Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di Begin Again di Mona Kasten, romanzo edito il 6 marzo 2018 da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 17,50 euro (8,99 euro per l’ebook).
Begin Again: trama del libro
Nuovo nome, nuovo taglio di capelli, nuova città. Così Allie Harper, diciannove anni, è pronta a scrivere la sua storia, a un migliaio di chilometri di distanza dal suo passato, all’università di Woodshill, dove si è iscritta a Letteratura. Ma c’è ancora un tassello mancante per rendere davvero perfetto questo nuovo inizio: un alloggio. La ricerca si sta rivelando più difficile del previsto e Allie ha smesso di contare i tentativi andati male. Finché, all’ultimo appuntamento in agenda, finalmente arriva lei: la casa perfetta. Pulita, luminosa e accogliente. Peccato per la compagnia: con i suoi tatuaggi e l’aria strafottente, Kaden White è l’ultima persona con cui Allie vorrebbe condividere un appartamento.
E Kaden, dal canto suo, non vuole affatto una coinquilina, che lo tramortisca con tutte le sue chiacchiere da donna. Purtroppo per loro, però, le circostanze non lasciano altra scelta. Non resta quindi che arrendersi e stabilire immediatamente le tre regole fondamentali per la convivenza perfetta: niente sentimentalismi, nessun’interferenza nei fatti altrui e, soprattutto, nessun contatto fisico. Ma le regole sono fatte per essere infrante…
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Fissai il campanello.
Poi, con la testa piegata di lato, alzai il dito, ma lo ritrassi all’ultimo secondo. Serrai le labbra e strinsi il pugno, nella mia testa scorrevano ancora una volta gli avvenimenti degli ultimi giorni.
Avevo alle spalle estenuanti discussioni durate settimane con i miei genitori, 1.700 chilometri e un viaggio di venti ore. Ero arrivata a Woodshill due giorni prima, avevo pernottato in un ostello scadente e, dopo le prime ore in cui ero stata sul punto di fare dietro front, ora avevo la mente molto più chiara. Ce l’avevo fatta.
Ero davvero lì.
Peccato che l’inizio fosse andato in maniera decisamente diversa da come lo avevo immaginato. Naturalmente avevo dato un’occhiata da lontano alla mia nuova casa. Grazie a internet, conoscevo già le montagne dell’Oregon, le foreste e il campus universitario. Il giorno precedente, finiti gli incontri di orientamento per le matricole, avevo cominciato a visitare gli appartamenti che avevo individuato online. Una fatica inutile, perché fino a quel momento avevo trovato solo fregature. In ogni caso, finalmente ero nell’Oregon.
Libertà.
Negli ultimi mesi ero andata avanti solo grazie a quel pensiero. Finalmente avrei potuto costruire la mia vita, fare e disfare tutto a mio piacimento. I precedenti diciannove anni erano stati maledettamente soffocanti. A volte mi ero sentita come un uccellino che viene liberato dalla gabbia solo per pochi minuti al giorno affinché compia le sue acrobazie. Ammesso che possano definirsi acrobazie fare bella figura alle feste, sorridere educate e chiacchierare oziosamente con perfetti sconosciuti. In quello ero una vera artista. Oppure un uccellino estremamente limitato.
Per i miei genitori l’apparenza è sempre stata al primo posto. Colpi di sole perfetti, raffinati abiti all’ultima moda; sapevo sfoggiare a comando un sorriso impeccabile che accompagnava il tutto. Dovevo essere sempre ineccepibile, almeno esteriormente. Per questo, il primo atto d’ufficio come studentessa universitaria (a parte preparare qualche scatolone con le mie cose) era stato andare dal primo parrucchiere che avevo trovato per tagliarmi i capelli e tingerli. Per la prima volta da anni, tenevo i capelli mossi al naturale, cosa che mia madre aveva sempre profondamente disprezzato. Non sopportava che li avessi ereditati da mio padre. Per anni mi aveva trascinato ogni quattro settimane in uno di quei saloni d’élite dove ti guardano storto se la ricrescita supera il mezzo centimetro. Aveva insistito che mi tingessi i capelli biondo miele, per mettere in risalto i miei occhi dal colore indefinito, un misto tra grigio e verde. Fin da bambina dovevo alzarmi prestissimo la mattina per sottopormi alla tortura della piastra, in modo che le onde naturali fossero domate e i capelli setosi. Ma era arrivato il momento di dire basta. Non avrei mai più permesso a nessuno – men che meno a mia madre – di decidere il colore e la piega dei miei capelli!
Tutte le volte che le punte dei capelli, tagliati appena sotto le orecchie, mi sollecitavano le guance, ripensavo alla libertà appena conquistata. Il taglio era stato una sorta di primo passo in quella direzione, anche se può sembrare strano: mi sentivo una persona nuova.
Niente di tutto ciò però mi aveva aiutato a trovare un appartamento. Non avevo neppure fatto domanda per un posto nel dormitorio: non avevo nessuna voglia di svegliarmi un giorno e trovare mamma in camera mia che osservava tutto con aria schifata. Era bastato questo per spingermi a cercare un alloggio nei dintorni del campus, dove, almeno speravo, non mi avrebbe rintracciato in fretta. Il che però complicava tutto, come mi ero resa conto nell’ultimo giorno e mezzo.
A parte il fatto che avevo trovato solo poche camere disponibili per il giorno in cui avrei dovuto liberare il mio posto all’ostello, ogni singolo appartamento mi era sembrato un disastro.
Nel primo, il potenziale coinquilino era sembrato più interessato alla misura del mio reggiseno che alle mie cattive abitudini. Il pensiero di quel pervertito mi turbava ancora. Non era andata molto meglio con la giovane madre, che sprigionava un penetrante odore di fumo, e che mi voleva non solo come coinquilina, ma soprattutto come baby-sitter. Nell’appartamento numero sei avevo incontrato una coppietta che fin da subito mi aveva fatto senza remore avances esplicite. E tutti gli altri appartamenti erano irrimediabilmente sporchi oppure pieni di muffa. Non so perché, ma mi ero immaginata che la ricerca di un alloggio sarebbe stata più semplice.
Forse era proprio per questo che mi risultava così difficile suonare il campanello dell’ultimo appuntamento. Le lettere sul citofono, retroilluminate, si erano nel frattempo impresse sulla mia retina.
WHITE.
La mia ultima chance. Non avevo trovato altre offerte di affitto. Se non fossi riuscita a trasferirmi lì all’inizio della settimana seguente, mi sarei trovata per strada. Il semestre stava per cominciare e tutti i letti erano prenotati. Inoltre i prezzi continuavano a salire. Le sette notti nella camera a dodici posti mi costavano già una mezza fortuna. Avevo una somma di tutto rispetto sul conto, ma in realtà quei soldi non erano destinati a una squallida stanza con undici coinquilini e un bagno in comune per donne e uomini.
Avevo un assoluto bisogno di quell’appartamento; se non lo avessi ottenuto, avrei dovuto cercarmi una bella panchina nel parco, oppure dormire nella mia utilitaria. Non volevo tornare a Denver per nessun motivo. L’opzione di mollare tutto non esisteva. Avrei trovato una nuova casa, costasse quel che costasse, ed ero pronta anche a trascorrere qualche notte sotto le stelle. L’importante era non tornare a Denver. Feci un profondo respiro e suonai il campanello. Nell’attesa, inspirai a pieni polmoni l’aria della sera. Non avvertii quasi la pressione che andava aumentando nel mio petto.
Uno, due, tre, quattro, cinque…
Contavo in silenzio, a occhi chiusi.
Finalmente si udì un ronzio e lo scatto della serratura, feci un ultimo profondo respiro ed entrai.
Mr. K. White – non conoscevo ancora il suo nome di battesimo – nella mail aveva indicato che l’appartamento si trovava al secondo piano sul lato sinistro. Non avevo ancora messo un piede sulla scala che udii sopra di me il rumore di una porta che si apriva e subito dopo un mormorio sommesso, che si faceva sempre più distinto man mano che salivo.
«Il mio numero ce l’hai», sussurrò vellutata una voce femminile.
Un colpo di tosse. «Sai che…»
«Sì, certo, niente di impegnativo. Me l’hai fatto capire senza mezzi termini.»
E poi una specie di risucchio sospetto. Mi misi in ascolto. Ero abbastanza sicura che si trattasse di un bacio. Non feci in tempo a cercare conferme che dei passi mi vennero incontro sulle scale. Non mi ero accorta di essermi fermata. Ricominciai a salire con lo sguardo rivolto ai miei piedi con lo smalto blu e i sandali con il cinturino argentato. Uno dei pochi lussi che mi ero portata dietro. Ad alcune cose ero attaccata più di quanto volessi ammettere.
Un sospiro soffocato risuonò proprio accanto a me, e alzai la testa. Osservai di sfuggita la ragazza, suppongo che fosse uscita dall’appartamento che stavo per visitare. Lei non mi guardò neanche, oltrepassandomi con un sorriso ebete e trasognato. Le guance arrossate e i capelli spettinati indicavano che fino a poco prima era stata impegnata a fare ben altro.
Accidenti.
Salii gli ultimi gradini accigliata. Nessuna traccia di Mr. White. Mi incamminai titubante sul pianerottolo guardandomi intorno. All’estremità sinistra c’era una porta socchiusa. Doveva essere quello l’appartamento.
Aprii lentamente la porta e mi fermai indecisa sulla soglia.
Il corridoio era ordinato e c’era un guardaroba con appesa qualche giacca. Sul ripiano inferiore c’erano diverse paia di scarpe sportive, degli stivali Engineer e un paio di scarponi da montagna. Guardai tutto ammirata. La sfilza di scarpe indicava già una notevole varietà di interessi. Presi coraggio e feci un passo nello stretto corridoio. La vista del laminato chiaro mi confortò. Finalmente niente moquette. Mi tolsi precipitosamente i sandali e li misi accanto alle altre calzature. Se avevo imparato qualcosa nei giorni precedenti era che quel gesto faceva una buona impressione… anche se era consigliabile lasciar perdere nel caso di moquette luride.
«Scusa, vecchio mio!» risuonò una voce ovattata dalla stanza adiacente al corridoio. «È un’ora che cerco di farla sloggiare senza sembrare maleducato. Ma certe persone non capiscono le allusioni…»
Fiu! Sembrava un tipo simpatico.
La voce diventò più nitida. «Non c’è stato molto tempo per prendere un appuntamento, ma mi fa piacere che ce l’abbiamo fatta.»
Sentivo i suoi passi avvicinarsi.
«Se hai una ragazza con te, sono l’ultimo che darà giudizi. Almeno finché…»
Mr. White comparve sulla soglia, e non fu l’unico a restare sbigottito.
Inspirai rumorosamente.
La prima cosa che mi colpì fu il suo torace. L’addome nudo, tonico, muscoloso. La seconda furono i tatuaggi. Piegai involontariamente la testa di lato e li osservai sulla pelle abbronzata. Peccato non aver portato gli occhiali con me. Le lettere tracciate sugli avambracci mi risultavano sfuocate, e non sapevo cosa significassero gli anelli intorno al bicipite.
Lui si schiarì la voce e mi strappò dalla paralisi.
«Che diavolo vuoi?»
Lo fissai interdetta. Non era molto più grande di me, al massimo un paio d’anni, e aveva due occhi caldi, color caramello, un velo di barba e i capelli corti sulle tempie e più lunghi sulla sommità della testa.
Finalmente ritrovai la voce. «Sono venuta a vedere l’appartamento. Ci siamo scritti via mail», blaterai troppo precipitosamente, in preda all’agitazione.
Mr. White – nella mia mente continuavo a chiamarlo così, sebbene mi rendessi conto che era un’idiozia – piegò la testa e mi guardò con sospetto. «A. Harper…» mormorò. La sua mente sembrò mettersi a girare a tutta velocità. Mi squadrò da capo a piedi una seconda volta, poi il suo viso si fece torvo. «No.»
No? Come no? Ricambiai perplessa la sua occhiata critica, pronta a ribattere, ma lui ripeté: «No».
«Cosa significa no?» Mi misi a braccia conserte. «Ci siamo scritti eccome!»
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice rimandiamo i lettori al sito ufficiale di Mona Kasten.
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