITTASI su una finestra, e quella sera stessa aveva telefonato per avere informazioni. C’era un loft disponibile al quarto piano. L’edificio era una vecchia fabbrica dalla quale, una quindicina di anni prima, erano stati ricavati degli spazi abitativi; il vantaggio principale, quello che aveva acceso le speranze di Claire, era l’affitto bloccato. Il giorno dopo, quando era andata a visitarlo, era rimasta senza fiato per la vastità del locale. Il soggiorno era immenso e aveva le tipiche pareti di mattoni rossi; il pavimento di cemento era stato dipinto di un caldo color sabbia, c’erano quattro ampi spazi che potevano essere utilizzati come stanze da letto, due bagni puliti e moderni e una cucina essenziale arredata con mobili Ikea. Era infinitamente troppo grande per lei sola, ma era molto luminoso e soleggiato, in buone condizioni e in un edificio discretamente ristrutturato. L’affitto era due volte più caro di quello che si sarebbe potuto permettere ma, considerate le dimensioni, Claire non aveva voglia di andarci a vivere da sola. L’ingresso dell’edificio era piuttosto buio, la zona in sé non era ancora il massimo dell’affidabilità. Il proprietario le raccontò con orgoglio che una quarantina d’anni prima quella era stata una delle strade peggiori di Hell’s Kitchen, ma adesso la situazione era molto migliorata. Certo, la strada era ancora trascurata e aveva quell’impronta tipica di una zona industriale, ma il loft era favoloso. Le sarebbe bastato trovare una coinquilina per dividere l’affitto. Non parlò subito con la madre per evitarle inutili preoccupazioni sulla spesa, convinta che se avesse trovato qualcuno con cui abitare, avrebbe potuto spendere meno di quanto sborsava per la casa dello studente.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice newyorchese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Danielle Steel.