Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Come cade la luce di Catherine Dunne. Il romanzo è pubblicato in Italia da Guanda con un prezzo di copertina di 18,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Come cade la luce: trama del libro
Una madre severa e un padre comprensivo, una sorella maggiore ribelle e una sorella minore fin troppo responsabile: ogni luogo comune è ribaltato nella famiglia Emilianides, costretta a lasciare Cipro e a trasferirsi in Irlanda dopo il colpo di Stato del 1974. Perché loro sono così diversi da tutti gli altri? Per il trauma di un’esistenza interrotta, e ricominciata in terra straniera? O per via di Mitros, il secondogenito, segnato da una malattia che lo ha colpito a pochi mesi dalla nascita, mettendolo al centro dell’affetto e delle preoccupazioni della famiglia? Di certo le due ragazze cercano disperatamente una loro normalità: Alexia la insegue nelle fughe dell’adolescenza e poi in un matrimonio affrettato; Melina, al contrario, nel rifiuto di ogni legame. Fino a quando si sente costretta, dalla trama di affetti e mancanze che da sempre avvince la sua famiglia, ad accettare il più sbagliato di tutti. Sembra l’inizio di un destino di solitudine, se non fosse per un dettaglio: il filo teso tra due sorelle non si può spezzare.
Approfondimenti sul libro
Come cade la luce è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Soprattutto il giardino. Ricorda bene quando dal soggiorno uscivano in quello spazio verde e profumato. La lavanda, la cui fragranza vibrava fin dal primo istante in cui mettevano piede sull’erba. Globi di allium ovunque: un’orchestra di sfumature, dal rosa pallidissimo al viola intenso. I susini lungo il muro del giardino, i boccioli primaverili come un’esplosione sullo sfondo rosso scuro dei mattoni. E poi quelle enormi portefinestre così scomode che conducevano direttamente fuori di casa. Porte che restavano spalancate per tutta l’estate, nonostante l’inaffidabile clima irlandese.
Allora era tutto più grande. Vivo. Ricco di possibilità.
«Che bell’arietta fresca, Mitros» diceva la mamma, rimboccando la coperta intorno a quel corpo morbido e cedevole. Membra troppo rilassate, una testa e un collo che parevano insostenibilmente pesanti, come se rischiassero di staccarsi dallo stelo delicato della spina dorsale. «E hai ragione, sai: quest’aria pulita e frizzante ti fa molto bene. È proprio quello di cui hai bisogno.»
La mamma parlava sempre così con Mitros, a bassa voce, come se i suoi frammenti di conversazione fossero risposte alle domande di lui. Le parole che le sorelle sentivano facevano parte del dialogo costante tra madre e figlio, iniziato ancor prima del giorno in cui Mitros era nato.
Il ruolo di Mitros in quegli scambi era, naturalmente, invisibile e muto per Melina e Alexia, e perfino per il papà, ma non per la mamma. Le parole di lei, quasi cantate, i silenzi e i cenni di assenso di Mitros e, ogni tanto, qualche suo strano e profondo grugnito irritavano il papà, Melina se n’era resa conto molto presto. Ma con la consapevolezza che precede le parole che impariamo a dire, sapeva anche che la mamma era in grado di sentire tutte le domande del figlio, le sue risposte, i suoi dolori silenziosi.
Melina era nata quando Mitros aveva due anni. Crescendo, aveva pensato spesso con stupore al coraggio dei suoi genitori. Assumersi il rischio di fare un altro figlio, quando quel bambino così difficile aveva già rivendicato tutto il loro tempo, le loro cure, il loro amore?
Certo, c’era già Alexia, che allora aveva sei anni. Ma quando pensava a quell’epoca, Melina in un certo senso si dimenticava di sua sorella; o meglio, si ricordava di lei soltanto dopo averci riflettuto. Mitros era il cuore pulsante della loro vita famigliare: tutti ne erano consapevoli.
Quando era arrivata Melina, Alexia era sull’orlo dell’ammutinamento. Aveva sempre saputo qualcosa a cui avrebbe dato voce soltanto molti anni dopo, ormai adulta. Le sue necessità, la sua infanzia, la sua vita avevano assunto forma, definizione, significato soltanto in relazione a quelle del fratello. Era Mitros ad avere le necessità più impellenti, l’infanzia più difficile, la quotidianità più complicata. Quel bambino entrato a far parte della famiglia dopo di lei. La presenza di Alexia era il negativo in ombra, lui era la sostanza positiva con cui calibrare le vite di tutti loro.
Alexia voleva bene a Mitros, e anche Melina gliene voleva, ma l’amore di Alexia era più venato di sensi di colpa. Conservava il ricordo, o la sensazione, una specie di immagine muta di una vita precedente, una vita in cui senza di lui si stava meglio. Una vita in cui lei non era esclusivamente la piccola aiutante della mamma, la custode di Mitros, la consolazione di suo padre. Alexia aveva sempre avuto l’impressione che le fosse stato sottratto qualcosa. Diceva che dopo quel furto la sua esistenza era precipitata in un buco nero. Poi non era più stato possibile ricostruirla, e nemmeno reimmaginarla.
Melina non aveva ricordi simili, non aveva vissuto una vita precedente. Nel momento in cui aveva aperto gli occhi il suo intero paesaggio famigliare aveva già preso forma, i contorni erano già definiti, le linee già deturpate. Ciascuno di loro occupava un posto predeterminato. Era tutto lì: il corpo di suo fratello che si muoveva a scatti, gli occhi scuri come susine, il sorriso storto che, secondo chi diceva di intendersene, non era un vero sorriso. Quando era stata abbastanza grande da pensarci, aveva chiesto a sua madre perché Dio aveva fatto la faccia di Mitros tutta sbagliata, perché le sue mani somigliavano ad artigli, perché a volte puntava i piedi come se fossero zoccoli. La mamma le aveva voltato le spalle con gli occhi pieni di lacrime e Melina non le aveva più fatto domande del genere.
Con il tempo, come fanno i bambini, aveva accettato che suo fratello fosse diverso. Gli voleva bene e non sopportava di vederlo soffrire. Poi aveva accettato anche questo e a volte gli invidiava l’amore puro, generoso e incondizionato che sembrava capace di strappare a tutti quelli che lo conoscevano.
A differenza delle sorelle, Mitros non faceva mai nulla di male. Il male gli era già stato riversato addosso, così tanto da bastare per una vita intera.
Lui era quello incontaminato, innocente, perfetto.
Mitros amava osservare il movimento degli alberi in giardino. Per ore, i suoi occhi seguivano gli andirivieni di passeri e pettirossi, o l’andatura furtiva della gatta tartarugata dei vicini. A Melina quella gatta non piaceva, i gatti non le erano mai piaciuti, e spesso le lanciava addosso secchiate d’acqua fredda quando la vedeva in agguato, tutta pelo e tensione, sotto i meli pieni di nidi. Se ne stava a leccarsi i baffi ai piedi dei rami nodosi e sussurranti che facevano danzare le ombre estive sul muro tra la loro casa e quella accanto.
Una volta Mitros aveva riso forte vedendo la gatta saltare, come un cartone animato, quando Melina era finalmente riuscita a sorprenderla. Le era strisciata alle spalle dopo essersi tolta le scarpe, i calzini bianchi con i volant già macchiati di verde. Suo padre diceva sempre che Mitros non rideva, che non poteva ridere, ma Melina non ci credeva. Quel giorno colse il lampo di qualcosa di raro negli occhi scuri di suo fratello, qualcosa che non era dolore. Si riempirono invece di uno sguardo raggiante di gioia, mentre le grida vittoriose di Melina scompigliavano le chiazze di luce sotto il ventaglio dei rami dei meli.
«Te l’ho fatta, brutta gattaccia!» esclamò con un’indignazione sincera da bambina di nove anni. Non era giusto che una creatura avida e sterminatrice potesse minacciare così un uccellino indifeso. Non era giusto e basta. La gatta scappò miagolando e soffiando verso il muro di fondo del giardino. Si muoveva a una velocità sorprendente e Melina ne rimase colpita. Aveva sempre creduto che fosse pigra e passasse le giornate a crogiolarsi al sole che entrava dalla finestra della cucina senza far altro che leccarsi le zampe.
Il papà aveva spinto fuori la sedia a rotelle di Mitros già la mattina presto, in modo che potesse godersi il calore del sole sul viso. Loro quattro erano molto più abbronzati di lui. Si scurivano subito, ai primi raggi dell’estate. Ma la pelle di Mitros era diversa, come tutto il resto: pallida, quasi trasparente, con un delicato intrico di sottili vene azzurrine che palpitavano, determinate, sotto la superficie.
Suo padre quel giorno teneva d’occhio le imprese di Melina, con un’espressione seria. Quando lei tornò, col fiatone, tutta soddisfatta di sé, facendo dondolare il catino di plastica azzurra che stava sempre sotto il lavello della cucina, le disse: «E tu non stavi facendo esattamente la stessa cosa? Non hai teso un agguato a un povero gatto indifeso?»
«Ma io volevo salvare gli uccellini piccoli» protestò lei. «Non hanno nessuno che li difenda.»
Lui sorrise. «Madre Natura funziona così. A volte soltanto i più adatti sopravvivono.»
Quando si girò a spegnere il sigaretto nel posacenere di vetro che si portava sempre dietro, in casa e in giardino (la mamma insisteva tanto), Melina colse l’espressione di Mitros. Prima aveva sorriso: sì, aveva sorriso per la reazione della gatta fradicia, ma ora aveva un’aria affranta e quasi fragile.
Mentre il papà se ne andava, lei si avvicinò alla sedia a rotelle, i cui raggi scintillavano al sole. Prese la mano di Mitros e dentro di sé sentì una fitta di rabbia. Lui strinse forte con le sue dita storte.
«Ce l’abbiamo fatta, Mitros» sussurrò lei. «Non ti preoccupare. Io e te proteggeremo gli uccellini, sempre.» Poi baciò suo fratello sulla fronte, inspirandone l’odore di talco tiepido e sudore.
Quando la mamma la chiamò dentro, dovette staccargli le dita dalle sue, una per una.
Quello stesso anno, mentre l’estate svaniva nell’autunno, il papà fabbricò una casetta per gli uccelli, appese delle mangiatoie agli alberi e sistemò una vaschetta in fondo alle lastre di cemento, dove iniziava il prato morbido. Tutte le mattine lui o la mamma portavano lì la sedia a rotelle di Mitros, in modo che potesse godersi al meglio quel debole tepore e guardare gli uccelli che sguazzavano nella vaschetta senza dover girare la testa. Ogni volta che gli schizzi d’acqua raggiungevano il cemento ai suoi piedi, lui faceva quella sua risata gorgogliante.
Vedi, papà, avrebbe voluto dirgli Melina, ma quando Mitros rideva lui non c’era mai; o forse quando c’era lui Mitros non rideva. Non staccava gli occhi dagli uccelli. Cercava spesso di agitare la mano sana in direzione di quei cinguettanti ciuffetti di piume umide, come per dirigere il coro o esprimere un giudizio sui loro minuscoli ma rumorosi dissapori.
La sua faccetta si illuminava anche ai primi fruscii autunnali: seguiva con gli occhi le foglie che vorticavano e planavano sul giardino. E Melina cercava di esserci, quando Mitros aspettava che gli uccelli becchettassero le palle di grasso e semi che il papà aveva appeso per loro. Allora sembrava sprofondare in se stesso, pieno d’autunno.
Melina si accorse che suo fratello seguiva le stagioni. O meglio, che le stagioni si insediavano dentro di lui. Con l’avvicinarsi dell’inverno diventava più silenzioso, si agitava meno, e non sorrideva mai. Nemmeno davanti a Babbo Natale, ai regali o ai buffi cappellini di carta crespa delle feste.
Tornava a sorridere, con gli occhi scuri che si animavano, soltanto quando il primo triangolo acuto di sole usciva dall’oscurità invernale e strisciava lungo il muro del giardino.
«Vedi, Mitros?» sussurrava la mamma, e gli prendeva la mano. «È tornata da noi. E adesso guarda: guarda come cade la luce.»
E così cominciava un altro anno.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice irlandese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Catherine Dunne.
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