Una cosa divertente che non farò mai più è un divertentissimo libro del geniale David Forster Wallace, che ci racconta cosa vuol dire imbarcarsi in una crociera extralusso ai caraibi, un’esperienza che, ovviamente, diventa assolutamente unica grazie alla voce narrante dell’autore di Infinite Jest. Vediamo insieme il riassunto della trama di Una cosa divertente che non farò mai più e un ampio estratto dal primo capitolo del libro.
Una cosa divertente che non farò mai più: trama del libro
«E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell’aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull’aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato». “Una cosa divertente che non farò mai più” è il capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico con cui i lettori italiani hanno conosciuto il genio letterario di David Foster Wallace. Commissionatogli inizialmente come articolo per la rivista Harper’s, questo reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi – iniziato sulla stessa nave che lo ospitava e cresciuto a dismisura dopo innumerevoli revisioni – è ormai diventato un classico dell’umorismo postmoderno e al tempo stesso una satira spietata sull’opulenza e il divertimento di massa della società americana contemporanea.
Edito da Minimum Fax nel 2010 • Pagine: 164 • Compra su Amazon
Un capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico con cui i lettori italiani hanno conosciuto il genio letterario di David Foster Wallace. Commissionatogli inizialmente come articolo per la prestigiosa rivista Harper's, questo reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi - iniziato sulla stessa nave che lo ospitava e cresciuto a dismisura dopo innumerevoli... → CONTINUA SU AMAZON
Capitolo 1
E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell’aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull’aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato.
Ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo. Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato «Mister» in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d’America che ero abituato a vedere.
Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.
Devo dire che ho vissuto il reportage commissionatomi con una sorta di fobia della prestazione. L’anno scorso una certa rivista patinata dell’East Coast aveva deciso di mandarmi a una di quelle vecchie e tranquille fiere locali, a farmi fare una specie di reportage, senza darmi nessuna indicazione precisa, ed è rimasta soddisfatta dei risultati. Così adesso mi è stata offerta quest’altra ciliegina tropicale, anche qui senza nessuna indicazione o richiesta specifica. Ma questa volta mi sento più a disagio: il rimborso spese della fiera locale era di ventisette dollari esclusi i giochi a premi. Questa volta Harper’s ha sganciato più di tremila dollari senza aver letto neanche una delle mie succose descrizioni ipnotico-sensoriali. Mi continuano a dire – con grande pazienza, al radiotelefono della nave – di non affliggermi per questioni del genere. Credo davvero che questa gente che lavora nei giornali sia in malafede. Dicono che tutto quello che vogliono è una specie di cartolina turistica gigante scritta da uno che ci è stato – vai, ti fai i Caraibi alla grande, torni e racconti quello che hai visto.
Ho visto un sacco di navi bianche veramente enormi. Ho visto frotte di pesciolini con le pinne luccicanti. Ho visto un parrucchino in testa a un ragazzo di tredici anni. (Ai pesci luccicanti piaceva ammucchiarsi tra la carena e il cemento delle banchine ogni volta che attraccavamo.) Ho visto la costa settentrionale della Giamaica. Ho visto e ho sentito la puzza di tutti i 145 gatti che vivono nella villa di Ernest Hemingway a Key West in Florida. Ora conosco la differenza tra Bingo e Superbingo, e cosa significa quando il jackpot del Bingo va «a palla di neve». Ho visto videocamere che praticamente richiedevano un carrello; ho visto valigie fosforescenti e occhiali da sole fosforescenti con cordicelle fosforescenti e più di venti tipi diversi di ciabatte infradito. Ho sentito tamburi da banda di paese e ho mangiato frittelle di sgombro e ho visto una donna in lamé argentato che vomitava a getto dentro un ascensore di vetro. Ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977.
Ho imparato che in realtà ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare. Ho mangiato più che mai e piatti più sofisticati che mai, per di più nella stessa settimana in cui ho imparato anche la differenza tra beccheggiare nel mare agitato e rollare nel mare agitato. Ho sentito un comico professionista dire seriamente al pubblico: «A parte gli scherzi». Ho visto completi fucsia e giacche rosa mestruo e scaldamuscoli viola e marrone e mocassini bianchi senza calzini. Ho visto croupier professioniste così carine che ti facevano venire voglia di fiondarti al loro tavolo e perdere fino all’ultimo centesimo a blackjack. Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il Buffet di Mezzanotte. Ora conosco l’esatta differenza mixologica fra uno Slippery Nipple e un Fuzzy Navel. So cos’è un Coco Loco. Sono stato oggetto in una sola settimana di oltre 1500 sorrisi professionali. Mi sono scottato e spellato due volte. Ho fatto tiro al piattello sul mare. È abbastanza? In quei momenti non sembrava mai abbastanza. Ho sentito quanto pesa la cappa del cielo subtropicale. Almeno una dozzina di volte il suono della sirena della nave, un’assordante flatulenza degli dei, mi ha fatto prendere un colpo. Ho assimilato i fondamenti del mah-jong, mi sono visto a stralci una due giorni di bridge contratto, ho imparato come si allaccia il giubbotto salvagente sopra lo smoking e ho perso a scacchi con una bambina di nove anni.
(Per la verità, ho fatto tiro verso il piattello, sul mare.)
Ho mercanteggiato per dei gioielli senza valore con ragazzini malnutriti. Ora conosco ogni possibile giustificazione o scusa per chi spenda tremila dollari per andarsi a fare una crociera ai Caraibi. Mi sono mangiato le mani per aver rifiutato autentica marijuana giamaicana da un giamaicano autentico.
Una volta ho visto dalla balaustra del ponte scoperto, molto più in basso e a destra della coda della carena, una cosa che mi è sembrata essere la pinna di uno squalo, mimetizzata nella scia del motore di dritta, violenta come le cascate del Niagara. Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae. Ho capito cosa significa avere paura del proprio water. Ho imparato ad avere il «piede marino» e ora mi piacerebbe perderlo. Ho assaggiato il caviale e mi sono trovato d’accordo con il giudizio del bambino che mi sedeva accanto: fa schifo.
Ora ho capito bene cosa significa duty free.
Ora conosco la velocità massima in nodi di una nave da crociera.1 Ho mangiato escargot, anatra, salmone affumicato dell’Alaska, salmone con finocchi, pellicano al marzapane e un’omelette fatta con quelle che venivano definite «tracce di tartufo etrusco». Ho sentito persone sedute sulle sdraio sul ponte dire che non è tanto il caldo, ma l’umidità. Sono stato – completamente, professionalmente e come mi era stato promesso – viziato.
Ho osservato e catalogato, con ribrezzo, ogni tipo di eritemi, cheratinosi, lesioni pre-melanoma, macchie da mal di fegato, eczemi, verruche, cisti papulari, pancioni, celluliti femorali, vene varicose, trattamenti al collagene e al silicone, tinture orribili, trapianti di capelli malriusciti – insomma, ho visto un sacco di gente seminuda che avrei preferito non vedere seminuda. Mi sono sentito depresso come non mi sentivo dalla pubertà e ho riempito quasi tre taccuini per capire se era un Problema Mio o un Problema Loro.
Ho acquisito e nutrito un rancore che potrebbe anche durare tutta la vita verso il direttore d’hotel della nave – il cui nome era signor Dermatis e che io da allora in poi ho battezzato signor Dermatitis2 – un rispetto quasi ossequioso per il mio cameriere e un’ardente passione per la cameriera della mia cabina del corridoio sul ponte 10, Petra, Petra dalle fossette e dalle sopracciglia ampie e candide, che indossava divise sempre bianche inamidate e fruscianti e profumava del disinfettante al cedro norvegese che passava nei bagni; e che puliva ogni centimetro praticabile della mia cabina almeno dieci volte al giorno, ma che non si è mai fatta sorprendere nell’atto di pulire – una figura di eleganza magica e duratura, meritevole di una cartolina tutta dedicata a lei.
Capitolo 2
Più precisamente: dall’11 al 18 marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera «7 Notti ai Caraibi» (7NC) a bordo della m.n. Zenith,3 una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie di crociera che attualmente operano fra la Florida e i Caraibi.4 La nave e i servizi, da quello che ora so della qualità media dell’industria delle crociere, erano assolutamente di prim’ordine. Il cibo era superbo, il servizio impeccabile, le escursioni a terra e le attività di bordo organizzate fin nei minimi dettagli per il massimo dell’eccitazione. La nave era così bianca e pulita che sembrava sterilizzata. Il blu del mare dei Caraibi variava dal color coperta-dineonato-maschio fino al fosforescente; lo stesso per il cielo. Le temperature erano uterine. Persino il sole sembrava programmato secondo le nostre esigenze. Il rapporto equipaggio-passeggeri era di 1,2 a 2. Era una crociera extralusso.
A parte le lievi varianti adattative a seconda della nicchia, la «Crociera Extralusso 7NC» costituisce un genere uniforme. Tutte le megacompagnie offrono lo stesso prodotto di base. Questo prodotto non consiste in un servizio o in una serie di servizi. Non è neanche tanto il divertimento (anche se si capisce subito che uno dei grandi compiti del direttore di crociera e del suo staff è di continuare a rassicurare tutti che tutti si stanno divertendo): è più, come dire, una sensazione. Ma rimane un prodotto basato sulla buona fede – cioè, cercano davvero di produrla in te, questa sensazione: una miscela di relax ed eccitazione, di appagamento senza stress e turismo frenetico, quella fusione particolare di servilismo e condiscendenza che viene propagandata attraverso tutte le forme del verbo viziare. Le brochure delle megacompagnie sono addirittura tempestate da questo verbo: «…come non vi hanno mai viziati prima», «…a viziarvi nelle nostre jacuzzi e saune», «Lasciatevi viziare», «Fatevi viziare dai caldi zeffiri delle Bahamas».
Il fatto che gli americani adulti degli anni Novanta tendano ad associare la parola pamper, «viziare», a un particolare prodotto di consumo non è casuale, non credo, e la connotazione non si perde in queste megacompagnie di massa e nelle loro pubblicità. E se ripetono e sottolineano di continuo questa parola, avranno le loro buone ragioni.
NOTE
1. Anche se non ho ancora ben capito cos’è un nodo.
2. In qualche modo aveva l’impressione che io fossi un giornalista ficcanaso, così non mi lasciava vedere la cambusa, il ponte di comando, le cabine del personale di bordo, niente di niente, né mi lasciava intervistare qualcuno dell’equipaggio o del personale con il registratore acceso; e poi portava gli occhiali da sole all’interno della nave, e aveva le spalline, ed è rimasto un sacco di tempo a parlare al telefono in greco mentre aspettavo nel suo ufficio dopo che mi ero perso le semifinali del karaoke nel salone Rendez-Vous per andare all’appuntamento che mi aveva dato lui; spero che si ammali.
3. Nessun burlone farebbe a meno di ribattezzarla mentalmente Nadir nel momento stesso in cui sulla brochure della Celebrity legge lo stupidissimo nome Zenith, così concedetemi di farlo anch’io, ma il fatto che l’abbia ribattezzata non vuol dire che abbia qualcosa contro la nave.
4. Ci sono anche le compagnie Windstar e Silversea, Tall Ship Adventures e Windjammer Barefoot, ma sono esageratamente aristocratiche e usano imbarcazioni più piccole. Le venti e più compagnie di crociera di cui parlo usano le «meganavi», vere e proprie torte nuziali galleggianti, numero di passeggeri a quattro cifre e motori a elica grandi quanto una filiale di banca. Tra le megacompagnie che operano a sud della Florida ci sono la Commodore, la Costa, la Majesty, la Regal, la Dolphin, la Princess, la Royal Caribbean e la cara vecchia Celebrity. Poi ci sono la Renaissance, la Royal Cruise Line, la Holland, la Holland America, la Cunard, la Cunard Crown, la Cunard Royal Viking. C’è la Norwegian Cruise Line, c’è la Crystal, c’è la Regency. C’è il discount delle crociere, la Carnival, che le altre compagnie qualche volta chiamano la «Carnivore». Non riesco a ricordarmi a quale compagnia apparteneva la Pacific Princess di Love Boat…[/su_box]
ACQUISTALO CON IL 15% DI SCONTO LEGGI RECENSIONI SU AMAZON
Per la biografia e la bibliografia dell’autore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a David Forster Wallace.
Lascia un commento