Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La bambina che amava Tom Gordon di Stephen King, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
La bambina che amava Tom Gordon: trama del libro
“Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare”. Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni. Alle dieci di una mattina di giugno era sul sedile posteriore della Dodge Caravan di sua madre con addosso la sua maglietta blu dei Red Sox (quella che ha 36 Gordon sulla schiena) a giocare con Mona, la sua bambola. Alle dieci e mezzo era persa nel bosco. Alle undici cercava di non essere terrorizzata, cercava di non pensare: ‘Questa è una cosa seria, questa è una cosa molto seria’. Cercava di non pensare che certe volte a perdersi nel bosco ci si poteva fare anche molto male. Certe volte si moriva.
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Tutto perché avevo bisogno di fare pipì, pensò… quando poi il bisogno non era così terribile e in ogni caso avrebbe potuto chiedere a mamma e a Pete di aspettare un minuto mentre lei andava dietro un albero. Stavano litigando di nuovo, sai che novità, ed era per quello che era rimasta un po’ indietro e senza fiatare. Era per quello che aveva lasciato il sentiero e si era messa dietro un cespo di vegetazione bella alta. Aveva bisogno di un attimo di respiro, ecco. Era stanca di sentirli bisticciare, stanca di fare la spensierata sempre di buonumore, quando era lì lì per gridare a sua madre: E lascialo andare, allora! Se ci tiene tanto a tornare a Malden e a stare con papà, perché non lo lasci andare senza tante storie? Ce lo porterei io se avessi la patente, se non altro per avere un po’ di pace e tranquillità! E poi? Che cos’avrebbe detto sua madre? Che faccia avrebbe fatto? E Pete. Era più grande, quasi quattordici anni, e non era stupido, allora perché era così cocciuto? Perché non lasciava perdere? Piantala di rompere, avrebbe voluto dirgli (a tutt’e due, volendo); piantatela di rompere!
Il divorzio era stato un anno prima e sua madre aveva ottenuto l’affidamento. Pete si era opposto a lungo e con forza al trasferimento dalla zona di Boston al Maine meridionale. In parte era per il suo desiderio di restare con papà e quella era la leva che sempre usava con la mamma (capiva per chissà quale infallibile istinto che era quella che poteva conficcare più a fondo e su cui poteva esercitare più pressione), ma Trisha sapeva che non era l’unica ragione e nemmeno la più importante. Il motivo vero per cui Pete voleva andarsene era che odiava la Sanford Middle School.
A Malden si era costruito il suo nido su misura. Dirigeva il computer club come se fosse il suo regno personale, aveva i suoi amici, tutti piattole, sì, ma giravano in gruppo e i bulli li lasciavano stare. Alla Sanford Middle non c’era nessun computer club e si era fatto un solo amico, Eddie Rayburn. Poi in gennaio Eddie se n’era andato, vittima anche lui di una rottura tra genitori. Così Pete era diventato un solitario, un bersaglio predestinato. Tant’è che parecchi gli ridevano dietro. Gli avevano anche rifilato un soprannome che detestava: CompuWorld.
Il fine settimana, quando lei e Pete non tornavano a Malden da papà, il più delle volte la mamma li portava in gita. Era una fissazione, la sua, e per quanto Trisha desiderasse con tutto il cuore che le passasse quella mania – era giusto durante le gite che scoppiavano i litigi peggiori – sapeva che non c’era niente da fare. Quilla Andersen (aveva ripreso il suo cognome da nubile e c’era da scommettere che a Pete non andasse giù nemmeno quello) aveva il coraggio delle sue convinzioni. Una volta, quand’era a Malden a casa di papà, Trisha lo aveva sentito parlare al telefono con il nonno. «Se Quilla fosse stata a Little Big Horn, gli indiani avrebbero perso», aveva detto e sebbene a Trisha non piacesse quando papà parlava della mamma in quel modo, le sembrava infantile oltre che sleale, non poteva negare che ci fosse un bruscolo di verità in quella particolare osservazione.
Negli ultimi sei mesi, mentre i rapporti tra Pete e la mamma non facevano che peggiorare, erano stati al Museo dell’Automobile a Wiscassett, allo Shaker Village a Gray, al New England Plant-A-Torium a North Wyndham, alla Six-Gun City a Randolph, nel New Hampshire, in canoa sul Saco River e a sciare a Sugarloaf (dove Trisha si era slogata una caviglia, un infortunio sul quale, dopo, mamma e papà si erano presi a urlacci; ma che bel divertimento che è il divorzio, che grande spasso!).
Qualche volta, quando il posto gli piaceva davvero, Pete faceva riposare la bocca. Aveva definito Six-Gun City «per neonati», ma la mamma gli aveva permesso di trattenersi per quasi tutta la durata della visita nella stanza dei giochi elettronici e Pete era tornato a casa non proprio felice ma almeno silenzioso. Se invece un posto di quelli che la mamma aveva scelto non gli piaceva (quello che di gran lunga gli piaceva meno era stato il Plant-A-Torium; tornando a Sanford quel giorno era stato particolarmente scontroso), manifestava con generosità la sua opinione. «Far buon viso a cattivo gioco» non era nella sua natura. Né in quella della mamma, presumeva Trisha. Lei viceversa trovava che fosse una filosofia eccellente, ma naturalmente chiunque la guardasse, la giudicava seduta stante figlia di suo padre. Qualche volta ne era indispettita, ma di solito le faceva piacere.
A Trisha non importava dove andavano di sabato e avrebbe accettato di ottimo grado una dieta invariata di parchi dei divertimenti e minigolf solo in quanto avrebbero ridotto al minimo quelle liti sempre più raccapriccianti. Ma mamma voleva che le gite fossero anche istruttive, cosicché eccoti il Plant-A-Torium e lo Shaker Village. Non fossero bastati tutti gli altri suoi problemi, Pete non sopportava che gli si cacciassero in gola supplementi culturali proprio di sabato, quando avrebbe preferito essere in camera sua a giocare a Sanitarium o Riven sul suo Mac. Una o due volte aveva manifestato la sua opinione («Che vaccata!» riassume bene il concetto) con tanto accanimento, che mamma lo aveva rispedito in macchina e gli aveva ordinato di starsene seduto e «composto» finché lei non fosse tornata con Trisha.
Trisha avrebbe voluto dire alla mamma che sbagliava a trattarlo come se fosse un bambino dell’asilo da mettere in castigo, un giorno o l’altro al loro ritorno avrebbero trovato la macchina vuota, perché Pete avrebbe infine deciso di tornarsene nel Massachusetts in autostop. Ma naturalmente non aveva fiatato. Era l’idea stessa di andare in gita il sabato a essere sbagliata, ma la mamma non l’avrebbe mai accettato. Alla fine di alcune di quelle escursioni Quilla Andersen sembrava invecchiata di almeno cinque anni, con solchi profondi ai lati della bocca e la mano che massaggiava in continuazione la tempia come se avesse mal di testa… ma non avrebbe desistito. Trisha lo sapeva. Forse se sua madre fosse stata a Little Big Horn gli indiani avrebbero vinto lo stesso, ma subendo perdite considerevolmente più alte.
La meta di quella settimana era una piccola frazione nell’angolo ovest dello stato, una zona attraversata dalla sinuosa Appalachian Trail in direzione del New Hampshire. La sera prima, seduta al tavolo in cucina, la mamma aveva mostrato loro le fotografie di una brochure. Vi si vedevano perlopiù allegri gitanti in marcia su un sentiero tra gli alberi o fermi in certi punti panoramici a proteggersi gli occhi con la mano e a scrutare al di là di vaste vallate boscose le vette, consumate dal tempo ma ancora imponenti, del tratto centrale delle White Mountains.
Pete, con un’espressione di noia galattica, si era rifiutato di riservare al pieghevole più di un’occhiatina. Per parte sua la mamma si era rifiutata di prendere nota della sua ostentata mancanza di interesse. Trisha, come diventava sempre più sua abitudine, aveva mostrato vivace entusiasmo. Da qualche tempo si vedeva come una concorrente a un gioco televisivo, quasi a farsela addosso per l’emozione al pensiero di vincere una batteria di tegami per la cottura senz’acqua. E come si sentivada qualche tempo? Come colla che tiene assieme due pezzi di qualcosa che si è rotto. Colla debole.
Quilla aveva richiuso il pieghevole e lo aveva girato. Sul retro c’era una piantina. Aveva indicato con il dito una serpeggiante linea blu. «Questa è la Route 68», aveva detto. «Lasceremo la macchina qui, in questo parcheggio.» Aveva posato il dito su un quadratino azzurro. Poi aveva percorso con il polpastrello una serpentina rossa. «Questa è l’Appalachian Trail, tra la Route 68 e la Route 302, in North Conway, nel New Hampshire. Sono solo sei miglia ed è classificato come Medio. Be’, c’è questo piccolo tratto al centro che è segnato da Medio a Difficile, ma non tanto da dover portare attrezzature da montagna.»
Aveva indicato un altro quadratino blu. Pete, con la testa appoggiata alla mano, guardava dall’altra parte. Si tirava con la base del palmo il lato sinistro della bocca in una smorfia di disgusto. Quell’anno aveva cominciato ad avere i foruncoli e sulla fronte gli luccicava un affioramento dell’ultima ora. Trisha gli voleva bene, ma certe volte, per esempio la sera prima al tavolo della cucina, mentre mamma spiegava l’itinerario, lo amava odiandolo. Avrebbe voluto dirgli di smetterla di fare il cacasotto, perché a quello si arrivava quando si voleva andare all’osso, come diceva papà. Pete voleva correre a Malden con il suo codino da adolescente tra le gambe perché era un cacasotto. Non gli importava della mamma, non gli importava di Trisha, non gli importava nemmeno se alla lunga, per lui, stare con papà potesse essere un bene. A lui importava di non dover mangiare in compagnia di nessuno sulla gradinata della palestra. A lui importava che all’adunata dopo la prima campanella c’era sempre qualcuno che gli gridava: «Ehi, CompuWorld! Come si sta sull’altra sponda?»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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