Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook al prezzo di euro 7,99.
Cent’anni di solitudine: trama del libro
Il romanzo narra la storia centenaria della famiglia Buendia e della città di Macondo. In un intreccio di vicende favolose, secondo il disegno premonitorio tracciato nelle pergamene di un indovino zingaro, Melquiades, si compie il destino della città dal momento della sua fondazione (da parte di José Arcadio Buendía) alla sua momentanea e disordinata fortuna, quando i nordamericani vi impiantarono una piantagione di banane, fino alla sua rovina e definitiva decadenza. La parabola della famiglia segue la parabola di solitudine e di sconfitta che sta scritta nel destino di Macondo, facendo perno sulle 23 guerre civili promosse e tutte perdute dal colonnello Aureliano, padre di 17 figli illeggittimi e descrivendo in una successione paradossale le vicende e le morti dei vari Buendia.
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A marzo tornarono gli zingari. Stavolta avevano un cannocchiale e una lente d’ingrandimento delle dimensioni di un tamburo, che esibirono come l’ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Fecero sedere una zingara all’altro capo del villaggio e piazzarono il cannocchiale all’ingresso della tenda. Pagando cinque reales, la gente guardava dentro il cannocchiale e vedeva la zingara a portata di mano. «La scienza ha eliminato le distanze» proclamava Melquíades. «Fra poco, l’uomo potrà vedere che cosa accade in qualsiasi angolo della terra, senza muoversi di casa.» Un mezzogiorno torrido fecero una dimostrazione sbalorditiva con la gigantesca lente: misero un mucchio di erba secca in mezzo alla strada e la incendiarono concentrando i raggi solari. José Arcadio Buendía, che non si era ancora consolato del tutto per il fallimento delle sue calamite, concepì l’idea di usare quell’invenzione come arma di guerra. Melquíades, ancora una volta, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre monete coloniali in cambio della lente. Úrsula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di uno scrigno di dobloni d’oro che suo padre aveva messo da parte in una vita di privazioni, e che lei aveva sepolto sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirli. José Arcadio Buendía non tentò nemmeno di consolarla, completamente assorbito dai suoi esperimenti tattici, con l’abnegazione di uno scienziato e addirittura a rischio della vita. Cercando di dimostrare gli effetti della lente sulle truppe nemiche, si espose ai raggi solari concentrati e riportò bruciature che si trasformarono in ulcere e impiegarono molto tempo a guarire. Fra le proteste della moglie, allarmata da una così pericolosa inventiva, per poco non incendiò la casa. Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo calcoli sulle potenzialità strategiche di quell’arma nuova, finché non riuscì a compilare un manuale di sbalorditiva chiarezza didattica e irresistibile forza di convincimento. Lo inviò alle autorità insieme a numerose relazioni sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un messaggero che attraversò la sierra, si smarrì in acquitrini sconfinati, risalì fiumi tumultuosi e per poco non perì sotto il flagello delle bestie feroci, della disperazione e della peste, prima di trovare una strada di collegamento con le mule della posta. Benché il viaggio nella capitale fosse a quei tempi poco meno che impossibile, José Arcadio Buendía prometteva di tentarlo non appena il governo glielo avesse ordinato, al fine di dare dimostrazioni pratiche della sua invenzione agli alti comandi militari, e di addestrarli personalmente nella complicata arte della guerra solare. Aspettò la risposta per diversi anni. Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò con Melquíades del fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una convincente prova di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e aggiunse anche delle mappe portoghesi e vari strumenti di navigazione. Scrisse di suo pugno una densa sintesi degli studi del monaco Ermanno, che gli lasciò a disposizione perché potesse servirsi dell’astrolabio, della bussola e del sestante. José Arcadio Buendía passò i lunghi mesi di pioggia chiuso in una stanzetta che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno disturbasse i suoi esperimenti. Completamente dimentico dei doveri domestici, rimase per notti intere nel patio a vigilare il corso degli astri, e fu lì lì per prendere un’insolazione cercando di mettere a punto il metodo esatto per stabilire il mezzogiorno. Quando si destreggiò nell’uso e nel maneggio dei suoi strumenti, acquisì una conoscenza dello spazio che gli permise di navigare per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di stringere rapporti con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo studio. Fu a quell’epoca che prese l’abitudine di parlare da solo, vagando per casa senza badare a nessuno, mentre Úrsula e i bambini si spezzavano la schiena nell’orto a coltivare i banani e la malanga, la manioca e le patate dolci, le zucche e le melanzane. Di colpo, senza alcun preavviso, la sua attività febbrile s’interruppe e fu colto da una specie di allucinazione. Rimase vari giorni come stregato, ripetendo fra sé una sfilza di sbalorditive congetture, senza dar credito ai suoi stessi ragionamenti. Finalmente, un martedì di dicembre, all’ora di pranzo, scaricò di colpo tutto il peso del suo tormento. I bambini avrebbero ricordato per il resto della vita l’augusta solennità con cui il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, devastato dalla lunga veglia e dall’accanimento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta:
«La terra è rotonda come un’arancia.»
Úrsula perse la pazienza. «Se devi diventare matto, fallo da solo» gridò. «Ma non inculcare nei bambini le tue idee da zingaro.» José Arcadio Buendía, impassibile, non si lasciò intimidire dalla disperazione della moglie, che in un accesso di collera gli spaccò l’astrolabio per terra. Ne costruì un altro, radunò nella stanzetta gli uomini del villaggio e dimostrò, con teorie che erano incomprensibili a tutti, la possibilità di tornare al punto di partenza navigando sempre verso oriente. Tutto il villaggio era convinto che José Arcadio Buendía avesse perso il senno quando arrivò Melquíades a rimettere a posto le cose. Esaltò in pubblico l’intelligenza di quell’uomo che attraverso la pura speculazione astronomica aveva elaborato una teoria già confermata nella pratica, benché fin allora sconosciuta a Macondo, e come prova della sua ammirazione gli fece un regalo che avrebbe esercitato un’influenza decisiva sul futuro del villaggio: un laboratorio di alchimia.
A quell’epoca, Melquíades era invecchiato con una rapidità sbalorditiva. Le prime volte dimostrava la stessa età di José Arcadio Buendía. Ma mentre questi conservava la sua forza eccezionale, che gli consentiva di atterrare un cavallo prendendolo per le orecchie, lo zingaro sembrava consunto da un male tenace. Era, in realtà, il risultato delle molte e rare malattie contratte nei suoi innumerevoli viaggi intorno al mondo. Come lui stesso raccontò a José Arcadio Buendía mentre lo aiutava ad allestire il laboratorio, la morte lo seguiva ovunque, annusandogli i pantaloni, ma senza decidersi a dargli la zampata finale. Era scampato a tante piaghe e catastrofi quante avevano flagellato il genere umano. Era sopravvissuto alla pellagra in Persia, allo scorbuto nell’arcipelago della Malesia, alla lebbra ad Alessandria, al beriberi in Giappone, alla peste bubbonica in Madagascar, al terremoto in Sicilia e a un naufragio di massa nello stretto di Magellano. Quell’essere prodigioso che diceva di possedere le chiavi di Nostradamus era un uomo lugubre, avvolto da un’aura triste, con uno sguardo asiatico che sembrava conoscere l’altro lato delle cose. Portava un cappello grande e nero, come le ali spiegate di un corvo, e un panciotto di velluto patinato dal verderame dei secoli. Nonostante la sua immensa saggezza e l’ambito misterioso, aveva un peso umano, una condizione terrestre che lo teneva vincolato ai minuscoli problemi della vita quotidiana. Si lamentava di mali da vecchio, soffriva per le più insignificanti difficoltà economiche e aveva smesso di ridere da molto tempo, perché lo scorbuto gli aveva strappato i denti. Il soffocante mezzogiorno in cui Melquíades gli rivelò i suoi segreti, José Arcadio Buendía ebbe la certezza che fosse l’inizio di una grande amicizia. I bambini rimasero a bocca aperta ai suoi racconti fantastici. Aureliano, che allora non aveva più di cinque anni, lo avrebbe ricordato per il resto della sua vita così come lo vide quel pomeriggio, seduto contro il chiarore metallico e riverberante della finestra, intento a illuminare con una profonda voce d’organo i territori più oscuri dell’immaginazione, mentre l’unto disciolto dal caldo gli colava sulle tempie. José Arcadio, il fratello maggiore, avrebbe trasmesso quell’immagine meravigliosa, come un ricordo ereditario, a tutta la sua discendenza. Úrsula, invece, conservò un brutto ricordo di quella visita, perché entrò nella stanza nel momento in cui Melquíades ruppe per sbaglio una boccetta di bicloruro di mercurio.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore sudamericano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Gabriel García Márquez.
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