Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di I cosacchi di Lev Tolstoj. Il romanzo è pubblicato in Italia, tra gli altri, da Mondadori con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook a meno di tre euro.
I cosacchi: trama del libro
Il protagonista Olenin – riflesso letterario di Tolstoj –, lasciatosi alle spalle gli sfarzosi modi di vivere moscoviti, decide di partire per il Caucaso e di soggiornarvi in qualità di allievo ufficiale. A contatto con la popolazione dei cosacchi, insediata in un villaggio poco discosto dal fiume Terek, Olenin si abitua in maniera graduale al nuovo ambiente umile e selvaggio, al punto che lo sconvolgimento delle attività consuetudinarie si ripercuote sulla sua filosofia di vita. Egli sente di essere improvvisamente attratto dalla natura, in cui riconosce l’unico mezzo di sublimazione spirituale, e invidia in una certa misura i temperamenti semplici e genuini del cacciatore Eroška e del giovane Lukaška. Innamoratosi della bella Mar’janka, promessa sposa a Lukaška, Olenin prova in ogni maniera a catturare le sue attenzioni. Armatosi di coraggio, dopo l’omicidio di Lukaška per mano di un abrek, chiede la mano di Mar’janka, la quale rifiuta sdegnosamente il suo amore. Olenin, perdutamente innamorato della ragazza, decide di lasciare il Caucaso e comprende che la sua vita è inscindibilmente legata alla Russia. Eroška sarà l’unico a salutarlo con calore ma mentre se ne sta andando Olenin si gira verso Eroška, il quale sembra già essersi dimenticato di lui.
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Ma dai signori è ancora sera.
Da una finestra di Chevalier, filtra illegalmente una luce da un’imposta serrata. All’ingresso del ristorante sono ferme una carrozza, una slitta e delle vetture di piazza, che si stringono tra loro con le parti posteriori. Anche una trojka postale è lì ferma. Il portiere, imbacuccato e rattrappito, sembra quasi nascondersi dietro l’angolo della casa.
«E cos’hanno da fare tante chiacchiere?», pensa un lacchè dal volto emaciato, seduto nel corridoio. «E tutto nel mio turno!». Dall’attigua stanzetta illuminata giungono le voci di tre giovani a cena. Stanno nella stanza, accanto a un tavolo con i resti della cena e del vino. Uno di essi, piccolo, pulitino, magro e brutto sta seduto e guarda con buoni occhi stanchi quello che sta per andarsene. Il secondo, alto, è steso accanto al tavolo coperto di bottiglie vuote e gioca con la chiavetta dell’orologio. Il terzo, con addosso un pellicciotto nuovo nuovo, cammina per la stanza e, fermandosi di tanto in tanto, rompe una mandorla con le dita piuttosto grasse e forti, ma dalle unghie pulite, e non fa che sorridere di qualcosa; i suoi occhi scintillano e il suo viso è in fiamme. Parla con fervore, gesticolando; ma si vede che non riesce a trovare le parole adatte e tutte quelle che gli vengono sembrano insufficienti ad esprimere ciò che ha nel cuore. Intanto sorride senza sosta.
«Ora posso dire tutto!», dice quello che sta per partire. «Non è che mi giustifico, ma vorrei che tu almeno mi
capissi, come io mi capisco, e non come la gente volgare considera quest’affare. Tu dici che sono colpevole di fronte a lei», si rivolge a quello che lo guarda con occhi buoni.
«Sì, sei colpevole», risponde quello piccolo e brutto, e sembra che nel suo sguardo si esprima ancor più bontà e stanchezza.
«Lo so perché lo dici», continua il partente. «Essere amati, per te, è la medesima felicità che amare, ed è abbastanza per tutta la vita, se l’hai raggiunta».
«Sì, più che abbastanza, mio caro! Più del necessario», conferma quello piccolo e brutto, aprendo e chiudendo
gli occhi.
«Ma perché non devo amare anche io!», dice il partente, esita e guarda l’amico quasi con rammarico. «Perché non amare? Non si ama. No, essere amati è infelicità, infelicità se ti senti colpevole poiché non contraccambi e non puoi farlo. Ah, mio Dio!». Agitò la mano. «Almeno tutto questo avvenisse in modo sensato, ma invece va alla rovescia; tutto questo, in certo senso, avviene non a modo nostro, ma a modo suo. È come se avessi rubato questo sentimento. Anche tu la pensi così; non negare, tu lo devi pensare. E ci credi, di tutte le sciocchezze e le porcherie che ho avuto molto tempo di fare nella vita, questa è l’unica di cui non mi sono pentito e non posso pentirmi. Né all’inizio, né in seguito ho mentito a me stesso, né a lei. Mi sembrava di essermi finalmente innamorato, ma poi ho visto che era un’involontaria
menzogna, che non si deve amare così, e non ho potuto andare oltre; lei invece c’è andata. Sono forse colpevole per non aver potuto? Cosa dovevo dunque fare?».
«Be’, e ora è finita!», disse l’amico, accendendo un sigaro per scacciare il sonno. «Una cosa sola: tu non hai ancora mai amato e non sai cosa significhi amare».
Quello con il pellicciotto voleva dire ancora qualcosa e si mise le mani nei capelli. Ma non riusciva a dire ciò che voleva.
«Non ho amato! Sì, è vero, non ho amato. Eppure c’è in me il desiderio di amare, un desiderio che non potrebbe essere più forte! Ma ancora, esiste un amore del genere? Tutto rimane in qualche modo incompiuto. Be’, a che pro parlarne! Ho sbagliato, ho sbagliato nella vita. Ma ora tutto è finito, hai ragione. E sento che inizia una nuova vita».
«Nella quale nuovamente sbaglierai», disse quello che era steso sul divano e giocava con la chiavetta dell’orologio; ma l’amico che stava per partire non lo sentì.
«Mi dispiace e insieme sono contento di partire», continuò. «Perché mi dispiace? Non lo so».
E prese a parlare solo di sé, senza notare che agli altri l’argomento non interessava tanto quanto a lui. Un uomo non è mai tanto egoista quanto nel momento di un turbamento emotivo. Gli sembra che al mondo, in quel momento, non esista nulla di più bello e interessante di se stesso.
«Dmitrij Andreeviè, il postiglione non vuole aspettare!», disse il giovane cameriere che era entrato in pelliccia e avvolto in una sciarpa. «I cavalli sono qui dalle dodici, e ora sono le quattro».
Dmitrij Andreeviè diede un’occhiata al suo Vanjuša. Nella sua sciarpa avvolta, nei suoi stivali di feltro, nel suo viso assonnato si sentiva la voce di un’altra vita che lo chiamava, – di una vita di fatiche, di privazioni, di attività.
«E infatti, addio!», disse, cercando il gancetto del pellicciotto.
Nonostante i consigli di dare al postiglione ancora una mancia, si mise il cappello e rimase in piedi al centro della stanza. Si baciarono una volta, due, si fermarono e poi si baciarono una terza volta. Quello che aveva il pellicciotto si avvicinò al tavolo, vuotò il boccale, prese per la mano l’amico, quello piccolo e brutto, e arrossì.
«No, lo dirò comunque… Devo e posso essere sincero con te perché ti voglio bene… L’ami forse? L’ho sempre pensato… sì?».
«Sì», rispose l’amico, sorridendo ancora più dolcemente.
«E forse…».
«Favorite, è stato ordinato di spegnere le candele», disse il lacchè assonnato che aveva ascoltato l’ultimo discorso e cercava di immaginarsi il perché quei signori parlassero sempre della stessa cosa. «A chi ordinate di dare il conto? A voi, eccellenza?», aggiunse, rivolgendosi a quello alto, sapendo fin da prima chi interpellare.
«A me», disse l’alto. «Quant’è?».
«Ventisei rubli».
L’alto rimase un momento pensieroso, ma non disse niente e mise il conto in tasca.
Gli altri due continuavano a parlare tra loro.
«Addio, sei un buon diavolo!», disse l’uomo piccolo, brutto e con gli occhi dolci.
A tutti e due vennero le lacrime agli occhi. Uscirono sul terrazzino d’ingresso.
«Ah, sì!», disse il partente, arrossendo e rivolgendosi a quello alto. «Pensaci tu al conto di Chevalier e poi
scrivimi».
«Bene, bene», disse quello alto, mettendosi i guanti. «Come ti invidio!», aggiunse in modo davvero inaspettato quando furono usciti sul terrazzino d’ingresso.
Il partente salì sulla slitta, si strinse nella pelliccia e disse: «Ebbene! Andiamo», e si scostò perfino per far
posto sulla slitta a quello che aveva detto che lo invidiava; la voce gli tremava.
L’accompagnatore disse: «Addio, Mitja, che Dio ti…». Non si augurava nulla, a parte che quello se ne andasse alla svelta, e perciò non poté finire la frase su ciò che si augurava.
Tacquero. Di nuovo qualcuno disse: «Addio». Qualcuno disse: «Andiamo!». E il postiglione si mosse.
«Elizar, dài!», gridò uno degli amici.
I vetturini e il cocchiere cominciarono ad agitarsi, schioccarono le labbra e iniziarono a tirare le redini. La carrozza gelata si mise a cigolare sulla neve.
«Un buon diavolo quell’Olenin», disse uno. «Ma che fantasia è andare nel Caucaso e da junker? Io non l’avrei fatto per tutto l’oro del mondo. Pranzerai al club domani?».
«Sì».
E i due amici si separarono.
Olenin sentiva il tepore, il caldo della pelliccia. Sedette sul fondo della slitta, si sbottonò, e la trojka postale, dai cavalli scompigliati, si trascinò pesantemente, da una strada scura all’altra, accanto a certe case che non aveva mai visto. A Olenin sembrava che solo coloro che partivano passassero per quelle strade. C’era oscurità intorno, silenzio, tristezza, mentre l’anima era talmente colma di ricordi, d’amore, di rimpianti e di dolci lacrime opprimenti…
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore russo rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Lev Tolstoj.
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