Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La costola di Adamo di Antonio Manzini. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La costola di Adamo: trama del libro
“Il vicequestore sorrise nel pensare alla somiglianza che sentiva tra lui e quel cane da punta”. Rocco Schiavone ha la mania di paragonare a un animale ciascuna delle fisionomie umane che gli si para davanti. Ma più che il setter che gli suscita quell’accostamento, lui stesso fa venire in mente uno spinone, ispido, arruffato e rustico com’è: pur sempre, però, sottomesso all’istinto della caccia. È uno sbirro manesco e tutt’altro che immacolato, romano di conio trasteverino, con una piaga di dolore e di colpa che non può guarire. Ad Aosta, dove l’hanno trasferito d’ufficio, preferirebbe tenere le sue Clarks al riparo dall’acqua e godersi i suoi amorazzi, che non imbarcarsi in un’altra inchiesta piena di neve. Una donna, una moglie che si avvicinava all’autunno della vita, è trovata cadavere dalla domestica. Impiccata al lampadario di una stanza immersa nell’oscurità. Intorno la devastazione di un furto. Ma Rocco non è convinto. E una successione di coincidenze e divergenze, così come l’ambiguità di tanti personaggi, trasformano a poco a poco il quadro di una rapina in una nebbia di misteri umani, ambientali, criminali. Per dissolverla, il vicequestore Rocco Schiavone mette in campo il suo metodo annoiato e stringente, fatto di intuito rapido e brutalità, di compassione e tendenza a farsi giustizia da sé, di lealtà verso gli amici e infida astuzia.
In ebook La costola di Adamo (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
Ma non ad Aosta.
Aveva piovuto tutta la notte e le gocce d’acqua mista a neve avevano martellato la città fino alle due del mattino. Poi la temperatura, scesa di parecchi gradi, aveva dato alla neve partita vinta, e quella era caduta a fiocchi fino alle sei riempiendo strade e marciapiedi. All’alba la luce era spuntata diafana e febbricitante, scoprendo la città imbiancata, mentre gli ultimi fiocchi ritardatari svolazzavano cadendo a spirale sui marciapiedi. I monti erano incappucciati dalle nuvole e la temperatura era di qualche grado sotto lo zero. Poi improvvisamente si era alzato un vento maligno che aveva invaso le strade della città come una torma di cosacchi ubriachi, schiaffeggiando uomini e cose.
In via Brocherel solo cose, dal momento che la strada era deserta. Il cartello del divieto di sosta ondeggiava e i rami degli alberelli piantati sull’asfalto scricchiolavano come le ossa di un artrosico. La neve che non si era ancora compattata si alzava in piccoli turbini e qualche persiana sganciata sbatteva ripetutamente. Dai tetti dei palazzi cadevano zaffate di pulviscolo gelato spazzato dal vento.
Irina svoltò l’angolo fra via Monte Emilus e via Brocherel e prese un ceffone di aria in pieno viso.
I capelli legati in una coda volarono all’indietro e i suoi occhi azzurri si strinsero appena. A farle una foto in primo piano e a estrapolarla dal contesto, poteva sembrare una pazza senza casco su una moto a centoventi all’ora.
Ma quella sberla gelata e improvvisa le fece l’effetto di una carezza. Neanche si chiuse il bavero del cappottino di lana grigio. Per una nata a Lida, a pochi chilometri dalla Lituania, quel vento era poco più di una piacevole brezza primaverile. Se a marzo Aosta era ancora immersa nell’inverno, a casa sua in Bielorussia si viaggiava sprofondati nel ghiaccio a 10 gradi sotto zero.
Irina camminava veloce sulle sue Hogan fasulle che scintillavano ad ogni passo e succhiava una caramella al miele che aveva comprato al bar dopo aver fatto colazione. Se c’era una cosa che adorava dell’Italia era la colazione. Cappuccino e brioche. Il rumore della macchina che scalda il latte e gonfia la schiuma bianca, che poi si mescola con il nero del caffè e la spruzzata di cacao alla fine. E la brioche, calda, croccante e dolce che si scioglie in bocca. Se solo ricordava le colazioni che faceva a Lida. Con delle pappe immangiabili di orzo o avena, il caffè che sapeva di terra. E poi c’erano i cetrioli, quel sapore agro di prima mattina che lei non aveva mai potuto sopportare. Suo nonno li mandava giù con l’acquavite, mentre suo padre mangiava il burro direttamente dal piattino come fosse un dolce caramellato. Che quando l’aveva raccontato ad Ahmed, quello per poco non si era vomitato addosso dalle risate. «Il burro? A cucchiaiate?» le aveva chiesto. E rideva mostrando i denti bianchissimi che Irina gli invidiava. I suoi erano grigiastri. «È il clima» le aveva risposto Ahmed. «In Egitto fa caldo e i denti sono più bianchi. Più fa freddo invece più sono neri. Proprio il contrario della pelle. È colpa del sole che non c’è. Poi se vi mangiate pure il burro con il cucchiaio!» e giù a ridere. Irina lo amava. Amava il suo odore quando tornava dal mercato. Sapeva di mele e di erba. Lo amava quando pregava verso la Mecca, quando le preparava i dolci al miele, quando facevano l’amore. Ahmed era gentile e attento e non si ubriacava mai e aveva l’alito che sapeva di menta. Beveva solo birra ogni tanto, anche se diceva «il Profeta non lo permetterebbe». Però la birra gli piaceva. Irina lo guardava e pensava agli uomini del suo paese, all’alcol che ingurgitavano, agli aliti pesanti e alla puzza della loro pelle. Un misto di sudore, grappa e sigaretta. Ma Ahmed aveva una risposta anche per questa differenza sostanziale. «In Egitto ci laviamo di più perché per pregare Allah devi essere pulito. E siccome fa caldo ci asciughiamo subito. Da voi fa freddo e non ti asciughi mai. È colpa del sole pure questa cosa qui», le diceva. «E comunque noi il burro non lo mangiamo a cucchiaiate» e ancora giù a ridere. Ora il suo rapporto con Ahmed era arrivato al bivio. Lui le aveva fatto la proposta.
Sposarsi.
C’era qualche problema di ordine tecnico. Per sposarsi Irina avrebbe dovuto abbracciare la religione islamica, oppure lui quella ortodossa. E la cosa non stava in piedi. Lei islamica non poteva diventarci. Non per un fatto religioso, Irina credeva in un dio tanto quanto nella possibilità di vincere al superenalotto, ma era il pensiero dei suoi genitori a frenare la sua conversione. Lassù in Bielorussia la sua famiglia era ortodossa e credente. Papà Aleksej e mamma Ruslava, i suoi cinque fratelli, le zie e soprattutto il cugino Fëdor che aveva sposato la figlia di un pope. Come faceva a dirgli: «Ciao. Da domani Dio lo chiamo Allah»? E lo stesso Ahmed non poteva telefonare a suo padre giù a Faiyum e dirgli: «Sai papà, da domani io sono ortodosso!». A parte che Ahmed dubitava fortemente che il padre sapesse cosa fosse un ortodosso, avrebbe pensato a una malattia contagiosa. Così Irina e Ahmed stavano pensando a un’unione civile. Avrebbero mentito e tirato avanti. Almeno fino a quando Aosta sarebbe stata casa loro. Poi Dio, Allah o chi per lui ci avrebbe pensato.
Era arrivata davanti al civico 22. Tirò fuori le chiavi e aprì il portone. Che bello quel palazzo! Con le scale di marmo e il corrimano di legno. Non come il suo che aveva le mattonelle sbreccate per terra e macchie di umidità sul soffitto. C’era pure l’ascensore. Nella sua palazzina no. I quattro piani te li dovevi fare a piedi. E ogni tre gradini uno era spaccato, uno traballava, un altro non c’era proprio. Per non parlare del riscaldamento, con la stufa che fischiava e riprendeva a funzionare solo dopo averle assestato una randellata sullo sportello. Sognava di abitare in un posto così. Con Ahmed e il figlio Helmi che ormai aveva diciotto anni e non sapeva una parola di arabo. Helmi. Irina ci aveva provato a volergli bene. Ma quello se ne fregava. «Non sei mia madre! Fatti i cazzi tuoi!» le gridava. Irina inghiottiva e abbozzava. E pensava alla mamma di quel ragazzo. Che era tornata in Egitto, ad Alessandria, a lavorare nel negozio dei parenti e che di quel figlio e di quel marito non aveva voluto sapere più niente. Helmi significa calma e tranquillità. Irina sorrideva all’idea: mai nome fu meno azzeccato di quello. Helmi sembrava una pila sempre accesa. Usciva, non tornava a dormire, a scuola un disastro e a casa sputava nel piatto in cui mangiava. «Morto di fame!» diceva al padre, «io a vendere la frutta con la bancarella come te non ci finirò! Piuttosto mi scopo i vecchi!». «Ah sì? E che farai?» gli urlava Ahmed, «prendi il Nobel?» ironizzando sui catastrofici risultati scolastici del figlio. «Farai il disoccupato, ecco che farai. Ma non è un mestiere, sai?». «Meglio che vendere le mele in mezzo alla strada o andare a fare le pulizie come ’sta serva che ti sei messo a casa» e indicava sprezzante Irina. «Farò i soldi e ti verrò a salutare il giorno che ti rinchiudono in ospedale! Però non preoccuparti. La bara te la offro io».
Di solito quelle discussioni fra Ahmed e Helmi finivano con un ceffone del padre, sbattimento di porta di casa del figlio con conseguente aumento della crepa sul muro che ormai era arrivata al soffitto. Irina era convinta che alla prossima lite muro e soffitto se ne sarebbero venuti giù peggio del terremoto di Vilnius del 2004.
Le porte dell’ascensore si spalancarono e Irina girò subito a sinistra, verso l’interno 11.
La serratura si aprì al primo giro. Strano, molto strano, pensò Irina. La serratura aveva sempre le sue tre mandate. Dai Baudo lei andava tre giorni alla settimana e mai una volta, da un anno a questa parte, li aveva trovati in casa. Il marito alle dieci di mattina era già al lavoro da un pezzo, il venerdì anzi usciva all’alba perché si andava ad allenare in bici, la signora invece rientrava puntuale alle undici dalla spesa, Irina ci avrebbe potuto rimettere l’orologio. Forse la signora Ester s’era beccata l’influenza intestinale che stava mietendo vittime ad Aosta peggio di un’epidemia di peste medievale. Irina entrò nell’appartamento portandosi dentro l’aria di neve. «Signora Ester sono Irina! Fa un bel freddo fuori… sta a casa signora?» gridò mentre rimetteva le chiavi nella borsa. «Non è andata a fare la spesa?». La sua voce rauca, regalo delle ventidue sigarette al giorno, rimbalzava sui vetri fumé della porta dell’ingresso.
«Signora?».
Fece scivolare l’anta sui binari ed entrò in salone.
Disordine. Sul tavolino basso davanti al televisore c’era ancora il vassoio con i resti della cena. Ossa di pollo, un limone spremuto e cose verdastre. Spinaci, forse. Appallottolato sul divano un plaid verde smeraldo e nel portacenere una decina di cicche. Irina pensò che molto probabilmente la signora fosse in camera da letto con la febbre, e che davanti alla televisione la sera prima c’era solo Patrizio, il marito, a vedere la partita. Altrimenti vassoi ce ne sarebbero stati due, il suo e quello della signora Ester. Le pagine del «Corriere dello Sport» erano distribuite equamente sul tappeto, e un bicchiere aveva lasciato due bei cerchi sul tavolino chiaro antico. Scuotendo la testa Irina si avvicinò per rassettare e con un piede scalciò una bottiglia di vino vuota che cominciò a girare su se stessa. Irina la raccolse e la poggiò sul tavolino. Poi prese il portacenere, svuotò le cicche nel piatto cogli avanzi. «Signora? È di là? È a letto?».
Nessuna risposta.
Con le mani occupate dal vassoio sul quale teneva in precario equilibrio la bottiglia di merlot, aprì la porta della cucina con una botta di anca. Ma non entrò. Si bloccò sull’uscio a guardare. «Che cosa…?» disse a mezza bocca.
Le ante delle credenze erano spalancate. Piatti stoviglie e bicchieri erano a terra accanto a pacchi di pasta e conserve di pomodoro. Canovacci, posate e tovaglioli di carta sparsi sul pavimento. Delle arance erano rotolate fin sotto il frigorifero mezzo aperto. Le sedie rovesciate, il tavolo spostato quasi addossato alla parete e il minipimer fracassato sul pavimento buttava fuori dallo stomaco fili e congegni elettrici.
«Cosa successo qui!» gridò Irina. Poggiò il vassoio e si girò verso il corridoio.
«Signora Ester!» chiamò ancora. Nessuna risposta. «Signora Ester, che successo qui?».
Entrò in camera da letto sperando di trovare la signora. Il letto era sfatto. Lenzuola e piumino ammucchiati in un angolo. L’armadio aperto. Arretrò verso la cucina. «Ma che…?», il suo piede urtò un oggetto. Guardò a terra. Un cellulare ridotto in pezzi.
«I ladri!» gridò e come se qualcuno le avesse appoggiato una lama fredda e minacciosa dietro le scapole, si irrigidì e scappò via. Il vecchio tappeto afghano arricciato agli angoli la sgambettò. Irina cadde per terra sbattendo il ginocchio sul pavimento.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore romano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Antonio Manzini.
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