Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La casa degli spiriti di Isabel Allende. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La casa degli spiriti: trama del libro
Una saga familiare del nostro secolo in cui si rispecchiano la storia e il destino di tutto un popolo. Un grande affresco che, per fascino ed emozione, può essere paragonato, nell’ambito della narrativa sudamericana, soltanto a Cent’anni di solitudine di García Márquez. L’amore, la magia, il mistero, i sogni si mescolano alle violenze e agli orrori della guerra cilena che portò all’ascesa di Pinochet. Alle Tre Marie, splendida tenuta di proprietà di Esteban Trueba, si intrecciano le passioni dei diversi protagonisti: Clara, la moglie del proprietario, trascorre un’esistenza avvolta nei ricordi; Férula, sorella di Esteban, dedica la sua vita agli altri; Blanca è innamorata di un servo del padre, Pedro, che avrà parte nella guerriglia della rivoluzione; Alba, la nipote, dovrà invece affrontare la dittatura mentre Esteban scoprirà, proprio a causa dei tragici eventi politici del suo paese, di amare innanzitutto la sua famiglia.
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Era quella una lunga settimana di penitenza e di digiuno, non si giocava a carte, non si suonava musica che incitasse alla lussuria o all’oblio, e si osservava, nei limiti del possibile, la maggior tristezza e castità, nonostante proprio in quei giorni il pungolo del demonio tentasse con piú insistenza la debole carne cattolica. Il digiuno consisteva in morbide torte di pasta sfoglia, in saporiti fritti di verdura, in soffici frittate e in grandi formaggi portati dalla campagna, con i quali le famiglie ricordavano la Passione del Signore, guardandosi bene dall’assaggiare neppure il piú piccolo boccone di carne o di pesce, sotto pena di scomunica, come ripeteva padre Restrepo. Nessuno avrebbe osato disubbidirgli. Il sacerdote era provvisto di un lungo dito accusatore per indicare in pubblico i peccatori, e una lingua allenata a turbare i sentimenti.
– Tu, ladro che hai rubato il denaro del culto! – gridava dal pulpito segnalando un gentiluomo che fingeva di affannarsi a causa di un pelo sul suo bavero per non guardarlo in faccia –. Tu, svergognata che ti prostituisci sui moli! – e accusava donna Ester Trueba, invalida per via dell’artrite e devota alla Vergine del Carmine, che apriva gli occhi esterrefatta, senza sapere il significato di quella parola, né dove si trovavano i moli –. Pentitevi, peccatori, immonda carogna, indegni del sacrificio di Nostro Signore! Digiunate! Fate penitenza!
Travolto dall’entusiasmo dello zelo della sua vocazione, il sacerdote doveva contenersi per non entrare in aperta disobbedienza con le istruzioni dei suoi superiori ecclesiastici, scossi da ventate di modernismo, che si opponevano al cilicio e alla flagellazione. Lui era dell’idea di vincere le debolezze dell’anima con una buona frustata della carne. Era famoso per la sua oratoria sfrenata. I suoi fedeli lo seguivano di parrocchia in parrocchia, sudavano sentendolo descrivere i tormenti dei peccatori nell’inferno, le carni lacerate da ingegnose macchine di tortura, i fuochi eterni, gli uncini che trafiggevano i membri virili, i rettili ripugnanti che si introducevano negli orifizi femminili e altri molteplici supplizi che infilava in ogni sermone per seminare il terrore di Dio. Lo stesso Satana era descritto fin nelle sue intime anomalie con l’accento galiziano del sacerdote, la cui missione in questo mondo era di scuotere le coscienze degli indolenti creoli.
Severo del Valle era ateo e massone, ma aveva ambizioni politiche e non poteva permettersi il lusso di mancare alla messa che ogni domenica o festa comandata attraeva piú gente, affinché tutti potessero vederlo. Sua moglie Nivea preferiva intendersi con Dio senza intermediari, aveva una profonda sfiducia nelle sottane e si annoiava alle descrizioni del cielo, del purgatorio e dell’inferno, ma seguiva suo marito nelle sue ambizioni parlamentari, con la speranza che se avesse occupato un posto al Congresso, lei avrebbe potuto ottenere il voto femminile, per il quale lottava da ormai dieci anni, senza che le sue numerose gravidanze riuscissero a scoraggiarla. Quel Giovedí Santo padre Restrepo aveva spinto gli ascoltatori al limite della resistenza con le sue visioni apocalittiche e Nivea cominciò a sentire giramenti di testa. Si chiese se non fosse di nuovo incinta. Nonostante i lavacri con aceto e le spugnature con ghiaccio, aveva dato alla luce quindici figli, dei quali ne restavano vivi solo undici, e aveva motivo di supporre che già stesse entrando nella maturità, dato che sua figlia Clara, la minore, aveva dieci anni. Sembrava che fosse infine venuto meno l’impegno della sua stupefacente fertilità. Cercò di attribuire il suo malessere al momento del sermone di padre Restrepo quando l’aveva additata parlando dei farisei che pretendevano di legalizzare i bastardi e il matrimonio civile, minando la famiglia, la patria, la proprietà e la Chiesa, dando alle donne la stessa posizione degli uomini, in aperta sfida alla legge di Dio, che in merito era molto precisa. Nivea e Severo occupavano, con i loro figli, tutta la terza fila dei banchi. Clara era seduta accanto alla madre e questa le stringeva la mano con impazienza quando il discorso del sacerdote si dilungava troppo sui peccati della carne, perché sapeva che ciò induceva la piccola a visualizzare aberrazioni che andavano oltre la realtà, com’era evidente dalle domande che faceva e alle quali nessuno sapeva rispondere. Clara era molto precoce e aveva la dilagante immaginazione che ereditarono tutte le donne della sua famiglia dal lato materno. La temperatura della chiesa era aumentata e l’odore penetrante dei ceri, dell’incenso e della folla stipata contribuivano a estenuare Nivea. Desiderava che la cerimonia terminasse una volta per tutte, per tornare nella sua casa fresca, per sedersi nel cortile delle felci e assaporare la caraffa di orzata che la Nana preparava nei giorni di festa. Guardò i suoi figli, i piú piccoli erano stanchi, irrigiditi negli abiti della domenica, e i piú grandi cominciavano a distrarsi. Posò lo sguardo su Rosa, la maggiore delle sue figliole vive, e, come sempre, si stupí. La sua strana bellezza aveva una qualità perturbante alla quale neppure lei riusciva a sottrarsi, sembrava fatta di un materiale diverso da quello della razza umana. Nivea sapeva che non era di questo mondo ancora prima che nascesse, perché l’aveva vista in sogno, perciò non si era sorpresa del fatto che la levatrice avesse cacciato un grido nel vederla. Appena nata Rosa era bianca, liscia, senza grinze, come una bambola di porcellana, con i capelli verdi e gli occhi gialli, la creatura piú bella che fosse nata sulla terra dai tempi del peccato originale, come aveva detto la levatrice facendosi il segno della croce. Fin dal primo bagno la Nana le aveva lavato i capelli con infusi di camomilla, che ebbero il pregio di mitigare il colore, conferendogli una sfumatura di bronzo vecchio, e la esponeva nuda al sole, per rinforzarle la pelle, che era traslucida nelle zone piú delicate del ventre e delle ascelle, dove si scorgevano le vene e il tessuto segreto dei muscoli. Quei trucchi da zingara, tuttavia, non furono sufficienti e presto corse voce che era nato un angelo. Nivea sperò che le ingrate tappe della crescita avrebbero conferito a sua figlia qualche imperfezione, ma nulla di ciò. Accadde, al contrario, a diciotto anni Rosa non era ingrassata e non le erano spuntati foruncoli, ma piuttosto si era accentuata la sua grazia marina. Il tono della sua pelle, dai morbidi riflessi azzurrognoli, e quello dei suoi capelli, la lentezza dei suoi gesti e il suo carattere silenzioso evocavano un’abitatrice dell’acqua. Aveva qualcosa del pesce e se avesse avuto una coda squamosa sarebbe stata sicuramente una sirena, ma le sue gambe la collocavano in un limite impreciso tra la creatura umana e l’essere mitologico. Nonostante tutto la ragazza aveva condotto una vita quasi normale, aveva un fidanzato e un bel giorno si sarebbe sposata, sicché la responsabilità della sua bellezza sarebbe passata ad altre mani. Rosa chinò la testa e un raggio filtrò attraverso la vetrata gotica della chiesa, disegnando un alone di luce intorno al suo profilo. Alcune persone si girarono per guardarla e si misero a parlottare, come di norma accadeva quando passava, ma Rosa non sembrava rendersi conto di nulla, era immune da vanità e quel giorno era piú assente del solito, intenta a immaginare nuove bestie da ricamare sulla sua tovaglia, metà uccelli e metà mammiferi, coperte di piume iridescenti e munite di corna e artigli, cosí grasse e con ali cosí corte da sfidare le leggi della biologia e dell’aerodinamica. Di rado pensava al suo fidanzato, Esteban Trueba, non per mancanza d’amore, ma per il suo temperamento distratto e perché due anni di separazione sono una lunga assenza. Lui stava lavorando nelle miniere del Nord. Le scriveva metodicamente e talvolta Rosa gli rispondeva inviando versi copiati e disegni di fiori su carta pergamena con inchiostro di china. Attraverso questa corrispondenza, che Nivea violava regolarmente, venne a conoscenza degli alti e bassi del lavoro di minatore, sempre minacciato da frane, all’inseguimento di filoni sfuggenti, in cerca di prestiti in nome della buona fortuna e nella speranza di trovare una meravigliosa vena d’oro che gli permettesse di fare una rapida fortuna per condurre Rosa all’altare, e trasformarsi cosí nell’uomo piú felice dell’universo, come diceva sempre al termine delle sue lettere. Rosa, tuttavia, non aveva fretta di sposarsi e aveva quasi dimenticato l’unico bacio che si erano scambiati alla partenza, e non riusciva neppure a ricordare il colore degli occhi di quel fidanzato tenace. Sotto l’influenza dei romanzi romantici, che costituivano la sua unica lettura, le piaceva immaginarlo con stivali di cuoio, la pelle bruciata dai venti del deserto, mentre scavava la terra in cerca di tesori dei pirati, dobloni spagnoli e gioielli degli Incas, ed era inutile che Nivea cercasse di convincerla che le ricchezze delle miniere se ne stavano infilate tra le pietre, perché a Rosa sembrava impossibile che Esteban Trueba raccogliesse tonnellate di rocce nella speranza che, mentre poi le sottometteva a innocui procedimenti, sputassero un grammo d’oro. Intanto lo aspettava senza annoiarsi, imperturbabile nel gigantesco compito che si era imposta: ricamare la tovaglia piú grande del mondo. Aveva cominciato con cani, gatti e farfalle, ma immediatamente la fantasia si era impossessata del suo ricamo e a poco a poco era apparso un paradiso di bestie impossibili che nascevano dal suo ago, davanti agli occhi preoccupati del padre. Severo pensava che fosse tempo che sua figlia si scrollasse il torpore e mettesse i piedi nella realtà, che imparasse qualche faccenda domestica e si preparasse al matrimonio, ma Nivea non condivideva quest’inquietudine. Preferiva non tormentare la figlia con esigenze terrene, perché aveva il presentimento che Rosa fosse un essere celestiale, che non era fatto per durare a lungo nell’andirivieni banale di questo mondo, sicché la lasciava in pace con i suoi fili da ricamo e non criticava quel giardino zoologico da incubo.
Una stecca del busto di Nivea si ruppe e la punta le si conficcò tra le costole. Senti che soffocava dentro il vestito di velluto azzurro, dal collo di pizzo troppo alto, dalle maniche molto strette, la vita cosí attillata, che quando si slacciava il corsetto passava mezz’ora in contorcimenti di pancia finché le budella non si assestavano nella loro posizione normale. Ne avevano discusso minuziosamente lei e le sue amiche suffragette ed erano arrivate alla conclusione che, finché le donne non si fossero accorciate le gonne e i capelli e non si fossero tolte le sottogonne inamidate, era lo stesso se potevano studiare medicina o avere diritto al voto, perché in nessun modo avrebbero avuto la forza di farlo, ma lei stessa non aveva il coraggio di essere tra le prime ad abbandonare quella moda. Si accorse che la voce galiziana aveva smesso di martellarle il cervello. Si trovava in una di quelle lunghe pause del sermone cui il prete, consapevole dell’effetto di un silenzio imbarazzante, ricorreva con frequenza. I suoi occhi ardenti approfittavano di quei momenti per osservare i parrocchiani a uno a uno. Nivea lasciò la mano di sua figlia Clara e cercò un fazzoletto nella sua manica per asciugarsi una goccia che le scivolava lungo il collo. Il silenzio si fece denso, il tempo sembrò fermarsi nella chiesa, ma nessuno osò tossire o cambiare posizione, per non attirare lo sguardo di padre Restrepo. Le sue ultime frasi vibravano ancora tra le colonne.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice di origine cilena rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Isabel Allende.
Ho amato tanto questo libro,volevo fare il voto del silenzio.