Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Cavalli selvaggi: trama del libro
Texas, 1949. Lacerato ogni legame che lo stringeva alla terra e alla famiglia, John Grady Cole sella il cavallo e insieme all’amico Rawlins si mette sull’antica pista che conduce alla frontiera e più in là al Messico, inseguendo un passato nobile e, forse, mai esistito. Attraverso la vastità di un territorio maestoso e senza tempo, i due cowboy, cui si aggiunge il tragico e selvaggio Blevins, intraprendono un viaggio mitico che li porterà fin nel cuore aspro e desolato dei monti messicani. Qui la vita sembra palpitare allo stesso ritmo dei cavalli bradi e gli occhi di Alejandra possono “in un batter di cuore sconvolgere il mondo”.
Approfondimenti sul libro
In ebook Cavalli selvaggi (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Fuori faceva buio e freddo e non tirava un alito di vento. In lontananza un vitello muggí lamentosamente. Lui rimase in piedi col cappello in mano. Da vivo non ti pettinavi mai cosí, mormorò.
Il silenzio in cui era immersa la casa era rotto soltanto dal ticchettio dell’orologio che si trovava sulla mensola del camino in salotto. Uscí e chiuse la porta.
Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo. Fece qualche passo verso la prateria, s’arrestò tenendo in mano il cappello, quasi a supplicare l’oscurità in cui era immersa ogni cosa, e restò immobile a lungo.
Quando si voltò per tornare sentí il treno. Si fermò ad aspettarlo. Lo avvertiva sotto i piedi. Fischiando e sbuffando in lontananza, il treno sbucò da est come un irriverente satellite del sole che stava per nascere. Il lungo fascio dell’unico faro esplorava l’intrico dei cespugli di mesquite, faceva emergere nella notte lo steccato diritto e senza fine che costeggiava i binari e di nuovo risucchiava nel buio miglia e miglia di fili e paletti lasciandosi dietro il frastuono insistente e il fumo della caldaia a vapore che si sfrangiava lento nell’incerto chiarore del nuovo giorno. Lui, immobile col cappello in mano, sentí la terra tremare e seguí il treno con lo sguardo finché non lo vide svanire. Poi si voltò e tornò verso casa.
Al suo ingresso lei alzò gli occhi dalla cucina e lo squadrò da capo a piedi osservando il vestito. Buenos días, guapo, disse.
Lui appese il cappello all’attaccapanni accanto alla porta ingombro d’impermeabili, mantelline e finimenti vari, e raggiunse la cucina per prendere un po’ di caffè e portarselo al tavolo. Lei aprí il forno, tirò fuori una teglia di panini appena fatti, ne mise uno su un piatto, glielo portò insieme al coltello per il burro e tornò alla cucina sfiorandogli la nuca con la mano.
Ti ringrazio d’aver acceso il cero, disse lui.
Cómo?
La candela. La vela.
No fui yo, disse lei.
La señora?
Claro.
Ya se levantó?
Antes que yo.
Lui bevve il caffè. Fuori cominciava ad albeggiare e Arturo stava venendo verso casa.
Al funerale vide suo padre. Era in piedi, da solo, oltre il vialetto di ghiaia vicino al recinto. A un certo punto il padre si recò all’auto parcheggiata in strada, poi ritornò. A metà mattina s’era messo a soffiare un forte vento da nord che sollevava turbini di polvere frammista a qualche fiocco di neve e le donne sedute si tenevano il cappello con le mani. Sulla tomba avevano steso un telone che non serviva a niente perché il vento tirava da tutte le parti. Il telone sbatteva furiosamente e le parole del predicatore si perdevano nell’aria. Al termine della cerimonia i presenti si alzarono e le seggiole di tela su cui erano seduti, travolte dalle raffiche, volarono fra le lapidi.
Al tramonto sellò il cavallo e si diresse a occidente. Il vento s’era piuttosto calmato, faceva molto freddo e di fronte a lui il sole rosso ed ellittico posato sull’orizzonte insanguinava una lunga frangia di nuvole. Spinse il cavallo nella direzione che prendeva sempre, là dove la diramazione occidentale del vecchio sentiero Comanche, uscendo dal territorio dei Kiowa a nord, attraversava l’estremità occidentale del ranch e proseguiva verso sud, a stento visibile nella bassa prateria racchiusa fra il ramo settentrionale e quello mediano del Concho River. Era l’ora che preferiva da sempre, l’ora delle ombre lunghe, quando nella luce rosata e obliqua l’antica strada prendeva forma davanti ai suoi occhi come un sogno del passato nel quale i cavalli dipinti e i cavalieri di quel popolo perduto, con le facce istoriate, i lunghi capelli a treccia e le armi per combattere la guerra della loro vita, scendevano da nord insieme alle donne, ai bambini e alle mamme coi piccoli al seno; un popolo vincolato da un patto di sangue che si poteva riscattare solo nel sangue. Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia come enormi serpenti, i ragazzi nudi che montavano i cavalli bradi con la spavalderia dei cavallerizzi da circo spingendo altri cavalli bradi davanti a loro, i cani che trottavano accanto con la lingua fuori e gli schiavi seminudi che marciavano a piedi oppressi da pesanti fardelli e soprattutto la lenta litania dei canti che i cavalieri cantavano in viaggio; un popolo e il suo spirito che attraversavano in coro sommesso il deserto pietroso verso un’oscurità perduta alla storia e a ogni ricordo come un graal contenente la somma delle loro vite violente ed effimere.
Cavalcò con la faccia ramata dal sole nel vento rosso che soffiava da ovest. Svoltò a sud lungo l’antico sentiero di guerra, raggiunse la cresta di una collinetta, smontò da cavallo, lasciò cadere le redini, fece qualche passo e si fermò come fosse arrivato alla fine di qualcosa.
Fra gli arbusti c’era un vecchio teschio di cavallo. Si accovacciò, lo prese e lo rigirò fra le mani. Fragile, sottile. Sbiancato come carta. Rimase acquattato nella luce radente col teschio in mano, guardando i denti da fumetto che ballavano negli alveoli. Le suture del cranio che sembravano saldature sbavate di piastre ossee. Lo scorrere silenzioso della sabbia nella scatola cranica ogni volta che lui la rivoltava.
Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano ai cuori ardenti. Cosí era e sempre sarebbe stato.
Tornò che era buio. Il cavallo affrettò il passo. L’ultima luce del giorno inondò la pianura alle spalle del cavaliere e si ritirò nuovamente lungo i confini del mondo nella fresca ombra azzurrina del crepuscolo sempre piú freddo, fra gli ultimi cinguettii degli uccelli rintanati nell’oscuro groviglio dei rovi. Riattraversò l’antico sentiero e spinse il cavallo verso la pianura e la casa. I guerrieri, invece, fra rumori di asce e lance da età della pietra prive ormai d’ogni efficacia, avrebbero proseguito nell’oscurità destinata a inghiottirli, cantando sommessamente alla maniera degli avi e spingendosi speranzosi a sud nelle pianure che portavano al Messico.
In quella casa, costruita nel 1872, settantasette anni dopo suo nonno fu il primo a morire. Gli altri che erano stati esposti nella camera ardente dell’ingresso ci erano arrivati in barella o avvolti nel telone di un carro o infilati in una rozza bara di pino, trasportati da un carrettiere che si fermava all’ingresso con un ordine di consegna. Quelli che c’erano arrivati. Ma spesso era arrivata solo la notizia della loro morte. Un ritaglio ingiallito di giornale. Una lettera. Un telegramma. In origine il ranch contava 2300 acri registrati nel vecchio rilevamento Meusebach della concessione Fisher-Miller e la casa era una capanna di canne e bastoni composta da un’unica stanza. Questo nel 1866. Nello stesso anno la prima mandria di bestiame aveva attraversato quella che era ancora la Bexar County e aveva tagliato l’estremità settentrionale del ranch proseguendo per Fort Sumner e Denver. Cinque anni dopo il bisnonno aveva fatto scortare seicento capi di bestiame lungo lo stesso sentiero e coi soldi ricavati dalla vendita aveva fatto costruire la casa. A quell’epoca il ranch era già arrivato a 18 000 acri. Nell’83 avevano messo il primo filo spinato, nell’86 i bisonti erano già spariti e quello stesso inverno c’era stata una terribile moria. Nel 1889 Fort Concho fu evacuato.
Suo nonno, il primo di otto figli maschi, era stato l’unico a superare i venticinque anni d’età. I fratelli erano morti annegati, erano stati uccisi da una pallottola o dal calcio di un cavallo. Morti in un incendio, carbonizzati. L’unica paura che sembravano avere era di morire nel proprio letto. Gli ultimi due erano morti ammazzati a Portorico nel 1898. In quell’anno il nonno s’era sposato e aveva portato la moglie al ranch, dove probabilmente ogni tanto andava in giro a contemplare i suoi possedimenti interrogandosi sulle vie del Signore e sulle leggi della primogenitura. Dodici anni dopo la moglie era morta in un’epidemia d’influenza senza aver ancora generato dei figli. L’anno seguente il nonno aveva sposato la sorella maggiore della moglie defunta e l’anno successivo era nata la madre del ragazzo, destinata a restare figlia unica. Cosí il cognome dei Grady era finito sotto terra col vecchio nel giorno in cui la tramontana aveva fatto volare le sedie di tela sull’erba vizza del cimitero. Il cognome del ragazzo era Cole, John Grady Cole.
Lui e il padre si trovarono nell’atrio del St Angelus Hotel, percorsero Chadbourne Street fino all’Eagle Cafe e si sedettero a un tavolino in fondo al locale. Al loro ingresso alcuni clienti seduti agli altri tavoli tacquero. Qualcuno fece al padre un cenno con la testa e un uomo lo salutò per nome.
La cameriera chiamava tutti gioia. Prese l’ordinazione e civettò un po’ con lui. Il padre tirò fuori le sigarette, ne accese una, posò il pacchetto sul tavolino mettendoci sopra lo zippo del Terzo Fanteria, si appoggiò allo schienale a fumare e lo guardò. Lui gli raccontò che alla fine del funerale suo zio Ed Alison era andato a stringere la mano al predicatore. I due erano rimasti in piedi a tenersi il cappello schiacciato in testa, inclinati di trenta gradi contro il vento come pagliacci del circo, mentre il telone sbatteva furiosamente sulla loro testa e gli addetti al funerale inseguivano le sedie nel cimitero. Lo zio, proteso verso il predicatore, aveva gridato che fortunatamente il funerale s’era svolto di mattina perché visto il tempo, prima di sera avrebbe potuto scatenarsi una vera e propria tempesta di vento.
Il padre sorrise in silenzio, poi si mise a tossire. Bevve un bicchiere d’acqua e riprese a fumare scuotendo la testa.
Quand’è tornato dal confine, Buddy mi ha detto che una volta, lassú, alla fine di un tornado tutti i polli erano stramazzati per terra.
La cameriera portò il caffè. Ecco gioiette, disse. Il resto arriverà fra un minuto.
Lei è andata a San Antonio, disse il ragazzo.
Non chiamarla lei.
Mamma.
Lo so.
Bevvero il caffè.
Cosa pensi di fare?
A proposito di cosa?
Di tutto.
Per me può andare dove vuole.
Il ragazzo lo guardò. Faresti meglio a non fumare quella roba, disse.
Il padre protese le labbra in avanti, tamburellò le dita sul tavolo e alzò gli occhi. Quando ti chiederò cosa devo fare saprai di avere l’età per dirmelo.
Sissignore.
Hai bisogno di soldi?
No.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Cormac McCarthy.
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