Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Di bestia in bestia di Michele Mari. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 19,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Di bestia in bestia: trama del libro
Smarrita in una landa dominata dai ghiacci, una spedizione scientifica trova riparo da una tempesta di neve in un misterioso castello. Ma è Osmoc, il colto e raffinato padrone di casa innamorato alla follia della moglie defunta, a rappresentare il mistero più grande. Egli possiede una biblioteca sterminata e i libri sono il suo unico contatto col mondo, ma sembra nascondere qualcosa. Cosa accade quando ciò che viene raccontato da Osmoc davanti al tepore del fuoco sembra evocare ciò che sta accadendo tra le mura del castello, animando trabocchetti, passaggi nascosti e orride creature? Rifondando l’immaginario del romanzo gotico con una fantasia inarrestabile, Michele Mari affronta qui per la prima volta tutti i temi a lui cari: il doppio, i mostri e quella dannazione consapevole (che non prevede guarigione) chiamata letteratura.
Approfondimenti sul libro
In ebook Di bestia in bestia (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Il viaggio fu malagevole: perché avessero scelto Dièfzarca come sede per il congresso non si riusciva a capire. Si dovette andare in treno fino a Òpopa, poi in battello risalendo per tre giorni la corrente dell’Eidon fino a raggiungere l’estrema postazione di Eòreca: di qui, sempre verso Nord, ancora in treno per 250 miglia, destinazione Achécoa. Essendo chiusa per le recenti valanghe la strada che da Achécoa piega ad Est, fu necessario affidarsi alla piccola cremagliera della linea Apézanon-Teznèisa, che effettuando un tragitto piú lungo non ci portò a Sbènnumi in meno di due giorni. A Sbènnumi, minuscolo abitato ai piedi del Dúnai, trovammo ad attenderci la vettura del servizio di posta, che con nostra sorpresa si rivelò essere un’autentica diligenza del secolo scorso. Dai suoi finestrini guardavamo i ripidi fianchi delle montagne che ci apprestavamo a valicare, e che le bolle d’aria imprigionate da cent’anni nel vetro deformavano nelle maniere piú bizzarre. Valicato il massiccio, ci inoltrammo su una vettura simile alla prima nella regione montuosa dell’Apolefzéso, in quella stagione dell’anno interamente ricoperta di neve.
E finalmente arrivammo. Ma non a Dièfzarca. L’impiegato dell’agenzia doveva essersi confuso, perché non c’era dubbio, la ragione era dalla parte del vetturale: Dièfzeira diceva il biglietto, e a Dièfzeira ci aveva condotti. Mai sentito, né lui né alcuno dei curiosi che assistevano a quel battibecco sulla strada gelata, mai sentito parlare di Dièfzarca. Si fece avanti un uomo corpulento, con una grossa voglia color prugna su tutta la parte sinistra del volto: forse volevamo dire Dièfzora, spiegò, ma era a piú di cento miglia di distanza, e poi era un posto di bracconieri, cosa ci andavamo a fare? Accademia? Niente cademia a Dièfzora, solo concerie. Convincemmo il vetturale ad attendere nell’unica osteria del paese – Pesúmai restò a fargli compagnia vicino al grande camino acceso – finché io e la mia segretaria non fossimo riusciti a saperne di piú. Cosa si dicessero la signorina e quei barbari in quella terribile lingua non posso sapere, ricordo solo che al termine di ogni colloquio, per le vie come nelle case, ella si voltava verso di me con la medesima aria sconsolata.
«Non sanno, ma anche sapessero ho l’impressione che non farebbero assolutamente nulla per aiutarci. È gente strana, forse è meglio andar via…»
Il suo disagio era il mio, ma come capo della delegazione dovevo far mostra di intraprendenza.
«Avete chiesto dov’è la stazione piú vicina?»
«Ho paura che non sappiano affatto cosa sia un treno: ascoltatemi professore, torniamo indietro, il vetturale non avrà nulla in contrario a ricondurci a Mèmnesa».
«Dimenticate lo scopo del nostro viaggio, signorina. È in gioco una delle piú importanti rivoluzioni scientifiche degli ultimi anni, e non possiamo lasciarci scoraggiare da un semplice contrattempo. Su, provate con quello zoppo, mi sembra un po’ piú sveglio degli altri…»
Due ore dopo, tornando verso la locanda, ci sembrava già molto scoprire che Pesúmai non fosse stato ancora cucinato da quella stirpe di bruti.
«Non avremmo dovuto lasciarlo solo, non conosce una parola della loro lingua», ci eravamo detti; e invece, chissà in che modo, aveva avuto piú successo: ad appena sei miglia da lí – cosí indovinava dai mugolii di un giovane demente seduto anch’egli vicino al camino, per terra – viveva «un uomo della nostra razza» che parlava la nostra stessa lingua. Richiestone, il vetturale si era però rifiutato nella maniera piú categorica di condurvici, e cosí, se ben capiva, tutti i presenti. Solo il demente, che durante il resoconto di Pesúmai non aveva smesso un istante di fare meccanicamente su e giú con la testa, come a significare un assenso incondizionato, pareva disposto ad accompagnarci sul suo carro.
Ordunque eccoci sul carro traballante quando già calavano le ombre della sera, Pesúmai ed io adagiati sullo strame, la signorina Ebebléchei davanti, di fianco al conducente, il cui continuo ondeggiamento del capo pareva ora assecondare i sobbalzi del veicolo. Questo procedeva con lentezza esasperante nella landa nevosa, in direzione di un ripido dosso che formava il primo contrafforte di quello che di lí a poco si rivelò un vasto altopiano.
«Ascoltate»: la mia segretaria si era girata di scatto.
Era il demente. Con la bocca semichiusa (anche se il labbro inferiore, pendulo e straordinariamente carnoso, la faceva sembrare costantemente aperta) stava emettendo un lamento che, quasi impercettibile all’inizio, cresceva a poco a poco di intensità e pareva avvolgersi un attimo su se stesso prima di confondersi nel monotono cigolio del carro.
«Asterasteras… terasteraste… raste…»
Vedevo di sguancio il viso della signorina Ebebléchei, congesto dal freddo, aggrondarsi nello sforzo di cogliere un senso da quella serie confusa di suoni.
«…sterasterasmegateras…»
Poi la mia segretaria rabbrividí, ed io di riflesso, senza sapere bene perché.
teras terasticòn terasticòtaton
o mega terasticòn teras
teràton teras
teràton teras
xenie teras apòfeughe
teras apòfeughe
«Non ero sicura della traduzione», sarebbe stata in seguito la giustificazione addotta dalla nostra interprete per aver taciuto il significato di quella lugubre nenia. Ora so che i suoi scrupoli non avevano nulla a che fare con la filologia.
Il paesaggio offerto dall’altopiano non era molto diverso da quello che avevamo lasciato, solo un po’ piú roccioso. In effetti, giganteschi massi erratici (ma di che età, se a perdita d’occhio non si scorgevano rilievi piú alti dello stesso altopiano?) rompevano qua e là la monotonia del biancore nivale. Uno zoccolo dopo l’altro, la smunta alfana biondastra ci tirava faticosamente lungo il tratturo che a lasse diagonali metteva alla sommità del massiccio, e persino l’ansimar delle froge pareva scandire il murmure cupo del suo padrone incantato. Tale era il freddo che un’ora dopo, quando nella penombra fummo finalmente in vista di un edificio che da lontano dava l’impressione di un fortino moresco o di un’enorme casamatta, ci sentivamo come tre pezzi di ghiaccio, ma ancora di piú doveva agghiacciarci quanto – teatro il carro – si svolse subito dopo nello spazio di pochi secondi (tanto che a ripensarci mi chiedo se non si sia trattato di un’allucinazione, e non essere i brividi attuali se non la memoria del freddo di allora): ché voltato il capo di scatto, quasi per volubile perno interiore, il demente fissò sinistramente Pesúmai negli occhi – fu un attimo – quindi stirando la bocca in un ghigno deforme sillabò puerilmente nella nostra lingua ciò che su quelle labbra suonava a bestemmia: «Wuo-mo de la no-stra raz-za» diceva, ripetendo piú volte la frase come ne fosse oltremisura gratificato; poi, riportando con un altro scatto il capo nella posizione precedente, additò il castello (tale infatti si rivelava ben presto il fortino) accompagnando il gesto con un’ultima e sola parola: «Wuo-mo».
Per quanto tozzo e sgraziato, il castelletto che troneggiava isolato all’estremità occidentale dell’altopiano ci apparve fin dall’inizio come il nostro portus salutis, chiosò Pesúmai, che dopo essere restato qualche istante sovrappensiero soggiunse: «Conforme la tradizione, a questo punto la nostra guida dovrebbe rifiutarsi di accompagnarci piú oltre, e a noi toccherebbe perplessi colmare a piedi gli ultimi cinquecento metri che ci separano dall’enigmatica meta»: furono invece soltanto trecento (né ci fu verso di blandire il demente, che rifiutato qualsiasi compenso voltò senz’altro l’alfana e ripeté i suoi vestigi), anche se la neve alta fino al ginocchio ce li fece sembrare tremila. Agimmo affranti sul martello di bronzo del portone, e dopo una ragionevole attesa si aprí una porticina ritagliata in uno dei due colossali battenti. Se si aspettava un servo nano e gibboso Pesúmai rimase senza dubbio deluso. Fermo sulla soglia, aperto nella sua chiara normalità occidentale, l’uomo che era venuto ad aprirci, e che aveva tutta l’aria di essere il proprietario, si lasciava guardare dai tre viaggiatori irsuti di brina: era veramente l’«uomo della nostra razza», bello, urbano, cortese… (Quanto questa prima impressione, suggerita dal vigoroso contrasto del suo aspetto con l’ambiente circostante, avrebbe condizionato ai nostri occhi le successive immagini del nostro ospite, mi è ancor oggi difficile dire).
Osmoc – tale il suo nome – si dimostrò molto comprensivo, e dopo averci ristorato con un generoso cordiale al fuoco del camino di una sala a pianterreno seppe chiarire i nostri dubbî. Come temevo, dovemmo abbandonare subito ogni speranza di giungere a tempo per il congresso: Dièfzarca era infatti molto lontana, a non meno di sette giorni di mulo muschiato nel basso Apolefzéso, quasi a ridosso dei monti Leluzénai; Dièfzeira invece, il paese da cui provenivamo, era uno dei tre insediamenti umani dispersi nei duemilaottocento chilometri quadrati della Pepòreuca, la sterminata landa boreale rappresentata dalle carte geografiche, per puro spirito di completezza, in un compatto azzurrino slavato…
«Le lande del Nord», gemette Pesúmai mal simulando l’ansietà nel faceto, «le plaghe infinite oltre gli estremi e piú gelati mondi ove s’aggira formidoloso il Babúca, le cui orme volgono in isterica fuga lo Yeti…»
Osmoc sorrise.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michele Mari.
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