Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Aspro e dolce di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 12,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Aspro e dolce: trama del libro
L’epopea di Erto e dei suoi abitanti narrata in prima persona da Mauro Corona, protagonista e sciamano. Uomini di foreste e bevute, donne di coraggio e fatica, femmine sciccose per rompere la solitudine di una sera, tra una sbronza e una rissa. La fantasia e la rabbia, la gioia di vivere, la festa e la morte riportate alla memoria in un’ennesima levata di bicchieri, brindisi alla vita, il duro e il dolce assaporati insieme. Autobiografia di un uomo, romanzo fatto di avventure, di beffe e di omeriche bevute, il libro è anche la storia di un intero paese distrutto e rinato, a suo modo, dalla catastrofe. Immancabile sfondo è la natura, madre e matrigna di uomini, animali, piante e rocce. Padre benigno e traditore quel vino amato e odiato, fiume viola che inganna la paura, riversato a litri in bicchieri sempre colmi e sempre vuoti come sono i giorni della vita.
Approfondimenti sul libro
In ebook Aspro e dolce (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 7,99 euro.
«Mi piace – rispose imperturbabile – se potessi salterei dentro una botte da dieci ettolitri piena di Merlot. Poi aprirei la bocca a livello del vino e incomincerei a bere. E mano a mano che il vino cala, mi abbasserei anch’io fino a inginocchiarmi.»
In tempi di carestia vinicola, Luiso sapeva essere anche ironico. Una volta, in piena estate, subito dopo l’ultima guerra, stava scaricando legna dalla teleferica di Valdapont. Due turisti di passaggio, a quei tempi piuttosto rari, lo notarono mentre, accaldato e stanco, beveva grandi sorsate d’acqua dalla fontana vicino alla chiesetta.
«Preziosa l’acqua, vero barba?» esordì uno con aria di presa in giro. Senza scomporsi, Luiso rispose: «Preziosa e buona, peccato non avere un po’ di vino per risparmiarla».
Di bevitori famosi in famiglia ce ne sono stati parecchi. Da Sepp Corona, un vecchio celibe e taciturno, allo zio Pinotto, dal nonno Felice a suo fratello Domenico Menin, morto sul Pal Piccolo, centrato da una granata mentre all’interno di una tenda divideva con i commilitoni una damigiana di vino. Questo episodio il nonno me lo ha raccontato più volte. Concludeva dicendo: «Morirono in otto».
E poi mio padre, mia madre e altri parenti più o meno stretti. Come si può dedurre, il terreno della tradizione bevereccia era assai fertile perché anche i nuovi rampolli della dinastia Corona fossero tentati dal calice. In famiglia di musicisti, è facile che figli e nipoti dei suonatori contengano in nuce il DNA della musica che li spingerà fatalmente tra le note.
Il primo approccio vinesco che ricordo in maniera affettuosa è stato con il Raboso. E, come succede con il primo amore, quel vino è rimasto per sempre a invecchiare con me, nella cantina degli affetti. Dietro casa nostra viveva in dignitosa solitudine Piuto Corona, un uomo sui sessant’anni, molto amico di mio nonno. Era un lavoratore infaticabile, un trattore umano che trascorreva le stagioni buone tra campi e prati e boschi. Teneva diverse mucche. Falciava e raccoglieva, dissodava e seminava, tagliava legna e mungeva, e, una volta conclusa la giornata, si concedeva a Bacco. Il nonno conosceva bene l’hobby serale dell’amico e, quando il sole andava a nanna dietro le costole del Borgà, si recava da lui. Accanto al fuoco di un enorme caminetto che ardeva anche d’estate, i due chiacchieravano, fumavano e bevevano scodelle di Raboso fino a tardi. Non ho mai saputo perché l’amico del nonno tenesse soltanto quel tipo di vino. Ma so per certo che, fino al giorno del Vajont, quando dovemmo andarcene dal paese, nella casa di Piuto non è mai entrato un solo bicchiere che non fosse di Raboso. Vino duro, denso, quasi oleoso, scuro, vino da ciòche, ma onesto, semplice, un vero amico. Il nonno e Piuto, certe sere, prendevano sbronze memorabili. Bevevano sempre dalle stesse scodelle senza mai lavarle. In questo modo, all’interno della terracotta veniva a formarsi la gròpola, una crosta violacea e compatta spessa un centimetro. Così, se all’inizio la scodella conteneva mezzo litro, dopo qualche anno ne conteneva la metà. Quasi ogni sera il nonno mi portava con sé dall’amico perché sovente aveva bisogno del mio braccio per tornare a casa. A volte, d’inverno, capitavano altri personaggi dal gomito facile. Raccontavano storie e bevevano mentre fuori nevicava. Piuto era un uomo semplice, di bontà e generosità grandi come montagne. Ma era un poco ingenuo e non conosceva bene il confine tra ciò che poteva essere utile a un bambino e ciò che poteva fargli male. Offrirmi una fetta di polenta e una scodella di latte o una sigaretta e una tazza di vino, per lui era la stessa cosa. Gli pareva naturale iniziarmi alla vita in quel modo, forse mi reputava già adulto. Così, a nove-dieci anni, nella fumosa stamberga di Piuto iniziai a mandar giù le prime dosi di Raboso. Ricordo bene il colore che rimaneva nella tazza. Era un rosso-blu intenso che non veniva via nemmeno sotto l’acqua corrente. E, sulle labbra, lasciava un alone violaceo, come quando si mangia mirtilli. Il nonno mi raccomandava di pulirmi bene prima di tornare a casa, altrimenti “la vecchia” accorgendosi dell’assaggio se la sarebbe presa con lui.
I due compagnoni erano capaci di stare a bere e chiacchierare fino oltre la mezzanotte e non di rado io m’addormentavo sulla panca di noce ipnotizzato da un paio di tazze di Raboso. Il buon Piuto non era un cinico incosciente che si divertisse a ubriacare i bambini. Anzi, voleva bene ai giovani. Mi offriva due o tre ciotole di vino perché dovevo fare sangue. E il nonno era d’accordo. Secondo loro ne avevo poco e il Raboso era un metodo infallibile per produrne di più. Alla terza scodella Piuto mormorava: «Pì nia canaj, che to su un dhòcol» (Ora basta bambino, sei ancora un capretto). Qualche volta arrivava la nonna che, vedendomi rosso e farfugliante, malediva i due e mi ordinava di rientrare immediatamente. Loro non le davano retta. Senza aprire bocca, Piuto versava una scodella pure a lei, che non rifiutava, perché anche mia nonna in ultima beveva, e poi vedeva morti dappertutto.
Il rito del Raboso serale a casa dell’amico andò avanti fino al 1962, quando in agosto mio nonno morì investito da un’automobile dalle parti di Belluno, dove si era recato a piedi in barba ai suoi ottantatré anni. Io continuai a frequentare Piuto perché gli volevo bene e mi parlava sempre del nonno. Accanto a lui mi sentivo adulto. Nonostante i miei pochi anni, Piuto mi affidava incarichi di responsabilità come condurre una vacca da Erto a Pineda o tenere la contabilità del latte sul libretto caseario. Il tutto sancito da una scodella di vino e qualche tiro di sigaretta. Era molto dispiaciuto della morte del nonno, non immaginava che lo avrebbe seguito di lì a poco.
Nel ’63, in ottobre, ci fu il disastro del Vajont, e Piuto, come molti altri, fu costretto a vendere le mucche e sfollare in un paese vicino. Chiuse la porta a doppia mandata con un sorriso. Contava di tornare presto. Invece, a metà novembre, morì all’improvviso per un colpo al cuore. La casa del Raboso rimase chiusa per sempre.
Verso gli anni Settanta, quel vino, assieme al Clinton, scomparve quasi del tutto dalle osterie. Almeno dalle nostre parti. Il mondo della montagna s’adattava alle nuove mode beverecce lanciate da imprenditori senza scrupoli che iniziarono a produrre miscugli letali per il fegato. A Erto arrivavano certi vini a tappo corona che hanno ucciso più gente che la diga del Vajont. Per fortuna molti di quei furbastri vennero smascherati e condannati e la caccia ai metanolisti è tuttora serrata. Da alcuni anni, infatti, anche nelle osterie di alta quota circola vino discreto.
Ultimamente è ricomparso pure il Raboso. Viene servito in tazze di terracotta e ciò mi fa ripensare ogni volta al vecchio Piuto che, più di quarant’anni fa, mi offriva lo stesso vino in scodelle simili. È passato molto tempo da allora e il mio palato si è reso un po’ più fino. Credo di aver assaggiato quasi tutti i tipi di vino esistenti in commercio. Ho bevuto di tutto, dal Brunello di Montalcino al migliore Cabernet, dal Tocai al Barolo, dal Merlot all’umile Clinton oggi quasi introvabile, e via di questo passo. Ne ho mandato giù una petroliera senza diventare (per ora) alcolista. Ma il mio vino, il vino della memoria, della nostalgia, quello che, come il suo colore, rimarrà indelebile nel ricordo è il vino del vecchio Piuto: il sanguigno, robusto, schietto Raboso.
Gente d’osteria
Dopo i primi assaggi nella casa del vecchio Piuto, stagione dopo stagione mi feci più grandicello. Noi ragazzi si lavorava nei campi, sui prati e al bosco, sempre dopo le ore di scuola. D’estate, invece, si sfacchinava a giornate piene sulle malghe. A casa mia bevevano tutti perciò il vino non mancava, anche se spesso era petrolio. Mio padre beveva, mio nonno pure e così sua moglie, la nonna Maria, e beveva anche Tina, la zia sordomuta, che quando era su di giri vedeva Giovanni da Pul attraversare l’aria cavalcando un asino che soffiava scintille. La mamma era sparita da tempo, nascosta in città sconosciute di varie nazioni, e non saprei dire se beveva anche lei o meno. Che beve lo posso affermare da quando è tornata e la vedo tutti i giorni persa nel tranquillo oblio degli anni e del bicchiere, e un po’ mi fa pena. Quando se ne andò, mio padre rimase solo con i fantasmi tipici dell’uomo abbandonato che non si rassegna: rabbia, gelosia, vendetta, inettitudine, senso d’impotenza e fallimento. Sentimenti da annegare nel vino. Così, ogni sera mi toccava girare per le osterie del paese e trascinarlo a casa, perché il vecchio assieme ai compagni di sbronze la tirava per le lunghe. Era la nonna che mi pregava di andare a recuperare il figlio degenere, sapeva che se lo avesse fatto lei ne avrebbe sentite di ogni colore. Ma, nonostante le mie cautele, il genitore se la prendeva anche con me e, incurante della timidezza dei miei pochi anni, tirava fuori battute sarcastiche che mi facevano piangere e sprofondare sottoterra, mentre facevano ridere i suoi amici. Qualcuno lo redarguiva, ma lui rispondeva che dovevo farmi le ossa. In quei momenti parecchi di quegli avventori mi parevano dei poveri idioti e col tempo incominciai a non fare più caso alle prese in giro e alle battute di mio padre. E nemmeno alle risate fesse dei vari tonti sparsi fra i tavoli. Le osterie erano un’ottima scuola giacché mi offrivano l’opportunità di osservare la fauna umana dei bevitori e i loro comportamenti, mentre aspettavo che il genitore si decidesse a tornare a casa. Da quei personaggi ho imparato lezioni fondamentali che mi sono servite ad evitare certi errori e a farne molti altri quando anch’io, per annientare i miei problemi, misi mano al bicchiere.
Nelle attese d’osteria, ancora bambino, avevo il privilegio di osservare il bevitore rissoso, quello tranquillo, il tipo comico che raccontava barzellette, il taciturno. E i giocatori di carte, che quasi sempre venivano alle mani. Ricordo un tipo non molto alto, tarchiato, dalla forza erculea. Per dimostrarla a tutti, afferrava il polso del più vicino con la mano destra e glielo stringeva fino a quando il malcapitato si inginocchiava dal dolore. «Se voglio – ripeteva ogni volta – stringo finché vi esce acqua dalle ossa.» Ma una sera Celio non gradì la presa e lasciò partire un destro a colpo di maglio che fece stramazzare lo stringitore come un sacco di patate. Nella caduta trascinò con sé anche Celio, perché la presa era davvero tenace e non venne meno neanche sotto il colpo del KO. Quando si riebbe, Celio lo guardò con occhio fermo e disse: «Vedi? Ognuno ha il suo tipo di forza».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona. Qui potete trovare il nostro articolo dedicato a tutti i libri di Mauro Corona.
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