Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La Compagnia dei Celestini di Stefano Benni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La Compagnia dei Celestini: trama del libro
Avete mai sognato di partecipare al Campionato Mondiale di pallastrada, organizzato dal Grande Bastardo, protettore degli orfani di tutto il mondo? Memorino, Lucifero e Alì sì, molte volte, e per realizzare il loro sogno architettano una fuga dall’orfanotrofio dei Celestini. Subito don Biffero, il priore Zopilote, don Bracco e il giornalista Fimicoli, in coppia con il fotografo Rosalino, si lanciano all’inseguimento. Tutto intorno, una folla di personaggi bizzarri, stravaganti e coloratissimi nella tradizione del miglior Benni: il fetente di Gladonia, i pittori pazzi Pelicorti, il professor Eraclitus e persino una coppia di gemelli magici campioni di pallastrada. Ma su questa variegata compagine aleggia un’oscura e crudele profezia, che appare sui muri di un palazzo e che sembra destinata a spazzare via tutto e tutti. È impossibile prevedere cosa succederà. Età di lettura: da 13 anni.
In ebook La Compagnia dei Celestini (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Nell’anno 1990 e rotti, nel fiorente stato di Gladonia, nella ricca città di Banessa, nell’elegante quartiere dei Palazzi Vecchi, nel misero refettorio dei Padri Zopiloti, erano le sedici e trenta, ora di cena.
La grande statua del Cristo col Colbacco sormontava la fila di orfanelli affamati davanti al cisternone di zuppa fumante.
Il volto livido del Signore sembrava annusare con una certa ripulsa il particolare odore che la fraudolenza gastronomica di Don Biffero e alcuni Vegetali Ignoti riuscivano a comporre oggi più nauseabonda che ieri. Era un aroma che gli orfanelli, dopo mesi di tentativi e approssimazioni, avevano così felicemente definito: cimitero di cavoli, peti di zoo, fiato di cagnone.
La zuppa era scura e ribollente come un lago infernale, e in superficie schioccavano putizze e galleggiavano filamenti rossi che parevano caduti direttamente dalle ferite del Cristo, quale condimento non solo spirituale. Inoltre, tra bolle di grasso e sargassi bieticoli, affioravano qua e là numerosi Potrebbero.
Erano detti “Potrebbero” alcuni rizomi biancastri dei quali da sempre nessuno riusciva a individuare la natura. Da qui la ridda di ipotesi: Potrebbero essere croste di formaggio, Potrebbero essere ovatta, boleti, sorci. Solo Don Biffero sapeva che si trattava di cavolo diavolo, verdura coltivata esclusivamente negli orti di alcuni conventi, e di odore così fetido che si diceva, appunto, che ogni notte il diavolo venisse, via ctonia, a spennellarla di aliti maligni. Di questo odore Don Biffero era a tal punto intriso che la sua presenza era avvertibile a un chilometro di distanza.
Una campana lontana suonò quattro tocchi e due tocchetti. Una minuscola stufetta elettrica arroventava i polpacci del fortunato orfanello limitrofo, mentre gli altri trentanove e mezzo stavano infreddoliti uno accanto all’altro, come uccelli su un filo. Curvo sulla pentola, Don Biffero scrutava le profondità della sua opera e si accingeva alla cerimonia dell’assaggio. All’uopo, impugnava un mestolo di ferro contorto a zig-zag, forse per gli spasmi di ribellione a quel tuffo quotidiano. Dalle finestre rattoppate entrò uno spiffero di tramontana autunnale che spinse i ragazzi a pigiarsi uno contro l’altro. “Separati mezzo metro!”, ordinò Don Biffero “niente ressa, ce n’è per tutti.”
“Purtroppo,” disse sottovoce l’orfano Lucifero Diotallevi. Si attesero reazioni. Ma Don Biffero, tutti lo sapevano, era ormai duro d’orecchi, di papille e di cuore. Non colse la contestazione, assunse posa sacrale e così pregò:
Signóancoggitaddiciamaggrazie
pequestecibekeciconciède
alpostodigenitornóstredicuifumm
pervolertuoprivátecosissia
pequestetuecibebbenedétte
Cristancoggitarringrazziámm…
Questa turbopreghiera fu pronunciata in soli sei secondi.
Seguì un amen collettivo.
Seguì che Don Biffero sorbì la brodazza a occhi chiusi, con noterelle di lavandino sturato.
Seguì che riaprì gli occhi e disse:
“Oggi è più buona di ieri”.
Seguì che il primo orfanello si fece avanti protendendo la scodella a testa ben eretta e con espressione da samurai.
Don Biffero estrasse il mestolo colmo levandolo al cielo, e l’effluvio di cavolo diavolo salì fino alle volte scrostate del refettorio, alle enigmatiche scritte in latino, fino al naso del Nazareno il cui volto sembrò chiedersi il perché di quel supplemento di Golgota. Il Cristo parve barcollare; anzi davvero barcollò indietro e poi avanti come un birillo, restò un istante in bilico, poi si lanciò, a capofitto, con croce al seguito, dentro la pentola di minestra. Don Biffero ricevette centoventi chili di Gesù in piena nuca, e fortuna volle che altri ottanta, e cioè metà gambe e croce, rimanessero attaccati al piedistallo.
Dopodiché il Cristo col Colbacco esplose ecumenicamente per la sala in centinaia di schegge. Don Biffero giaceva al suolo, immobile, in un lago di zuppa, mentre un misterioso esercito di formiche invadeva il pavimento.
I bambini ristettero, immobili. Poi prima timido, poi più convinto, infine fragoroso, salì al cielo un interminabile applauso.
2.
L’orfanotrofio dei Padri Zopiloti aveva sede nell’antico palazzo Riffler Bumerlo. Il palazzo cinseisettecentesco era stato donato alla Curia da Feroce Maria Heinrich, dodicesimo conte di Riffler Bumerlo Torresana, dopo vicenda esemplare.
Il suddetto conte condusse vita crudele e dissoluta dall’età di anni quattro fino ad anni cinquantadue. Figlio del conte Falco Maria Hermann, uomo di sicura fede democratica ed entusiaste idee naziste, il conte Feroce nel dopoguerra cercò di far dimenticare i trascorsi paterni buttandosi nella Ricostruzione e fondando la famosa fabbrica di doppiette da caccia Ribum (Ri come Riffler e Bum come Bumerlo, ma anche bum, primo colpo, e ribum, aricolpo). Le sue canne monozigote sterminarono tordi, lodole, leprotti, dainetti, camozze, cinghiali, egagri, edredoni e financo qualche esemplare di incline all’abigeato e donnetta infedele, in tutte le regioni di Gladonia. Di questo bagno di sangue si arricchì il nobiluomo, evolvendosi fulmineamente da signorotto di campagna a protagonista del boom industriale.
La sua fabbrica Ribum ebbe sempre pessima fama e mai molecola di sindacato riuscì a mettervi piede. Era un cubosimo di mattoni neri, sormontato da due ciminiere come corna di diavolo, con file di oblò da cui baluginava il riflesso delle colate. Gli operai e le operaie vi venivano trattati come cani, anzi peggio che cani, visto che il menù dei bracchi del conte era zuppa di grissini con cotoletta brisé.
Si narrava di condizioni di lavoro infernali, tra macchinari storpianti, lapilli roventi e polvere di cartucce. Non passava giorno che non si udisse il rumore di un’esplosione, o non uscisse dalle ciminiere una nuvola di fumo putrido e denso che talvolta si solidificava al suolo in strutture a fungo, fiocchi e baloidi, con odore di uovo marcio e anidride capronica. L’intera zona era squassata, anche di notte, dal rumore di una fucina di polifemi, seghe elettriche in orgasmo, presse che cadevano da montagne, lime che stupravan metalli, e dagli oblò saettavano folgori elettriche azzurre e viola che cercavano bersagli all’intorno, rimbalzavano dentro e uscivano vieppiù contorte e isteriche, con micidiali ricochetti e gibigianne inceneritrici.
Si narrava che ogni giorno almeno un lavoratore vi perdesse dita, ossicini, entraglie e altre preziose parti sporgenti. E queste venissero poi riattaccate alla male e peggio dal medico del conte, tale Cisiello, un alcolizzato che non si sa se per incompetenza o per sadismo usava saldare pezzi di maestranza a moncherini di altra maestranza, per cui nei bar della zona non era infrequente incontrare mani con sei dita, volti con orecchie spaiate e financo piedi di misure diverse, due destri o due sinistri.
In quanto alle operaie, la mano del conte calava su di loro non solo metaforicamente. Non ce n’era una, dai quattordici ai settant’anni, che non fosse stata portata, più o meno nolente, nei padiglioni di caccia Bumerlo, e lì sottoposta alle pratiche sessuali più orrorose e complesse, nella successiva descrizione delle quali mutavano ogni volta lunghezze, rituali, posizioni e uso di optionals. Si sapeva per certo che il conte amava vestire sé da volpe e la vittima da beccaccia, ma spesso era vero il contrario, e comunque era certo che nel momento della suprema estasi il conte sparasse fucilate in aria, come testimoniarono le centinaia di pallini rinvenuti, durante un restauro, nel culo degli amorini dipinti sul soffitto.
Ma non erano, va da sé, i predetti incidenti, le mutilazioni e gli stupri a scandalizzare l’impeccabile città di Banessa. E neanche la produzione di armi e munizioni, e la loro vendita a tirannocrazie, onagrocrazie e financo a regimi ulotrici e musulmani nemici della patria. Questa spregiudicatezza di modi era considerata inevitabile e anzi necessaria appendice del brio di iniziative di un industriale moderno. Del resto, non produceva il conte anche moschetti per i carabinieri? Non andava egli regolarmente a messa, pur sbadigliante come un facocero e attento più alle geometrie genuflessorie delle devote che al rito? Non aveva egli, almeno formalmente, una buona e pia moglie, la contessa Elena de’ Faltirona, che ogni anno donava cifre notevolissime ai Padri Zopiloti e sommergeva di bottiglie di vino Riserva Bumerlo Plendò i giornalisti delle gazzette cittadine?
Non aveva egli soprattutto una figlia, Celeste, bionda mite e dolce da non parer sangue suo, e di cui era nota l’allegria, tanto che la si poteva spesso vedere giocare in strada coi monelli, cosa che suscitava i rimproveri paterni, ma non troppo, perché nei suoi confronti il conte Feroce Maria mostrava una tenerezza inusuale, da farlo parer quasi umano?
A conti fatti il conte era, con tutti i suoi vizietti, un cittadino modello. Fino a quel giorno fatale. Fino alla maledizione che avrebbe avuto straordinarie conseguenze per tutta la città, non ultima la fondazione dell’orfanotrofio di Santa Celestina.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore bolognese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stefano Benni.
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