Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Come sasso nella corrente di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Come sasso nella corrente: trama del libro
In una stanza immersa nella penombra un donna, giunta all’autunno della vita, si muove lentamente appoggiandosi a un bastone. Intorno a lei sculture di ogni tipo. La donna le sfiora e insegue il ricordo di un uomo. Un uomo schivo, selvatico, che però ha saputo rendere eterno nel legno il sentimento che li ha uniti. Ogni statua evoca un episodio della vita avventurosa che quell’uomo ha vissuto e amava condividere con lei, le difficoltà di un’infanzia di povertà e abbandoni, in cui la più grande gioia era stare con i fratelli e i nonni attorno al fuoco, la sera, imparando a intagliare legno, o sentire la vibrante intensità della natura durante una battuta di caccia. Ogni angolo arrotondato delle sculture fa affiorare in maniera dirompente l’orgoglio e la rabbia di quel giovane che, crescendo, aveva voglia di farcela da solo, cancellando le ombre del passato che lo tormentavano. Ma quei profili, quelle figure che ancora profumano di bosco, raccontano anche che l’amore può trovare pieno compimento solamente nella trasfigurazione, nel sogno, perché l’unica via per non rovinare quel sentimento vero e cristallino è allontanarlo dalle mani dell’uomo che, nella sua intrinseca incapacità di essere felice, finirebbe inevitabilmente per sprecarlo.
Approfondimenti sul libro
In ebook Come sasso nella corrente (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Da tanto tempo lei non sorride. Nemmeno piange, lo ha già fatto a lungo. Ora ascolta. Ascolta il trascorrere delle stagioni e quel bambino che le salta attorno chiamandola “nonna”. Il bambino fa domande. I bambini fanno domande o non sono bambini. Lei non risponde. Muove cenni col capo, assente, nega, indica. Sempre in silenzio. Non ha più voglia di parlare. Le assenze rendono muti quando si è già detto tutto. Alla fine il bambino smette. Allora lo prende in braccio, fissandolo come se le ricordasse qualcuno. Sì, le ricorda qualcuno. Ma non solo il piccolo. Tutto le ricorda qualcuno. Un albero, una roccia, un torrente, una montagna. Tutto le ricorda lui perché lui era quel tutto. Era albero, roccia, torrente, montagna, mani, attrezzi, quaderni, libri, corde, vino, luci, ombre. Rari i sorrisi.
Quando passeggiavano assieme lei era giovane, lui no, per questo non sorrideva. Forse giovane non lo era mai stato, ma gli resisteva l’entusiasmo come un sasso nella corrente. Quello era rimasto intatto dai tempi dell’infanzia, quando la sorte si accaniva a portarglielo via. Nessuno era riuscito a sottrargli l’entusiasmo, nemmeno i colpi laterali della vita. Il suo ragazzo anziano, il suo vecchio ragazzo era rimasto un uomo pieno di entusiasmo. Come il bambino che tiene in braccio, quel nipotino che fa domande e la chiama “nonna”.
La casa è sempre in penombra. La cucina è fasciata di penombra come a non voler disturbare i ricordi, come se troppa luce ferisse i ricordi. O li rendesse vivi, acuminati al punto da ferire a loro volta. I ricordi feriscono sempre, premono, urtano, gemono. Tenerli avvolti d’ombra aiuta a reggerne l’urto.
Era andato a nascondersi, come quando non se ne può più e si corre via finalmente liberi da tutto. Si può fuggire senza rancore quando dolore, tristezza, vecchiaia, debolezza rendono i giorni insostenibili. Chi ha amato veramente, e ha vissuto senza false balle consolatorie, alla fine davvero non ne può più. Lui era uno di questi: aveva vissuto di tutto e tutto intensamente. Poi era andato via, lasciandola sola.
In verità non si vedevano molto. Ma quando capitava era un completarsi. Uno depositava nel cavo dell’altra un po’ d’amore, come una farfalla che si poggia nella conca della mano. L’altra colmava i vuoti del primo, come la fontana rasa il mastello e lo fa tracimare. I loro incontri erano materia liquida: entrava dappertutto, li riempiva, li saziava, s’abbeveravano l’un l’altra, si dissetavano coi musi vicini, come capretti al ruscello.
Erano buone ore quando stavano assieme. Buone per ciò che restava delle loro anime. Le loro anime non erano intere. In passato le avevano divise con qualcuno che era stato allontanato. Chi viene allontanato non se ne va a mani vuote, ruba sempre un po’ d’anima all’altro. Non si esce ad anima integra da una separazione o da spartizioni di beni comuni. Il passato condiviso non si cancella, resta lì col muso duro e il pugno chiuso, a rammentarci che è esistito. Dentro al pugno un po’ d’anima dell’altro. E viceversa.
Siamo figli di papà e mamma ma pure di quello che ci è accaduto. E del luogo dove siamo cresciuti. Terre aspre creano uomini aspri, dicono “ti amo” col contagocce. Se lo dicono è un miracolo. Di solito non lo dicono. L’unica parola dolce che conoscono è “mamma”. La pronunciano fino alla fine, invocano la mamma col piede nella fossa. Lui no. A lui non era rimasta nemmeno quella. “Mamma” non l’aveva mai pronunciata perché non l’aveva avuta. Fu orfano con genitori viventi. Un vivere pieno d’inciampi lo aveva orbato dei genitori. Ma il suo cuore ancora percepiva negli altri l’odore di buono. Se c’era lo fiutava. Il cuore annusa, ha narici fini, come il cane.
Anche lei aveva buon olfatto. Si erano annusati senza mordersi, allontanandosi a braccetto, incuranti di coloro che vivevano nelle terre estreme e tiravano sputi e insulti e avevano il cuore indurito dalla vita. A volte si diventa cattivi per salvamento, stare a galla, sopravvivere, ma non è necessario diventare invidiosi. Meglio feroci che invidiosi. L’invidia, forma subdola e vile di cattiveria, non tollera chi si vuol bene. Loro dovevano nascondersi come caprioli alla macchia. Forse ci si piega all’invidia perché non amati. Le ferite dei non amati, cicatrizzando, danno origine all’invidia. Con la quale bisogna convivere. Sono tanti nel mondo gli invidiosi. Tanti quanti i non amati, poveri diavoli che vanno aiutati, tollerati, perdonati.
È una stanza immersa nella penombra. La donna vive in un liquido amniotico di penombra, discreta, silenziosa, sfuggente come lo fu da giovane. Non ama né chiasso né clamori, tantomeno apparire. È giusta e schiva. Ma quando da ragazza attraversava la città, col passo lungo e il portamento altero, e quegli occhi color nocciola che leggevano l’anima, appariva suo malgrado. E allora sì che la guardavi! Ti veniva voglia di afferrarla per un polso e trascinartela a casa. Anche solo per parlarle, guardarle il viso, farla sedere sulle tue ginocchia. Che begli occhi aveva e che begli anni furono quelli! Tormentati, crudeli, dolci, sereni, lucenti, misteriosi. Anni e occhi intensi, a volte corredati di alti e bassi.
Era la lontananza a renderli nervosi, non accettavano di separarsi, vedersi ogni tanto. I doveri, quelle pastoie che non lasciano scampo e impediscono scelte coraggiose, avrebbero voluto scrollarseli di dosso come il cane si scrolla l’acqua dal pelo. Ma alla fine vinceva il buon senso, il rispetto, l’affetto per gli altri, beni non declinabili: figli, parenti, nipoti… Anche se, dentro i corpi, le loro anime bruciavano in un impulso di fuoco mai provato prima. Quelle anime volevano contatto. Almeno per qualche ora, almeno per un poco.
La stanza nella penombra è cucina, salotto e luogo di riposo. Qua e là, un po’ dappertutto, occhi immobili spiano. Occhi di oggetti, di figure. Guardiani della penombra sono statue di legno, sculture di ogni forma, soggetto e dimensione.
Il bambino chiede il permesso, vuole toccarle, giocare con quei balocchi sconosciuti, giocattoli strani. La donna dice no, guai, quelle statue non si devono toccare, nemmeno sfiorare. Non sono oggetti o giocattoli, sono mani, le sue mani, sono occhi, i suoi occhi, sono anima, la sua anima. Quelle sculture sono lui, e nessuno può toccarle.
Lei conosce la terra di quell’uomo, una terra estrema, martoriata da destini avversi e politici infami. Terra di fughe, delitti, emigrazioni e ritorni. Quando era giovane, aveva sentito dire che alcuni erano tornati dopo molti anni e avevano trovato le loro case distrutte dall’onda creata dagli uomini e dalla forza del tempo.
E allora, senza guardare indietro, questi uomini avevano voltato le spalle alla tragedia, dimenticando passato e memoria, e se ne erano andati per sempre. Ma alcuni erano restati. Senza le persone i luoghi diventano tristi, lo sapevano. Non possono sorridere o cantare, i luoghi abbandonati. Dove per secoli ha pulsato il cuore degli abitanti, servono ancora voci.
Molto prima di conoscerlo, lei aveva letto queste storie su dei libri. Sapeva che lassù mulini e segherie non esistevano più ma il vento era lo stesso. E così pure i torrenti che li facevano muovere assieme al vento. Un giorno era andata a vedere, voleva rendersi conto di quel che era rimasto. Delle antiche storie non c’era più nulla. I luoghi erano scomparsi, spazzati via dalla forza dell’onda e dall’incuria umana. La memoria distrutta. Quella poca sopravvissuta, abbandonata, segregata nelle madie dell’oblio.
Lui le aveva detto che era inutile visitare i luoghi scordati, perduti per sempre. Gli anziani erano scomparsi, lì non c’era più niente da vedere se non le croci dei morti. Lei insisteva, diceva che si poteva ricominciare, non tutto era perduto, bastava qualche idea, darsi da fare. L’uomo dondolava la testa, rispondeva che gli inverni erano lunghi e li reggeva sempre meno. Diceva di camminare ormai verso il tramonto e di farlo senza paura, ma con molta tristezza. E le raccontava un po’ della sua vita.
Sopra l’acqua dei torrenti erano corsi veloci i fiori dell’infanzia. Era stato lo stesso per l’adolescenza. Alla fine, le foglie giacevano secche ai piedi dei faggi secolari. I mesi del gelo si palesavano presto, avanzando antichi e lenti come candidi buoi al giogo. La neve seguitava a cadere tranquilla e seppelliva nel tempo gli anni e la gioventù. Aveva ceduto? Non ancora. Ma sentiva che mancava poco. Sotto la neve dormiva la memoria. La memoria perduta per sempre. Ma non era morta, la memoria resisteva. Congelata sotto un manto di silenzio, era pronta a rifiorire in qualche remota primavera. O in qualche libro.
Un libro non serve a nulla se non salva la memoria, se non la toglie dalle soffitte e le scrolla via la polvere del tempo. “La musica è tra le note” diceva Mozart. Vale per i libri, i comportamenti, tutto. La verità è tra le righe, il messaggio occhieggia tra esse senza rumore, come il passo lento delle meridiane.
Allora si era messo a cercare la memoria, a tirarla per la coda fuori dalle tane. Erano molte le tane dove si nascondeva. A volte, cercando di farla uscire, infilava la mano nel buco, ricevendo un morso. La memoria spesso addenta, ferisce, fa male. Non sempre sta nascosta col muso dentro e la coda fuori. A volte nella tana si gira, presenta il ghigno all’imbocco, pronta coi canini affilati.
C’era dunque una madre, ancor giovane, stanca di bastonate e calci e pugni, che aveva deciso di farla finita. Non da sola, voleva portare con sé i figli. Tre. Il più grande aveva sei anni, il più piccolo sei mesi. In mezzo, uno di cinque. Sarebbe stata una cosa molto semplice: un salto in una pozza d’acqua fonda e amen. Finita.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona. Qui potete trovare il nostro articolo dedicato a tutti i libri di Mauro Corona.
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