Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Cronaca di una morte annunciata di Gabriel García Márquez. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook al prezzo di euro 6,99.
Cronaca di una morte annunciata: trama del libro
Per cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni Fiorentino Ariza ha perseverato nel suo amore per Fermina Daza, la più bella ragazza dei Caraibi, senza mai vacillare davanti a nulla, resistendo alle minacce del padre di lei e senza perdere le speranze neppure di fronte al matrimonio d’amore di Fermina con il dottor Urbino. Un eterno incrollabile sentimento che Fiorentino continua a nutrire contro ogni possibilità fino all’inattesa, quasi incredibile, felice conclusione. Una storia d’amore e di speranza con la quale, per una volta, Gabriel García Márquez abbandona la sua abituale inquietudine e il suo continuo impegno di denuncia sociale per raccontare un’epopea di passione e di ottimismo. Un romanzo atipico da cui emergono il gusto intenso per una narrazione corposa e fiabesca, le colorate descrizioni dell’assolato Caribe e della sua gente. Un affresco nel quale, non senza ironia, si dipana mezzo secolo di storia, di vita, di mode e abitudini, aggiungendo una nuova folla di protagonisti a una tra le più straordinarie gallerie di personaggi della letteratura contemporanea.
- Vedi la scheda completa di Cronaca di una morte annunciata su Amazon.
- Leggi le opinioni dei lettori su Amazon.
Neppure Santiago Nasar riconobbe il presagio. Aveva dormito poco e male, senza nemmeno spogliarsi, e si svegliò con il mal di testa e con un residuo sapore di staffe di rame sul palato, e li interpretò come inconvenienti naturali della gran festa di nozze che si era prolungata fin oltre la mezzanotte. Di più: le numerose persone che incontrò sul suo cammino da quando uscì di casa alle 6,05 fino a quando venne squartato come un maiale un’ora dopo, lo ricordavano un po’ insonnolito ma di buon umore, e a tutti fece notare in un modo abbastanza casuale che si trattava d’una bella giornata. Nessuno avrebbe giurato che alludesse alle condizioni del tempo. Molti coincidevano nel ricordare che era una mattina scintillante percorsa da una brezza marina che arrivava attraverso i bananeti, come era da supporre dovesse essere in un perfetto febbraio di quell’epoca. Ma i più erano concordi nel dire ch’era un tempo funereo, con un cielo torbido e basso e un denso odore d’acque stagnanti, e che nel momento della disgrazia veniva giù una pioggerella minuta come quella che aveva visto Santiago Nasar nel bosco del suo sogno. Io mi stavo rimettendo dai bagordi del pranzo di nozze nel grembo apostolico di Maria Alejandrina Cervantes, e avvertendo il baccano delle campane che suonavano a martello neppure apersi gli occhi, perché pensai che le avevano sciolte in onore del vescovo.
Santiago Nasar indossò un paio di pantaloni e una camicia di lino bianco, né gli uni né l’altra inamidati, e uguali a quelli che s’era messo il giorno prima per le nozze. Era un abbigliamento da grande occasione. Se non fosse stato per l’arrivo del vescovo avrebbe indossato il vestito cachi e gli stivali da cavallo con cui andava ogni lunedì al “Divino Rostron”, la fattoria con allevamento di bestiame che aveva ereditato da suo padre, e che amministrava con molto senno anche se con pochissima fortuna. In campagna metteva alla cintura una 357 Magnum, i cui proiettili blindati, a quanto diceva lui, potevano spaccare un cavallo a metà. In epoca di pernici portava anche la sua attrezzatura da caccia. Nell’armadio teneva inoltre un fucile 30,06 Malincher Schonauer, un fucile 300 Holland Magnum, un Hornet con mirino telescopico a due comandi, e una Winchester a ripetizione. Dormiva sempre come aveva dormito suo padre, con l’arma nascosta dentro la federa del cuscino, ma quel giorno prima di lasciare la casa ne tolse via i proiettili e la mise nel cassetto del comodino. «Non la lasciava mai carica» mi disse sua madre. Io lo sapevo, e sapevo anche che riponeva le armi in un posto e nascondeva le munizioni in un altro molto appartato, in modo che nessuno neanche per caso cedesse alla tentazione di caricarle dentro casa. Era un’abitudine assennata che aveva stabilito suo padre da quando una mattina una domestica scosse il cuscino per togliere la federa, e la pistola lasciò partire un colpo nell’urtare contro il suolo, e la pallottola distrusse l’armadio della camera, attraversò la parete del salotto, passò con fracasso di guerra per la camera da pranzo della casa vicina e ridusse in polvere di gesso un santo di dimensioni naturali sull’altare maggiore della chiesa, all’altro estremo della piazza. Santiago Nasar, che a quel tempo era molto piccolo, non dimenticò mai la lezione di quella disavventura.
L’ultima immagine che sua madre conservava di lui era quella del suo passaggio fugace nella sua camera da letto. L’aveva svegliata mentre cercava di trovare a tentoni una aspirina nell’armadietto del bagno, e lei accese la luce e lo vide comparire sulla porta con il bicchiere d’acqua in mano, come doveva ricordarlo per sempre. Santiago Nasar le raccontò allora il sogno, ma lei non fece caso agli alberi.
«Tutti i sogni con uccelli sono di buon augurio” disse.
Lo vide dalla stessa amaca e nella stessa posizione in cui la trovai prostrata dalle ultime luci della vecchiaia, quando tornai in questo paese dimenticato per cercare di ricomporre con tante schegge sparse lo specchio rotto della memoria. Era molto se riusciva a distinguere le forme in piena luce, e teneva foglie medicinali sulle tempie per il dolore di testa eterno che le aveva lasciato il figlio l’ultima volta ch’era passato per la sua camera. Era coricata sul fianco, aggrappata alle corde d’agave del capezzale dell’amaca per cercare di tirarsi su, e c’era nella penombra l’odore di battistero che mi aveva sorpreso la mattina del delitto.
Appena comparvi sul vano della porta mi confuse con il ricordo di Santiago Nasar. «Era proprio lì» mi disse. «Aveva il vestito di lino bianco lavato con sola acqua, perché era di pelle così delicata che non sopportava il rumore dell’amido.» Rimase per un lungo tratto seduta sull’amaca, masticando semi di cardamina, finché svanì l’illusione che fosse tornato suo figlio. Allora sospirò: «E’ stato l’uomo della mia vita».
Io lo rividi nella sua memoria. Aveva compiuto 21 anni l’ultima settimana di gennaio, ed era agile e pallido, e aveva le palpebre arabe e i capelli ricciuti di suo padre. Era il figlio unico di un matrimonio di convenienza che non ebbe un solo istante di felicità, ma egli sembrava felice con suo padre finché questi morì d’improvviso, tre anni prima, e continuò a sembrarlo con la madre solitaria fino al lunedì della sua morte. Da lei aveva ereditato l’istinto.
Da suo padre aveva appreso fin da molto piccino la padronanza delle armi da fuoco, l’amore per i cavalli e per l’addestramento degli uccelli d’alta preda, ma da lui apprese anche le buone arti del coraggio e della prudenza. Parlavano arabo tra loro, ma non in presenza di Plácida Linero perché non si sentisse esclusa. Non li si era mai visti armati dentro il paese, e l’unica volta che esibirono i loro falchi ammaestrati fu per dare una dimostrazione di falconeria in un bazar di beneficenza. La morte di suo padre lo aveva costretto aa abbandonare gli studi al termine della scuola secondaria, per assumersi l’onere dell’azienda familiare. Per meriti propri, Santiago Nasar era allegro e pacifico, e di cuore spensierato.
Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, sua madre credette che si fosse sbagliato di data quando lo vide vestito di bianco. «Gli ricordai che era lunedì» mi disse. Ma lui le spiegò che si era vestito in abito da cerimonia nel caso avesse avuto l’occasione di baciare l’anello al vescovo. Lei non mostrò il minimo segno d’interesse.
“Non scenderà neppure dal bastimento” gli disse. “Manderà una benedizione di convenienza, come sempre, e se ne tornerà da dove è venuto. Odia questo paese.”
Santiago Nasar sapeva che era proprio così, ma i fasti della chiesa avevano per lui un’attrazione irresistibile. «E’ come il cinema» mi aveva detto una volta. A sua madre, invece, l’unica cosa che premeva dell’arrivo del vescovo era che il figlio non si dovesse bagnare sotto la pioggia, poiché l’aveva sentito starnutire mentre dormiva. Gli consigliò di portare un ombrello, ma egli le fece un cenno di addio con la mano e uscì dalla stanza. Fu l’ultima volta che lo vide.
Victoria Guzmán, la cuoca, era sicura che né quel giorno, né in tutto il mese di febbraio, aveva piovuto. «Al contrario» mi disse quando venni a trovarla, poco prima della sua morte. «11 sole cominciò a scaldare un po’ prima che in agosto.» Stava squartando tre conigli per il pranzo, circondata da cani ansimanti, quando Santiago Nasar entrò in cucina. «Si alzava sempre con un viso da nottataccia» ricordava senza amore Victoria Guzmán. Sua figlia, Divina Flor, che cominciava appena a fiorire, servì a Santiago Nasar una gran tazza di caffè rustico con uno schizzo d’alcol di canna, come faceva tutti i lunedì, per aiutarlo a smaltire il peso della notte precedente. La cucina enorme, con il sussurro del fuoco e le galline addormentate sulle grucce, pareva respirare col fiato sospeso. Santiago Nasar masticò un’altra aspirina e si sedette a bere a lunghe sorsate la tazza grande di caffè, con lento pensare, senza staccare lo sguardo dalle due donne che sbudellavano i conigli sul fornello. Nonostante l’età, Victoria Guzmán conservava un’aria ancora florida. La fanciulla, un po’ selvatica, sembrava soffocata dall’impeto delle sue glandole. Santiago Nasar l’afferrò per il polso nel momento in cui si accostò per ritirare la tazza vuota.
“Sei già in età da prendere il morso” le disse.
Victoria Guzmán gli mostrò il coltello insanguinato.
“Lasciala perdere, bianco” gli ordinò con serietà. “Di quest’acqua non berrai finché io camperò.”
Era stata sedotta da Ibrahim Nasar nella pienezza dell’adolescenza.
L’aveva amata in segreto per vari anni nelle stalle della hacienda, e se la portò a servire in casa quando gli venne meno l’affetto. Divina Flor, che era figlia d’un marito più recente, si sapeva destinata al letto furtivo di Santiago Nasar, e questa idea le provocava una trepidazione prematura. «Non s’è più visto nascere un altro uomo come quello» mi disse, grassa e appassita, e circondata dai figli di altri amori. «Era identico a suo padre» le replicò Victoria Guzmán. «Un gran merda.» Ma non poté eludere una raffica di spavento nel rammentare l’orrore che aveva assalito Santiago Nasar quando lei strappò alle radici le viscere di un coniglio e gettò ai cani le trippe fumiganti.
“Non essere bestiale” le disse. “Pensa se fosse un essere umano.”
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore sudamericano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Gabriel García Márquez.
Lascia un commento