Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Aspettando i barbari di J.M. Coetzee. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 11,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 5% di sconto)
Aspettando i barbari: trama del libro
Per anni, il magistrato si è concentrato su poche, piccole cose quotidiane: l’amministrazione giudiziaria della sua cittadina di frontiera durante il giorno, la lettura dei classici la sera, gli scavi archeologici nel tempo libero. Per anni, ha applicato la legge senza mettere in forse la propria fedeltà all’Impero, senza consentire ad alcun dubbio di turbare le sue serate con gli amici, le sue notti con le prostitute. Per anni. Finché i barbari non cominciano a premere lungo la frontiera – o almeno, così dicono nella capitale; finché due di quei barbari non vengono catturati e torturati. Il magistrato, all’improvviso, si trova a confrontarsi con la realtà: con la violenza, con il pregiudizio, perfino con l’amore. E da suddito dell’Impero si trasforma in nemico, da giudice in imputato – senza mai avere la certezza di battersi per una causa giusta, o di resistere a una causa ingiusta: “Qualcosa mi ha guardato dritto in faccia e io ancora non la vedo”.
In ebook Aspettando i barbari (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Siamo seduti nella stanza migliore della locanda, davanti a un fiasco e a una ciotola di nocciole. Non parliamo del motivo per cui è venuto. È qui a causa dello stato di emergenza e tanto basta. Invece parliamo di caccia. Mi racconta dell’ultima battuta a cui ha partecipato: migliaia di cervi, di cinghiali, di orsi abbattuti. Talmente tanti che hanno dovuto lasciare lí a marcire una montagna di carcasse («un peccato»). Io gli racconto degli stormi di oche e di anatre che calano sul lago tutti gli anni nel periodo della migrazione e dei modi in cui li catturano gli indigeni. Propongo di portarlo a pesca una notte su una barca indigena. – È un’esperienza da non perdere, – gli dico, – i pescatori portano le torce e suonano i tamburi sull’acqua per spingere i pesci nelle reti che hanno gettato –. Annuisce. Mi racconta di un altro posto in cui è stato, sulla frontiera, dove mangiano certi serpenti come fossero una prelibatezza, e di un’enorme antilope che ha abbattuto.
Si muove a tentoni tra l’arredo che non conosce ma non si toglie gli occhiali scuri. Va a letto presto. Alloggia qui nella locanda perché è il posto migliore in città. Ho spiegato bene al personale che si tratta di un personaggio importante: – Il colonnello Joll è della Terza Divisione, – ho detto. – E la Terza Divisione oggi è la sezione piú importante della Guardia civile –. O almeno questo è quanto dicono le voci che ci arrivano con molto ritardo dalla capitale. Il padrone della locanda annuisce, le cameriere chinano la testa. – Dobbiamo fargli una buona impressione.
Porto la mia stuoia fuori, sui bastioni, dove la brezza notturna allevia un po’ il gran caldo. Al chiaro di luna intravedo le sagome di altri che dormono sui tetti piatti della città. In piazza, sotto gli alberi di noce, alcuni ancora parlano, mi giunge il mormorio della conversazione. Nell’oscurità balugina il fornello di una pipa, come una lucciola, svanisce, si riaccende. L’estate volge lentamente al termine. I frutteti gemono sotto il peso dei frutti maturi. L’ultima volta che sono stato nella capitale ero ancora ragazzo.
Mi sveglio prima dell’alba e passo in punta di piedi vicino ai soldati che si muovono e sospirano nel sonno; sognano le madri e le fidanzate. Scendo giú per le scale. Dal cielo mille stelle ci guardano. Siamo davvero sul tetto del mondo. Svegliarsi all’aperto, di notte, è abbacinante.
Sul cancello, la sentinella dorme profondamente, seduta a gambe incrociate, abbracciata al moschetto. La guardiola del facchino è chiusa, fuori c’è il suo carrello. Passo oltre.
– Non abbiamo alloggi speciali per i detenuti, – gli spiego. – Non c’è molta criminalità qui e in genere la pena consiste in una multa o in un po’ di lavoro forzato. Questa baracca è solo un magazzino collegato al granaio, come vede –. Dentro puzza di chiuso e di sporco. Non ci sono finestre. I due prigionieri stanno a terra, legati. Il tanfo viene da loro, è di urina vecchia. Chiamo la guardia. – Falli lavare, subito per favore.
Scorto il mio ospite nel granaio, che è fresco e buio. – Speriamo di fare tremila staia quest’anno dalle terre demaniali. Seminiamo una volta sola. Ma è stata una buona annata questa per noi –. Parliamo dei ratti e di come contenerne il numero. Quando rientriamo nella baracca c’è odore di cenere bagnata e i prigionieri sono pronti, inginocchiati in un angolo. Un vecchio e un ragazzo. – Li hanno presi qualche giorno fa, – dico. – C’è stata una razzia a una ventina di miglia da qui. È insolito, in genere si tengono alla larga dal forte. Questi due sono stati catturati dopo. Sostengono di non avere niente a che fare con la scorreria. Non so, forse dicono la verità. Se ci vuole parlare naturalmente posso aiutarla con la lingua.
Il ragazzo ha la faccia tumida e piena di lividi, non riesce ad aprire un occhio per quanto è gonfio. Mi accovaccio vicino a lui e gli do un buffetto su una guancia. – Stammi a sentire, ragazzo mio, – dico nel dialetto della frontiera, – ti vogliamo parlare.
Non reagisce.
– Fa finta, – dice la guardia, – in realtà capisce.
– Chi l’ha picchiato?
– Non sono stato io, – dice la guardia, – era già ridotto cosí quando è arrivato.
– Chi ti ha picchiato? – gli chiedo.
Non mi ascolta. Guarda fisso oltre la mia spalla, non la guardia, ma il colonnello Joll che le sta accanto.
Mi rivolgo a Joll. – Non deve aver mai visto niente del genere –. Accenno agli occhiali. – Dico gli occhiali. Penserà che sia cieco –. Ma Joll non risponde al mio sorriso. Davanti ai prigionieri evidentemente bisogna mantenere un certo contegno.
Mi accovaccio davanti al vecchio. – Padre, stammi a sentire. Vi abbiamo portati qui perché vi abbiamo presi dopo che è stato rubato il nostro bestiame. Una brutta storia. Sai che puoi essere punito per questo?
Si inumidisce le labbra con la lingua. È terreo, sfinito.
– Padre, lo vedi questo signore? È venuto qui dalla capitale. Sta visitando tutti i forti sulla frontiera. Il suo compito è scoprire la verità. Lui scopre la verità. Se non parli con me dovrai parlare con lui, capisci?
– Eccellenza, – dice. La voce è gracchiante, si schiarisce la gola. – Eccellenza, noi non ne sappiamo niente del furto. I soldati ci hanno presi e legati senza motivo. Senza motivo. Eravamo per strada, stavamo andando dal medico. Questo è il figlio di mia sorella. Ha una piaga che non si rimargina. Non siamo ladri. Fa’ vedere la piaga ai signori.
A fatica, con una mano e coi denti, il ragazzo comincia a srotolare le pezze che gli fasciano l’avambraccio. Gli ultimi giri, incrostati di sangue secco e di pus, sono incollati alla carne, ma lui solleva il bordo per mostrarmi il margine rosso vivo della ferita.
– Vede, – dice il vecchio, – non c’è niente da fare, non si rimargina. Lo stavo portando dal medico, quando i soldati ci hanno fermato. Tutto qui.
Vado via col mio ospite. Riattraversiamo la piazza. Tre donne ci oltrepassano, di ritorno dalla chiusa del canale con i catini del bucato sulla testa. Ci guardano incuriosite, col collo teso e rigido. Il sole picchia forte.
– Sono i primi prigionieri dopo tanto tempo, – dico. – È una coincidenza. Normalmente non avremmo avuto barbari da mostrarle. Il cosiddetto banditismo dopotutto non è cosí grave. Rubano qualche pecora o portano via da un convoglio qualche bestia da soma. A volte per rappresaglia siamo noi a fare un’incursione. Per lo piú sono gruppi di poveretti che vivono lungo il fiume con le loro piccole greggi. Vivono cosí. Il vecchio dice che erano venuti a cercare un medico. Forse è vero. Nessuno avrebbe portato un vecchio e un ragazzo malato in una scorreria.
Mi rendo conto che li sto difendendo.
– Naturalmente non si può esserne certi. Ma anche se mentono, che spera di tirare fuori da due poveretti come quelli?
Cerco di vincere l’irritazione che mi creano i suoi impenetrabili silenzi e la ridicola aria di mistero di quegli schermi scuri che nascondono occhi sani. Cammina con le mani giunte davanti, come una donna.
– Comunque, – dice, – devo interrogarli. Stasera, se è possibile. Porterò con me il mio assistente. E poi avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti con la lingua. La guardia, per esempio. La parla?
– Riusciamo tutti a farci capire. Preferisce che io non ci sia?
– Si annoierebbe. Dobbiamo seguire una serie di procedure.
Le urla che la gente, in seguito, sosterrà di aver sentito provenire dal granaio, io non le sento. Mentre sbrigo le mie cose, quella sera, sono perfettamente, continuamente conscio di ciò che forse sta succedendo. Ho perfino l’orecchio teso per cogliere il suono del dolore umano. Ma il granaio è un edificio massiccio con pesanti porte e piccole finestre; sta dietro il mattatoio e il mulino, nel quartiere meridionale. E poi quello che prima era un avamposto e dopo un forte sulla frontiera è diventato un centro agricolo, una cittadina di tremila anime, in cui il rumore della vita, il rumore di tutta quella gente in una calda sera d’estate, non si ferma perché da qualche parte qualcuno grida. (A un certo punto comincio a perorare la mia causa).
Quando rivedo il colonnello Joll, appena ha un momento libero, porto la conversazione sulla tortura. – E se il suo prigioniero dice la verità, – chiedo, – e tuttavia gli succede di non essere creduto? Non è una condizione terribile? Pensi un po’, essere pronti a cedere, cedere e non avere piú niente da cedere. Essere ridotti allo stremo ed essere forzati a cedere ancora! Che responsabilità per l’inquisitore! Come fa a sapere se un uomo le ha detto la verità?
– C’è un tono particolare, – dice Joll. – Un tono particolare nella voce dell’uomo che dice la verità. L’allenamento e l’esperienza ci insegnano a riconoscere quel tono.
– Il tono della verità! Riesce a riconoscerlo nella normale conversazione? Riesce a capire se dico la verità?
È il momento di maggiore intimità che abbiamo avuto finora, lo scaccia con un lieve gesto della mano. – No, lei adesso mi fraintende. Mi riferisco a una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In principio mi dicono solo bugie, capisce… succede sempre cosí: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il crollo, ancora pressione e alla fine la verità. È cosí che si arriva alla verità.
Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. È questo che ricavo dalla mia conversazione col colonnello Joll. Con le sue unghie appuntite, i fazzoletti color malva e i piedi magri nelle scarpe di morbida pelle, continuo a immaginarmelo nella capitale, dove è chiaramente impaziente di tornare, nei ridotti dei teatri durante gli intervalli, mentre parla a bassa voce con gli amici.
(E d’altro canto chi sono io per asserire la mia distanza da lui? Bevo con lui, mangio con lui, lo porto a spasso, gli offro tutta l’assistenza richiesta dalla lettera di incarico e anche di piú. L’Impero non impone ai suoi servitori di amarsi, ma solo di fare il loro dovere).
Il rapporto che ricevo da lui, nella mia veste di magistrato, è breve.
Durante il corso dell’interrogatorio sono emerse contraddizioni evidenti nella testimonianza del prigioniero. Messo di fronte a quelle contraddizioni il prigioniero si è infuriato e ha aggredito il funzionario che lo interrogava. È seguita una colluttazione durante la quale il prigioniero è andato a sbattere violentemente contro il muro. Ogni sforzo per fargli riprendere conoscenza è stato vano.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore sudafricano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a J.M. Coetzee.