Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La condanna del sangue di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La condanna del sangue: trama del libro
La primavera del 1931 si annuncia con i suoi profumi tra i vicoli e le piazze di Napoli e già porta scompiglio, agita il sangue delle persone. Carmela Calise, cartomante e usuraia, scopre la carta che segnerà il proprio e l’altrui destino. Viene trovata morta, ridotta a un mucchio di ossa e sangue, barbaramente colpita a bastonate nel suo modesto appartamento del rione Sanità. Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi e il brigadiere Raffaele Maione sanno come può essere feroce il richiamo della stagione nuova; quello che ancora non sanno è quanto saranno coinvolti nella tempesta di emozioni che dovranno attraversare. Guidato dal Fatto, il dono o la maledizione di sentire le ultime parole pronunciate da chi muore di morte violenta, Ricciardi, già protagonista de Il senso del dolore, accompagna il lettore nei misteri della città, tra menzogne e sotterfugi, superstizioni e intrighi, mentre le passioni esplodono indomabili nell’oscurità dei bassi e nelle stanze ombrose delle dimore nobiliari. I personaggi del romanzo si muovono attorno al commissario come a comporre un coro. Tra i tanti, le donne: la coraggiosa Filomena, costretta a sacrificare la propria bellezza per salvare l’onore; l’affascinante e impulsiva Emma, annoiata da un ricco marito assai più vecchio di lei; e poi Lucia, decisa a riconquistare l’uomo che ama, la piccola Rituccia, già segnata dalle iniquità della vita, la dolce Enrica, in attesa di uno sguardo alla finestra. Ricciardi e Maione dovranno affrontare l’abbandono, la gelosia, il possesso. Ma soprattutto la “condanna del sangue”: ancora una volta affonderanno le mani nelle miserie e nel dolore e incontreranno gli antichi nemici, la fame e l’amore; nel farlo si troveranno faccia a faccia con le proprie paure.
In ebook La condanna del sangue (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 5,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
Ciro Esposito possedeva un ferreo orgoglio professionale. Aveva imparato il mestiere da bambino, spazzando tonnellate di capelli dal pavimento del negozio che era stato di suo nonno e poi di suo padre, trattato né più né meno come gli altri lavoranti anzi, con qualche schiaffone in più, quando tardava un secondo a porgere il rasoio o un panno umido. Però gli era servito. Adesso, come allora, il suo salone contava clienti non solo del quartiere Sanità, ma anche della distante Capodimonte. Con loro aveva un ottimo rapporto: sapeva bene che dal barbiere si andava non solo per i capelli e la barba, ma soprattutto per un momento di libertà da lavoro e mogli e, in qualche caso, anche dal partito. Aveva sviluppato quella sensibilità speciale che gli consentiva di chiacchierare o restare zitto e di avere sempre un commento sugli argomenti che la gente preferiva.
Era diventato un notevole conoscitore di pallone, donne, soldi e prezzi, onore e disonore. Evitava la politica, di quei tempi terreno pericoloso. A un ambulante di frutta era capitato di lamentarsi perché non riusciva a procurarsi facilmente la merce: quattro tipi mai visti nel quartiere gli avevano sfasciato il carretto, dandogli del “porco disfattista.” Evitava anche i pettegolezzi, non si poteva mai essere sicuri. Era fiero della convinzione che il suo salone fosse una specie di circolo e proprio per questo lo preoccupava il fatto che l’episodio di un mese prima gettasse un’ombra sulla sua onorata attività.
Un uomo si era ammazzato, nel suo negozio. Si trattava di un vecchio cliente, frequentava il salone quando c’era ancora suo padre. Una persona gioviale, espansiva, sempre a lamentarsi della moglie, dei figli, dei soldi che non bastavano mai. Un impiegato statale, non ricordava di quale settore o forse non l’aveva mai saputo. Ultimamente si era fatto torvo, distratto, non parlava più né rideva alle rinomate barzellette di Ciro: la moglie lo aveva lasciato portandosi via i due figli.
Era successo che senza preavviso, mentre lui passava con cura il rasoio sulla basetta sinistra, gli aveva abbrancato il polso e con un solo, deciso colpo si era tagliato la gola, da un orecchio all’altro. Fortuna che erano presenti il suo lavorante e due clienti, altrimenti sarebbe stato impossibile far credere alle guardie e al magistrato che si era trattato di un suicidio. Aveva subito ripulito tutto e il giorno successivo tenne chiuso il negozio, attento a non far trapelare niente. Il morto era di un altro quartiere e questo aveva aiutato. In una città tanto superstiziosa ci voleva poco a farsi la fama sbagliata.
A questo pensava Ciro Esposito, quell’ultima sera d’inverno, quando terminate le pulizie si preparava a serrare i due pesanti battenti di legno che proteggevano la porta del salone. Era l’unico che finiva di lavorare così tardi, a via Salvator Rosa. Ma la giornata non era ancora terminata. Un uomo, mormorando un saluto, entrò nel locale.
Ciro lo riconobbe: era uno dei clienti più strani. Magro, di statura media, taciturno. Una trentina d’anni; colorito scuro e labbra sottili. Anonimo in tutto, se non per gli occhi, verdi, vitrei, e per il fatto che non portava mai il cappello, nemmeno in pieno inverno. Quel poco che sapeva di lui acuiva il disagio che la sua presenza gli procurava; non erano tempi di scontentare i clienti, specie quelli abituali, ma questo, in particolare, non era tra i più semplici. Salutava, si sedeva, chiudeva gli occhi come se dormisse, dritto sulla poltroncina, come imbalsamato.
“Buona sera, dottore. Che facciamo?”
“Solo i capelli, grazie. Non troppo corti. Una cosa svelta.”
“Sissignore: subito subito, ve ne faccio andare. Accomodatevi.”
L’uomo si sedette. Si guardò rapidamente attorno e Ciro lo vide trasalire, trattenendo un attimo il respiro. Era suggestione, o aveva guardato la sedia in fondo al salone, quella del morto? Il barbiere pensò che la sua stava diventando una fissazione: gli sembrava che tutti quelli che entravano scorgessero le macchie di sangue che aveva rimosso con tanta pazienza.
Con un gesto secco, il cliente si tolse dalla fronte la ciocca di capelli ribelli che gli arrivava sul naso sottile. Alla luce artificiale sembrava più pallido, come sofferente di fegato: il colorito bruno, adesso, pareva giallastro. L’uomo sospirò e chiuse gli occhi.
“Dottore, vi sentite bene? Vi posso offrire un bicchiere d’acqua?”
“No, no. Per favore, fate presto.”
Ciro cominciò a sforbiciare sulla nuca, con velocità. Non poteva sapere che cosa l’altro, a occhi chiusi, cercava di non guardare.
Seduto in fondo alla sala, egli vedeva un uomo, la testa incassata nelle spalle, le mani abbandonate sulle gambe, un panno nero allacciato dietro al collo, lo sguardo rivolto allo specchio sulla parete. Subito sopra il panno un enorme taglio, come un sorriso disegnato da un bambino, dal quale ribolliva ritmica un’onda di sangue. Da dietro le palpebre serrate, percepì il cadavere girare piano il capo verso di lui: il leggero schiocco delle vertebre del collo, lo sfregamento umido delle due labbra della ferita.
“Voglio vedere che dice adesso, la puttana. Adesso che ha tolto il padre ai figli. “
Il cliente portò la mano alla tempia. Ciro era sempre più a disagio: a quell’ora della sera non passava più nessuno e quello sfaticato del suo lavorante se n’era andato da un pezzo. Cos’altro poteva accadere? Le forbici sferragliarono sempre più rapide. L’uomo teneva le palpebre chiuse con forza, il barbiere scorse perle di sudore sulla sua fronte. Forse aveva la febbre.
“Abbiamo quasi finito, dotto’. Due minuti e ve ne faccio andare.”
Dal fondo della sala, il morto ripeteva il suo lamento. Fuori, oltre la porta spalancata, la strada taceva e la primavera aspettava. L’aria sembrava sospesa.
L’uomo sentiva il ticchettio delle forbici come chele impazzite, era determinato a non ascoltare. Ma che vuoi vedere? Non vedrai mai più niente, adesso. Né che dice la puttana, né qualsiasi altra cosa.
Il barbiere con un profondo respiro slacciò il panno dal collo del cliente.
“Ecco, dotto’: pronto per voi.”
Dopo aver gettato alcune monete sul tavolino che faceva da cassa, l’uomo uscì cercando aria. Si sentiva soffocare.
La sera abbracciò umida Luigi Alfredo Ricciardi, commissario di Pubblica Sicurezza presso la squadra mobile della Regia questura di Napoli. L’uomo che vedeva i morti.
Tonino Iodice era rientrato a casa da moglie, madre e tre figli. La giornata era stata pessima. Come ogni sera, si era fermato nell’androne del vecchio palazzo di via Montecalvario per indossare la sua maschera, quella del padre di famiglia stanco ma soddisfatto, uno a cui le cose andavano bene. Sapeva che non era giusto ma lo faceva per il loro bene, non voleva buttare quel peso anche sulle loro spalle.
Toccava a lui a passare la notte fissando il soffitto e ascoltando il respiro della sua famiglia, un altro giorno di quiete, chissà fino a quando potremo tirare avanti. Toccava a lui fare e rifare i conti, sempre gli stessi soldi e sempre gli stessi giorni, aspettando la data di scadenza della cambiale, cercando le parole con cui avrebbe tentato di convincere la vecchia a dargli un’altra possibilità.
Tonino aveva avuto un carretto di pizzaiolo e, a ripensarci ora, non se la passava male. Il guaio era stato non averlo capito, aver voluto cambiare. Si svegliava il mattino alle cinque, preparava la pasta e l’olio, metteva in ordine il carretto, si copriva per quanto possibile se c’era freddo oppure si rassegnava allo schiaffo del sole infame d’estate e si avviava per la città. Sempre la stessa strada, le stesse facce, gli stessi clienti.
Gli volevano bene, a Tonino: cantava a voce alta, una bella voce, glielo diceva sua madre e glielo dicevano i clienti. Prendeva in giro le belle signore, fingeva di esserne innamorato, quelle ridevano e gli dicevano va bene, va’, Toni’, damme ’sta pizza e vattenne. Era uno di quelli che portava il buonumore, col suo carrettino, col fischio e la voce, e i poliziotti si giravano dall’altra parte senza chiedergli se avesse permessi e licenze; anzi, a volte si avvicinavano e lui offriva loro la pizza, pe’ senza niente, senza farsi pagare. Passavano i mesi e gli anni, si era sposato e la sua bella Concettina era allegra e povera più di lui. Erano venuti Mario, Giuseppe e Lucietta, uno appresso all’altro, belli come la mamma e rumorosi come il papà, però affamati come tutti e due messi insieme. E col carretto aveva cominciato a non farcela più.
Era stato allora che Tonino si era convinto che se non ci provava, a fare qualcosa di meglio, sarebbero andati incontro alla fame. E poi nessuno lo diceva, ma erano diventati tutti più poveri e ci si arrangiava a casa con qualcosa da mettere sotto i denti. I clienti diminuivano e con la pizza a otto giorni, mangi oggi e paghi tra una settimana, molti mangiavano e sparivano.
Così, aveva pensato che a pranzo fuori vanno i ricchi e che i ricchi si vogliono sedere a tavola, sentire il posteggiatore col mandolino, bere e fare festa. Il vecchio maniscalco del vicolo San Tommaso andava in pensione e cedeva il locale. Lì dentro entravano almeno due tavoli lunghi e uno piccolo, forse pure due: all’inizio lui avrebbe fatto le pizze e Concetta avrebbe servito; poi, quando le cose sarebbero andate meglio, Mario, il più grande, avrebbe dato una mano.
Raccolti i risparmi di mammà e chiesto a parenti e amici tutto quello che si poteva chiedere, mancavano però ancora un sacco di soldi. Venduto il carretto, non si poteva certo tornare indietro. Così un amico gli aveva detto che c’era una vecchia alla Sanità che prestava soldi con poco interesse, e a tempo lungo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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