Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Bruciare tutto di Walter Siti. Il romanzo è pubblicato in Italia da Rizzoli con un prezzo di copertina di 20,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Bruciare tutto: trama del libro
A chi apparteniamo? A quale legge ubbidiamo? Per un prete che significa, davvero, amare Dio? Questo si chiede don Leo nelle sue giornate divise tra oratorio, mensa dei poveri (che sono sempre di più anche nella Milano del nuovo skyline da bere e da mangiare), ripetizioni ai bambini in difficoltà, messe celebrate con confratelli molto diversi da lui. Un prete è un uomo mangiato, potato come una vigna; la vita privata di un prete sono gli altri e don Leo lo sa bene, mentre cerca risposte in un dialogo con un Dio che lo spia e lo ascolta dalla sua Onnipotenza ma risponde a strappi, con frasi ambigue e talvolta dispettose. Un Dio che sembra non riuscire mai a liberarsi dall’ombra del suo Avversario. In un’epoca in cui la sottomissione a Dio è diventata un tema geopolitico, Walter Siti scrive un romanzo che stordisce e lascia nudi di fronte al dolore e alle domande sul senso profondo della fede e del tempo che viviamo. Se è vero che siamo passati dall’epoca del desiderio a quella del bisogno, questo romanzo brucia tutto perché non tralascia nessun eccesso o contraddizione: l’assenza dei padri, la bellezza di chi sa ancora sperare, l’amore per corpi troppo nuovi. Non c’è pietà ma profonda, intima, pietas. Siti per la prima volta non partecipa come personaggio alla storia e lo fa con il suo libro più intenso, aperto, libero. Si può scrivere un grande romanzo su Dio senza fidarsi di lui, senza credere alla sua esistenza, e allo stesso tempo dare vita al religioso più vero e credibile dal Prete bello di Parise? Al lettore la risposta.
Approfondimenti sul libro
Bruciare tutto è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
«Dio, ricordami s-sempre che sono un mi-miserabile.»
Nessuno si è fatto male: è l’unica cosa che importa, l’applauso in banca gli brucia ancora le orecchie. Gira a sinistra verso il parchetto, «buondì don Leo, duve l’è che corre? l’Adua l’ha faa el cunili?». Ma il sangue c’è stato, sia pure poco, brillava sul pavimento di grès e colava dall’avambraccio del rapinatore, dalla manica che spasmodicamente stringeva; come il cane l’altro giorno in corso Garibaldi, «che ha fatto?», «si è spezzato la coda» – sangue vivo e rosso sul marciapiede mentre il padrone cercava di tamponarlo con una busta di plastica. Leo è arrivato a trentatré anni senza aver mai visto sanguinare nessuno, il che la dice lunga sulle sue convulse velleità d’azione – solo sacrifici virtuali, di notte, e il Cristo torchiato nella chiesa dell’Incoronata: la croce pesante che lo pigia e il mosto raccolto in boccali da angeli e santi. “Solo calcai il torchio: / con me non c’era nessuno: / calcavano su me tutti” dice un poeta a Leo molto caro, male interpretando un versetto di Isaia. La sua insegna sacerdotale.
Sale la rampa della parrocchia e don Fermo gli viene incontro: «già un giornalista ha telefonato ma gli ho risposto che non rilasci dichiarazioni, lo so che i giornalisti sono la tua bestia nera».
«Grazie, però t-ti giuro, nemmeno nel mio più se-egreto fòro interiore mi sono la-asciato vincere d-dalla…»
«Lo so, me l’immagino… al golden boy non gli ho detto niente, se no ci impianta su un atto unico.»
«Apprezzo, n-non sai quanto.»
«Adesso ti metti qualcosa nello stomaco e ti stai quieto, eh, ti conosco mascherina… non cominciare a macinarti i tuoi scrupoli come al solito… i vespri oggi li guidi tu, hai tre ore per rilassarti.»
O magari i vespri li guida l’Ersilia, in quel carrello cià di tutto, se lo trascina con le ruote mezze rotte pure in confessionale, ha paura che glielo rubano.
Ridono per allentare la tensione, due amici di età così diverse; Candido e Pangloss, il clown bianco e l’augusto, Chisciotte e Sancho. Prendono in giro l’Agnese che fa la comunione tutte le mattine perché così intanto si «mette qualcosa nello stomaco», il caffellatte dopo, usa l’ostia come Nexium. «Per giüstà el stòmegh», «rinfursà la cappella del stòmegh», la parrocchia è meglio del cinema. L’Adua dice «al stàmegh», fedele alle radici emiliane. Esce dalla cucina e chiede se va bene una bistecca con le patate.
«Sì, m-magari al sangue… ma come le v-viene in mente?»
Leo risponde sgarbato, non ha fame, fa un gesto arrogante di fastidio e va a chiudersi in camera. Come un adolescente abbagliato da se stesso, incapace di ringraziare per un’intenzione semplice di bontà: un cibo sostanzioso per rimediare allo spavento.
«Sono un montuoso imbecille.»
Dal punto di vista alimentare, Leo ha un passato di bastoncini e sofficini: mamma a tutto pensava meno che a cucinare. Al seminario di Venegono la mensa non si presentava malaccio ma era il tempo dei digiuni epici e mistici – gettando il cibo nel gabinetto per non farsene accorgere e non essere accusato d’orgoglio. Il morso interno, l’urlo esaltato della gioventù che pretende soddisfazione: mortificare la carne era un modo per imporre la propria risolutezza, dunque ancora una volta un modo sbagliato. (“Che sia fatta, Signore, non la mia ma la tua volontà.”) Nell’anno del tirocinio a Vimercate aveva mantenuto il fioretto di mangiare solo quello che distribuivano alle mense dei poveri; ma siccome il piacere si annida anche nel suo contrario, si era appassionato ai capellini in brodo con dentro un bicchiere di vino, come aveva visto fare da un ospite a Tricolore. Francesco d’Assisi, quando un cibo era troppo appetitoso, ci mischiava un poco di cenere per rovinarlo. Il primo anno qui a San Carlo Lwanga s’era ostinato a prepararsi tutte le sere (il pranzo lo saltava quasi sempre) un’orribile pasta che lui chiamava carbonara: sugli spaghetti sconditi metteva un uovo crudo e due cucchiaiate di piselli direttamente dal barattolo. Ma la desolazione dell’Adua fu tale, e anche don Fermo seppe essere su questo punto così eloquente («per amare Dio non è necessario odiarsi… non si deve confondere l’ascesi con l’amore») che il suo naturale gusto del cibo ebbe il sopravvento. Ora a un buon risotto (e a chi lo cucina) sa riservare la meritata gratitudine, «quando non sono a-agitato come una locusta». Gli piace bere, scherzare, nuotare («però in piscina si corre il rischio che»); la sua solida salute continua a sembrargli un’ironia («fatalità tremenda del mangiare!») ma ha imparato a tenersi questa sensazione per sé – per le sue letture e i suoi inferni.
“Non c’è naturalezza nel mio oscillare da un estremo all’altro.” Un giorno ha visto Ettore (il ventiquattrenne che Fermo ironizzando chiama il golden boy) sbucciare due uova sode sopra il secchio della spazzatura e mangiarsele senza nemmeno un piattino, ma anche senza un’ombra di ostentazione; come sarebbe riposante, ha sospirato ammirandolo Leo, non farsi un problema di ciascuno dei propri atti. Don Ettore (o Ettorino, data l’esile costituzione e i riccioletti che gli abbassano l’età) è il responsabile della pastorale giovanile in San Simpliciano – cioè in pratica si occupa dell’oratorio comune a tre parrocchie (San Simpliciano appunto, San Carlo Lwanga e Incoronata). Sport per i ragazzi, catechesi, teatro. Un entusiasta cronico, ben attrezzato per la gioia e per la retorica della gioia. L’anno scorso ha messo in scena un musical proprio sulla vita di padre Kolbe2 (Fare della vita un dono), impersonando lui stesso il protagonista.
Altro che padre Kolbe: i preti non sono padri di niente e di nessuno, non appartengono a nessun posto; il prete è un uomo mangiato, potato come una vigna; la vita privata di un prete sono gli altri, per un prete non c’è solitudine. Oggi, 25 gennaio, ricorre la conversione di san Paolo e Leo ha deciso che leggerà alla messa delle 18:30 un passo della Prima lettera ai Corinzi: “io sono l’infimo degli apostoli, anzi non sono degno neppure d’esser chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio… ma ho faticato più di tutti loro…”. A chi lo dici, fratello Paolo.
In chiesa cinque o sei anziane catechiste han già cominciato a inanellare avemarie, a quest’ora vengono solo i pensionati; Silvio il sacrestano sta sistemando le kenzie ai lati dell’altare, poi si danna su due candele che non vogliono accendersi. Appena scorge Leo gli va incontro e si lamenta di Mustafi, il postulante albanese a cui era stato chiesto di lucidare il bacile di rame per i battesimi e invece l’ha macchiato; «se litigate vi caccio via tutti e due» taglia corto Leo che subito si rimprovera della bruschezza. Si accosta alle oranti, ne assume il comando e recita con loro il salmo 23: «“il Signore è il mio pastore, nulla mi manca: / in pascoli verdeggianti mi fa riposare. / Mi conduce ad acque di ristoro, / rinfranca l’anima mia”». Al coro si aggiungono il Beppe e Totò, portando il freddo da fuori. Nessuno tra le panche ha ancora saputo la notizia, ma già il sospetto che la fama fosse corsa denotava immonda presunzione.
Finite le preghiere, il Beppe lo assedia con l’eterna cantilena sulla sua pensione rimandata da quella puttana della Fornero3 («voglio fare il nonno, andare al lago a pescare il persico… la mia Giuanuna l’è un po’ piangiolenta ma l’è brava»); Totò si apre la giacca – «don, sto bene con questa maglia? me l’ha messa mia sorella, mi ha detto stai bene con questa maglia» – poi se ne va contento dei cinque euro per la futura birra. I deboli di mente sono il prossimo più pregiato, la selvaggina più ambita dal cacciatore Gesù. A che serve leggere tanto, economia storia poesia? L’intelligenza è nemica della fede. Aprire, aprire, mai chiudere. «Fai di me quello che ti piace, Signore… se mi vuoi nelle tenebre, che tu sia benedetto.» Certo è comica, si prende in giro Leo, la superbia con cui mi sforzo di essere umile; ubbidire significa smettere di percepire il corpo come parte di sé. Fuori è già buio, sagome nere si destreggiano tra le sventagliate dei fari: uomini e donne sopravvissuti senza troppa difficoltà alla morte di Dio.
Dopo cena, finalmente, può ricostruire la scena della mattina, riproiettarsela in testa come si trattasse di un esercizio spirituale. Banca Popolare di Vicenza in fondo a corso Como, tra l’Hollywood e il Loolapaloosa; specchi che riflettono il benessere – lui è lì per controllare quanto gli sia rimasto sul conto dopo gli ultimi salassi, i prestiti “sulla parola” più masochisti che avventati. Di fronte c’è una palestra di lusso, si intravedono i leggins fosforescenti di quelli che fanno spinning al piano superiore; ma vicinissimo a Leo, tra il banco di consulenza e l’ingresso al caveau, un barbuto grida «fermi tutti o sparo… se no qui succede ’na strage». Leo non si è accorto di quando è entrato, le porte girevoli non dovevano bloccarlo? Ha tirato fuori un aggeggio corto tipo mitraglietta e il complice con una borsa sta chiedendo i soldi al cassiere; scoppia l’allarme violentissimo, spaventa più quello dei rapinatori; il complice taglia la corda, sono dilettanti, il barbuto afferra un tizio e gli punta la mitraglietta nella pancia. Intralcia l’ascensore con una sedia, il tizio trema come una foglia mentre l’altro si fa rosso urlando «voglio una macchina qui davanti, altrimenti l’accido!»; si crede in un film, la tragedia può precipitare per inesperienza. Con una voce che non sembra sua il tizio guaisce «io ciò due bambini… pigliati un altro» – poi, rivolto a Leo, «padre, mi aiuti lei».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore modenese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Walter Siti.
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