Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Chiamami col tuo nome di André Aciman. Il romanzo è pubblicato in Italia da Guanda con un prezzo di copertina di 17,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Chiamami col tuo nome: trama del libro
Vent’anni fa, un’estate in Riviera, una di quelle estati che segnano la vita per sempre. Elio ha diciassette anni, e per lui sono appena iniziate le vacanze nella splendida villa di famiglia nel Ponente ligure. Figlio di un professore universitario, musicista sensibile, decisamente colto per la sua età, il ragazzo aspetta come ogni anno “l’ospite dell’estate, l’ennesima scocciatura”: uno studente in arrivo da New York per lavorare alla sua tesi di post dottorato. Ma Oliver, il giovane americano, conquista tutti con la sua bellezza e i modi disinvolti. Anche Elio ne è irretito. I due condividono, oltre alle origini ebraiche, molte passioni: discutono di film, libri, fanno passeggiate e corse in bici. E tra loro nasce un desiderio inesorabile quanto inatteso, vissuto fino in fondo, dalla sofferenza all’estasi. “Chiamami col tuo nome” è la storia di un paradiso scoperto e già perduto, una meditazione proustiana sul tempo e sul desiderio, una domanda che resta aperta finché Elio e Oliver si ritroveranno un giorno a confessare a se stessi che “questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta”.
Approfondimenti sul libro
Chiamami col tuo nome è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 8,99.
Non avevo mai sentito nessuno salutare così. Il suo Dopo! suonava duro, secco e sbrigativo, pronunciato con la velata indifferenza di chi non si preoccupa più di tanto se ti rivedrà o risentirà.
È la prima cosa che mi ricordo di lui, lo sento ancora oggi. Dopo!
Chiudo gli occhi, dico quella parola e mi ritrovo in Italia, tanti anni fa, cammino lungo il viale alberato, lo guardo scendere dal taxi, camicia celeste svolazzante aperta sul davanti, occhiali da sole, cappello di paglia, pelle ovunque. All’improvviso mi stringe la mano, mi passa lo zaino, scarica la valigia dal bagagliaio e mi chiede se mio padre è in casa.
Chissà, forse è iniziato tutto in quel preciso istante: la camicia, le maniche rimboccate, i talloni arrotondati che entravano e uscivano dalle espadrillas consunte, ansiosi di saggiare la ghiaia calda del vialetto che portava a casa nostra, chiedendosi a ogni passo: «Dov’è la spiaggia?»
L’ospite dell’estate. L’ennesima scocciatura.
Poi, quasi senza pensarci, già di spalle al taxi, agita la mano libera e con noncuranza snocciola un Dopo! a un altro passeggero con cui è probabile abbia diviso la corsa dalla stazione. Niente nomi, niente battute per addolcire il momento del congedo, niente di niente. È un saluto ridotto a un’unica parola, il suo: rapido, sfacciato e repentino – scegli tu, per lui è lo stesso.
Ma guarda un po’, penso, ecco come ci saluterà quando verrà il momento. Con un brusco e frettoloso Dopo!
Nel frattempo, ce lo saremmo dovuti sorbire per sei lunghe settimane.
Ero in totale soggezione. Il classico tipo inavvicinabile.
Col tempo, però, avrebbe cominciato a piacermi. Dal mento arrotondato ai talloni arrotondati. Poi, nel giro di pochi giorni, avrei imparato a odiarlo.
Proprio lui, la cui fotografia sul modulo di richiesta, mesi prima, mi era balzata agli occhi con la promessa di istantanee affinità.
Per aiutare i giovani letterati a rivedere il loro manoscritto prima della pubblicazione i miei genitori li ospitavano durante l’estate. Ogni anno, per sei settimane, dovevo sloggiare e trasferirmi in una stanza molto più piccola accanto alla mia, che una volta apparteneva a mio nonno. In inverno, quando stavamo in città, all’occorrenza fungeva da ripostiglio per gli attrezzi, magazzino, soffitta, e correva voce che lì dentro si sentisse ancora mio nonno, che si chiamava come me, digrignare i denti nell’eterno riposo. I residenti estivi non pagavano nulla, avevano tutta la casa a disposizione e praticamente potevano fare ciò che volevano, a patto che dedicassero almeno un’oretta al giorno ad aiutare mio padre a sbrigare corrispondenza e incartamenti vari. Diventavano parte della famiglia e, dato che ormai lo facevamo da una quindicina d’anni, ci eravamo abituati a ricevere valanghe di cartoline e regali, non solo per Natale, ma tutto l’anno, da persone che ormai ci erano affezionatissime e che, quand’erano in Europa, avrebbero fatto una deviazione per passare da B. e fermarsi un paio di giorni in famiglia a godersi un nostalgico tour dei cari vecchi luoghi.
Spesso a tavola aggiungevamo altri due o tre posti, a volte vicini o parenti, a volte colleghi, avvocati, dottori, gente ricca e famosa che passava a trovare mio padre prima di proseguire verso le case di villeggiatura. In certi casi addirittura aprivamo la sala da pranzo a coppie di turisti che avevano sentito parlare dell’antica villa e volevano solo dare un’occhiata, e quando li invitavamo a mangiare con noi rimanevano incantati e ci raccontavano tutto di sé, mentre Mafalda, informata all’ultimo secondo, preparava i soliti manicaretti. Più di ogni altra cosa, mio padre, timido e discreto in privato, amava avere ospite qualche precoce astro nascente di un determinato settore che mantenesse viva una conversazione in più lingue mentre il torrido sole estivo, dopo qualche bicchiere di rosatello, anticipava l’inevitabile torpore pomeridiano. Le avevamo ribattezzate «le fatiche della tavola» e, a lungo andare, anche la maggior parte dei nostri ospiti finiva per chiamarle così.
Forse iniziò tutto subito dopo il suo arrivo proprio in uno di quei pranzi spossanti, quand’era seduto accanto a me, e alla fine mi accorsi che, nonostante la lieve tintarella presa durante il suo breve soggiorno in Sicilia, all’inizio dell’estate, il colore dei palmi delle mani era identico a quello pallido e delicato della pianta dei piedi, dell’incavo del collo, dell’interno delle braccia, che di rado aveva esposto al sole. Quasi un rosa tenue, lucido e omogeneo come la pancia di una lucertola. Intimo, casto, appena accennato, come il rossore sul viso di un atleta o un inizio d’alba in una notte burrascosa. Mi raccontava cose di lui che mai mi sarei sognato di chiedergli.
O forse fu durante quelle ore infinite dopo pranzo, quando oziavamo tutti in costume da bagno dentro e fuori casa, corpi stesi ovunque, ad ammazzare il tempo finché qualcuno non proponeva di scendere agli scogli e farci una bella nuotata. Parenti, cugini, vicini, amici, amici degli amici, colleghi, chiunque bussasse alla nostra porta per chiederci se poteva usare il campo da tennis… Erano tutti benvenuti a oziare e nuotare e mangiare e, se si trattenevano abbastanza a lungo, pure a passare la notte da noi.
O forse l’inizio è stato sulla spiaggia. O al campo da tennis. O durante la nostra prima passeggiata insieme, quel primissimo giorno, quando mi dissero di mostrargli la casa e la proprietà tutt’intorno. Una cosa tira l’altra, si sa, così riuscii a portarlo oltre il vetusto cancello di ferro battuto, fino all’immenso terreno vuoto nell’entroterra, verso i binari in disuso della ferrovia che una volta collegava B. a N. «C’è anche una stazione abbandonata nei paraggi?» mi chiese, guardando tra il fogliame degli alberi sotto il sole cocente, probabilmente nel tentativo di fare la domanda giusta al figlio del proprietario. «No, non c’è mai stata. Se volevi scendere, bastava chiedere.» La faccenda lo incuriosiva; i binari sembravano strettissimi. Era un treno a due vagoni su cui campeggiava lo stemma reale, gli spiegai. Adesso ci vivono gli zingari. Fin da quando mia madre veniva qui in vacanza da ragazza. Hanno trascinato via i due vagoni deragliati. Voleva vederli? «Dopo. Forse.» Cortese indifferenza, come se avesse intuito il mio entusiasmo del tutto fuori luogo nel compiacerlo e sommariamente mi stesse tenendo alla larga.
Mi ferì, comunque.
Piuttosto, disse, voleva aprire un conto in una delle banche di B., poi andare a trovare la traduttrice a cui l’editore italiano aveva affidato il suo libro.
Decisi di accompagnarlo in bicicletta.
La conversazione su due ruote non fu più brillante che a piedi. Lungo il tragitto ci fermammo a bere qualcosa. Il bar tabacchi era buio e deserto. Il proprietario stava spazzando il pavimento con una forte soluzione all’ammoniaca. Uscimmo appena possibile. Un merlo solitario, appollaiato su un pino marittimo, cantò qualche nota, che fu subito soffocata dal frinire delle cicale.
Bevvi a lungo da una grossa bottiglia di acqua minerale, poi gliela diedi e infine feci un altro sorso. Me ne versai un po’ sulla mano e mi strofinai la faccia, passandomi le dita tra i capelli. L’acqua non era abbastanza fresca, e nemmeno frizzante al punto giusto, ti lasciava una sensazione di sete inappagata.
Che si fa qui di solito?
Niente. Si aspetta che finisca l’estate.
E in inverno, allora?
Pensando alla risposta che stavo per dargli, sorrisi. Lui capì al volo e mi precedette: «Non me lo dire: si aspetta che arrivi l’estate, giusto?»
Mi piaceva che mi leggesse nel pensiero. Avrebbe smascherato in fretta le «fatiche della tavola», prima di quelli che l’avevano preceduto.
«Sai, in inverno questo posto diventa tutto grigio e buio. Noi ci veniamo per Natale, il resto dell’anno è un paese fantasma.»
«E oltre ad arrostire castagne e a bere eggnog, che altro fate qui a Natale?»
Mi stava stuzzicando. Gli rifilai lo stesso sorriso di prima. Lui capì, non disse nulla, scoppiammo a ridere.
Chiese che cosa facevo io di solito. Giocavo a tennis. Nuotavo. Uscivo la sera. Andavo a correre. Trascrivevo musica. Leggevo.
Mi disse che anche lui andava a correre. La mattina presto. Qui dove si va a correre? Soprattutto sul lungomare. Se voleva, potevo accompagnarlo a dare un’occhiata.
Proprio quando stava per ricominciare a piacermi, mi colpì dritto in faccia: «Dopo, forse».
Nell’elenco dei miei passatempi preferiti avevo lasciato per ultima la lettura, pensando che, visto l’atteggiamento caparbio e sfacciato che aveva tenuto fino a quel momento, anche per lui fosse all’ultimo posto. Qualche ora più tardi, quando mi ricordai che aveva appena finito di scrivere un libro su Eraclito e che, con ogni probabilità, leggere non costituiva certo una parte insignificante della sua vita, mi resi conto che dovevo escogitare qualche astuzia per fare marcia indietro e lasciargli intendere che in realtà avevamo interessi comuni. Ciò che mi turbava, però, non erano le fantasiose manovre che mi sarei dovuto inventare per fare ammenda. Erano piuttosto gli sgradevoli timori che mi fecero capire, sia allora sia durante la nostra conversazione accanto ai binari del treno, che fin dall’inizio, senza volerlo, senza nemmeno ammetterlo, stavo cercando – invano, peraltro – di conquistarlo.
Quando gli proposi di portarlo a San Giacomo – perché tutti i nostri ospiti ne erano stati entusiasti – e di salire in cima al campanile che per noi era «bello da morire», avrei anche potuto evitare di restarmene lì impalato senza dire nulla. Pensavo che per farlo capitolare bastasse portarlo lassù e lasciargli ammirare la vista del paese, del mare, dell’eternità. Invece no. Dopo!
Ma forse cominciò molto più tardi di quanto io creda, senza che me ne sia accorto. Vedi qualcuno, anzi, non lo vedi realmente, è dietro le quinte. Oppure lo noti, ma non scatta nulla, non ti «prende», e prima ancora che tu sia consapevole della sua presenza, o che qualcosa ti turba, le sei settimane che ti sono state offerte sono quasi passate e lui è partito o poco ci manca e ti affanni per accettare una cosa che, a tua insaputa, ti cresce sotto il naso da giorni e presenta tutti i sintomi di ciò che puoi solo chiamare Lo voglio. Come ho fatto a non accorgermene? ti domandi. So riconoscere il desiderio quando lo vedo… eppure stavolta te lo sei fatto scappare. Cercavo il sorrisetto malizioso che d’un tratto gli illuminava il viso ogni volta che mi leggeva nel pensiero, ma l’unica cosa che volevo davvero era pelle, solo pelle.
Il terzo giorno, a cena, avvertii il suo sguardo fisso su di me mentre spiegavo Le sette parole del Redentore sulla croce di Haydn, che stavo trascrivendo. Avevo diciassette anni, ed essendo il più giovane tra i commensali, e dunque anche quello che aveva meno probabilità di essere ascoltato, avevo sviluppato l’abitudine di far passare più informazioni possibili col minor numero di parole. Parlavo veloce, dando così l’impressione di essere sempre in affanno e di mangiarmi le parole. Finito di spiegare la mia trascrizione, mi accorsi che dalla mia sinistra mi giungevano occhiate intense. La cosa mi eccitava, e mi lusingava, anche; era ovvio che fosse interessato. Gli piacevo. Non era stato poi così difficile, allora. Ma quando alla fine, prendendomela con tutta calma, mi voltai verso di lui e incrociai il suo sguardo, lo trovai gelido: ostile e vitreo al contempo, rasentava la crudeltà.
Mi smontò completamente. Che cosa avevo fatto per meritarmelo? Volevo che fosse ancora gentile con me, che ridessimo insieme come avevamo fatto solo qualche giorno prima sui binari abbandonati, oppure quando gli avevo spiegato, quello stesso pomeriggio, che B. era l’unico paese in Italia in cui la corriera con a bordo Gesù Cristo era sfrecciata via senza fermarsi. Lui era scoppiato subito a ridere, riconoscendo l’allusione al libro di Carlo Levi. E mi piaceva che le nostre menti quasi viaggiassero in parallelo, e che intuissimo all’istante con quali parole si stava gingillando l’altro, per poi decidere all’ultimo momento di tenersele per sé.
Sarebbe stato un vicino di stanza difficile. Meglio starne alla larga, decisi. E pensare che mi ero quasi invaghito della pelle delle sue mani, del petto, dei piedi che mai avevano toccato una superficie ruvida da che esistevano… e il suo sguardo, l’altro, quello più gentile, che quando si posava su di te era come il miracolo della Resurrezione. Era impossibile riuscire a fissarlo abbastanza a lungo, ma dovevi provarci se volevi capire perché era impossibile.
Dovevo avergli lanciato anch’io un’occhiataccia cattiva quanto la sua.
Per due giorni il dialogo tra noi subì una brusca interruzione.
Sul lungo balcone che collegava le nostre stanze ci evitavamo del tutto: solo frasi di circostanza, ciao, buongiorno, bella giornata, eh?, chiacchiere superficiali, insomma.
Poi, senza spiegazioni, tornò tutto come prima.
Avevo voglia di andare a correre, quella mattina? No, non tanto. Bene, nuotiamo allora.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a André Aciman.
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