Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La biblioteca perduta dell’alchimista di Marcello Simoni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Newton Compton con un prezzo di copertina di 5,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 3,99.
La biblioteca perduta dell’alchimista: trama del libro
Quali misteri nasconde il Turba philosophorum, il libro segreto degli alchimisti? È la primavera del 1227 e la regina di Castiglia è scomparsa in modo misterioso. Strane voci corrono per il regno e alcuni parlano di un intervento del Maligno. L’unico in grado di risolvere l’enigma è Ignazio da Toledo, grande conoscitore dei luoghi e delle genti grazie ai suoi numerosi viaggi tra Oriente e Occidente e alla sua capacità di risolvere arcani e antichi misteri. A Cordoba, dove Ignazio viene convocato, incontra un vecchio magister che gli parla di un libro che tutti stanno cercando e che potrebbe dargli indizi sull’accaduto. Ma il giorno dopo verrà trovato morto avvelenato. Le ricerche del mercante di reliquie partono subito fino al rinvenimento del mitico Turba philosophorum, un manoscritto attribuito a un discepolo di Pitagora, che conserva l’espediente alchemico più ambito al mondo: la formula per violare la natura degli elementi. L’incontro poi con una monaca e con un uomo considerato da tutti un posseduto, ma in verità affetto da saturnismo, indirizzeranno Ignazio verso il castello di Airagne e dal suo misterioso signore, il Conte di Nigredo. Qui è custodito un terribile segreto, ma non sarà facile mettersi in salvo dopo averlo scoperto…
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Scese dal carro e abbassò il cappuccio che l’aveva protetto dal sole durante le ore più calde, scoprendo occhi scaltri e una barba da filosofo, e prese a passeggiare per il declivio senza perdere di vista le manovre dell’armata. L’unica destinazione possibile era una cittadella fortificata a poca distanza da Córdoba. Là avrebbe trovato quel che cercava, ne era certo, ma una simile intuizione lo inquietò, sebbene egli non cedesse facilmente alla suggestione. Era, al contrario, un uomo razionale, abituato a credere in ciò che poteva comprendere e a diffidare del resto. Strana attitudine per un mercante di reliquie.
Una voce lo distolse da quei pensieri. «Ti vedo preoccupato».
Guardò in direzione del carro. Aveva parlato suo figlio Uberto, seduto alla serpa con le redini strette nei pugni. Non più di venticinque anni, lunghi capelli neri e sottili occhi ambrati.
«Tutto bene». Ignazio scrutò di nuovo a valle. «Quei soldati recano le insegne di Castiglia, staranno senz’altro facendo ritorno al presidio di re Ferdinando III. Dobbiamo seguirli, voglio conferire con sua maestà prima che faccia notte».
«Stento a crederci. Non avrei mai immaginato di dover incontrare il sovrano».
«Abituati all’idea. Da due generazioni la nostra famiglia serve la casata reale di Castiglia». Ignazio abbozzò un sorriso amaro e non poté fare a meno di pensare a suo padre, che era stato notarius di re Alfonso IX. Veniva sfiorato di rado dal suo ricordo, e quando accadeva rivolgeva subito la mente altrove, per allontanare l’immagine di quell’uomo pallido e nervoso che aveva trascorso l’età adulta e la vecchiaia nel buio di una torre, a scribacchiare su pile di scartoffie. «Ti accorgerai ben presto come tale “privilegio” comporti più oneri che onori», disse sospirando.
Uberto si stiracchiò. «Ho udito molte voci su Ferdinando III. Dicono sia un fanatico religioso, motivo per cui viene chiamato “il San¬to”».
«E in nome della crociata contro i mori espande i suoi feudi verso mezzogiorno, portando guerra all’emiro di Córdoba…».
Ignazio tacque, attratto all’improvviso da un rumore di zoccoli al galoppo. Si voltò a oriente e vide un cavaliere che si stava avvicinando a spron battuto. «Willalme è tornato», e accennò un saluto nella sua direzione.
Il cavaliere li raggiunse, si arrestò davanti al carro e scese con un balzo da sella. «Ho perlustrato la strada principale e buona parte delle biforcazioni secondarie», esordì, pulendosi il viso e i lunghi capelli biondi dalla polvere. Dopo anni passati a vivere in Castiglia, il suo accento francese era quasi del tutto svanito. «Nessuno ci ha seguiti».
«Bene, amico mio». Ignazio gli pose la mano sulla spalla. «Assicura il cavallo al carro e sali. Ci rimettiamo in marcia».
Il francese obbedì. «Hai scoperto dove si trova l’accampamento del re?»
«Credo di sì», rispose l’uomo, accomodandosi vicino a Uberto. «Ci basterà seguire quella truppa». Indicò la fila di armati diretta verso il piccolo abitato. «Dobbiamo raggiungerlo al più presto. Quando farà buio, queste terre traboccheranno di predoni».
Ripresero il tragitto. Il carro scivolò lungo il declivio, traballando a ogni buca della carrareccia, e si inoltrò in una vegetazione sempre più fitta e ricca di palmizi, man mano che si avvicinava al fiume. Benché si fosse nei primi giorni di estate, una leggera foschia attutiva i colori di vigneti lontani.
I tre compagni seguirono l’itinerario battuto dai soldati e oltrepassarono il fiume attraverso un vecchio ponte di pietra sorretto da quindici arcate, appena in tempo per vedere gli armati scomparire dietro le fortificazioni dell’abitato. Prima che anche loro potessero entrare, la cancellata d’ingresso si richiuse.
Uberto frenò i cavalli e si guardò intorno. La vallata taceva. L’abitato sorgeva su una collina delimitata da un anello di cinta. In cima al rilievo svettava un castilloturrito, fra le merlature garrivano i vessilli reali.
In quel mentre un drappello di soldati sbucò dalla boscaglia e circondò il carro. Erano tutti vestiti alla stessa maniera, con usberghi di metallo, elmi muniti di nasale e sopravvesti rosse. Il più grosso e irsuto del gruppo si appressò alla vettura, armeggiando con una lancia. «Fermatevi señores! Questo è un presidio del re di Castiglia».
Ignazio, che aveva previsto una simile evenienza, fece cenno ai compagni di stare calmi, poi alzò le mani e scese dal carro. «Il mio nome è Ignazio Alvarez da Toledo. Sono un mercante di reliquie e mi trovo qui per espresso ordine di sua maestà, re Ferdinando III».
Si fece avanti un secondo soldato. «Non mi fido di questi ribaldi!». Sputò per terra e sguainò la spada. «Per me sono spie dell’emiro».
«Se così fosse, farebbero la fine di quelli», ghignò un terzo, indicando quattro cadaveri che pendevano dagli spalti.
Per nulla intimidito, Ignazio si rivolse al soldato irsuto, che a dispetto delle sembianze aveva l’aria di essere il più ragionevole. «Possiedo una missiva con tanto di sigillo regio a dimostrazione di quanto affermo». Indicò la propria bisaccia. «Se desiderate ve ne farò mostra».
L’armigero acconsentì, intimando il silenzio ai commilitoni.
Il mercante di Toledo gli porse un rotolo di pergamena, ma sicuro che nessuno fra loro sapesse leggere, soggiunse: «Controllate il sigillo, lo riconoscerete senz’altro».
Il soldato prese l’incartamento, sorvolò sulle righe d’inchiostro e fissò lo sguardo sul marchio impresso sulla cera. «Sì, è il sigillo regio». Restituì il documento e accennò un inchino. «Lorsignori perdonino la rude accoglienza, ma le truppe maomettane sono accampate a poca distanza e di tanto in tanto cercano di infiltrare le loro spie nel nostro presidio. Tranquillizzatevi, ora do segno di farvi entrare». Si voltò verso le mura e gesticolò in direzione di una torretta di legno situata presso l’entrata. Da quella postazione, una sentinella rispose agitando una fiaccola.
«Proseguite fino all’ingresso», grufolò il soldato, mentre scrutava per l’ultima volta i viandanti. «Quando sarete in prossimità, alzeranno il cancello e vi lasceranno passare. Benvenuti ad Andújar, l’antica città di Iliturgis».
Ignazio risalì sul carro e Uberto incitò i cavalli a proseguire.
Si lasciarono alle spalle la cinta esterna e proseguirono attraverso quello che fino a poco tempo prima era stato un fiorente centro agricolo e artigianale. Ai bordi delle strade sorgevano fabbricati di ogni tipo, tutti abbandonati e anneriti dal fuoco. Gli unici edifici che continuavano a dare segni di vita erano le taverne, davanti alle quali confabulavano crocchi di soldati ubriachi.
La plaza del mercado ospitava i bivacchi delle truppe tra cui alcuni soldati berberi, acquartierati distanti dalle milizie regolari. Uberto li osservò con curiosità. Indossavano un’uniforme leggera, ricoperta da un mantello con cappuccio, il burnus. Per quanto apparisse strano, quegli uomini appartenevano ai reparti cammellieri del Nord Africa.
«Non stupirti della presenza di guerrieri mori», Ignazio disse al figlio. «Il califfo del Maghreb si è alleato con Ferdinando III, perciò ha inviato rinforzi».
«Ma Ferdinando sta combattendo contro l’emirato di Córdoba. Perché un califfo maomettano dovrebbe aiutarlo?».
Ignazio si strinse nelle spalle. «Questa non è una guerra di religione, ma di interessi».
«Come ogni altra», commentò Willalme.
Quando erano ormai nelle vicinanze del castello, andò loro incontro un cavaliere in arnese con uno scudo decorato da uno stemma a croce fiorata. «Señores, non potete proseguire», ammonì, senza manifestare scortesia. «A meno che non abbiate un permesso».
«Ce l’abbiamo, mio signore», assicurò Ignazio. «Siamo attesi da sua maestà».
«Sarà mia cura accertarmene, quindi scortarvi al suo cospetto».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore di Comacchio rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Marcello Simoni.
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